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Condanna dell’Italia per la non gestione dell’emergenza rifiuti in Campania: moderna grida manzoniana?

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Si conclude oggi l'analisi della sentenza nella causa C-297/08 (il documento è scaricabile dalla sezione rifiuti del sito previa registrazione gratuita), che ha condannato l'Italia per la gestione dei rifiuti nell'emergenza rifiuti in Campania.
Dopo la cronistoria dei fatti, succedutisi dal 1994 (a questo proposito v. il post Emergenze rifiuti dal 1994), e l'analisi delle posizioni delle parti (Condanna dell'Italia per la non gestione dei rifiuti in Campania: le contestazioni e "le scuse"),vediamo ora cosa ha detto la Corte di Giustizia.

La Corte di Giustizia ha subito sgombrato il campo da equivoci: oggetto di questa causa, ha sottolineato, sono i rifiuti urbani, non quelli pericolosi.
Non si discute, dunque, di rifiuti il cui alto grado di specificità impone un trattamento specifico, che può essere utilmente raggruppato all’interno di una o più strutture a livello nazionale, o persino nell’ambito di una cooperazione con altri Stati membri.

Si parla di rifiuti urbani non pericolosi, per i quali non sono necessari, in linea di principio, impianti specializzati come quelli richiesti per lo smaltimento dei rifiuti pericolosi: ergo, gli Stati membri devono adoperarsi per disporre di una rete che consenta loro di soddisfare l’esigenza di impianti di smaltimento quanto più vicini possibile ai luoghi di produzione, ferma restando la possibilità di organizzare una rete siffatta nell’ambito di cooperazioni interregionali, o addirittura transfrontaliere, che rispondano sempre al principio di prossimità.


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Condanna dell’Italia per la non gestione dell’emergenza rifiuti in Campania: le contestazioni e “le scuse”

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Nel precedente post (Emergenze rifiuti dal 1994) abbiamo ripercorso la vicenda che ha condotto alla sentenza di condanna dell’Italia per la “gestione” dei rifiuti in Campania, dopo ben 16 anni di emergenze rifiuti…

Ora analizziamo gli argomenti delle parti: le contestazioni, è bene ricordarlo, riguardavano gli artt. 4 e 5 della direttiva 2006/12/CE (ora sostituita dalla direttiva 2008/98/CE), che stabilivano, rispettivamente, che:


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Emergenze rifiuti dal 1994

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Ho fatto un giro in rete, alla ricerca di qualche commento sulla recente, nuova condanna dell’Italia in materia ambientale del marzo 2010 (nella fattispecie, in relazione alla gestione dei rifiuti in Campania, perennemente emergenziale), sperando di trovare, finalmente, qualcosa di serio, di approfondito.

Inutile dirvi che, quando non mi sono imbattuto in rapidissimi flash, o in articoli da giornalismo della pro loco, a farla da padrone sono stati i “commenti” dei tanti facinorosi fan dell’una e dell’altra sponda: per farvi una vaga idea, leggete il "qualunquismo coatto e disinformato de noantri", dove l’analisi è bandita, la volgarità spiccia dilaga, e il servilismo di bandiera sventolato come un trofeo di cui andare fieri.

Eppure non ci vuole la scienza infusa per capire che la gestione dei rifiuti è un problema serio – e lungi dall’essere risolto – sul quale non si possono e non si devono neanche azzardare i soliti, nostrani e ruspanti battibecchi da bar sport, e pensare di aver risolto il problema “emergenza rifiuti”.

Avete visto la puntata “sole-vento-alberi” di Presa Diretta, lo scorso 7 marzo 2010?
Iacona ha sottolineato, mille e mille volte, quasi “meravigliato”, che negli altri paesi, su questioni di vitale importanza come la tutela dell’ambiente, tutte le forze politiche convergono, fanno fronte unico, e si impegnano nella progettazione di un futuro (e di uno sviluppo) sostenibile, di un progetto di vita concreto, di un modello di società umano.
Da noi, oltre il parassitismo di una politica litigiosa, e la opprimente presenza di una burocrazia ammantata di ridicolo, non c’è che un deserto ideologico sterile, una “dignità fatta di vuoto”.

Proviamo a leggere insieme cosa ha detto la sentenza della Corte di Giustizia (C-297/08 - Emergenza rifiuti in Campania, condanna dell’Italia, liberamente scaricabile dal sito di Natura Giuridica, previa semplice registrazione a Natura Giuridica), e, quindi, a trarre delle semplici conclusioni logiche…


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Danni all’ambiente: ipotesi di colpa

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In estrema sintesi: le norme dettate dalla direttiva 2004/35/CE sul danno ambientale non si applicano ai danni all’ambiente causati da attività realizzatesi prima del 30 aprile del 2007, e pertanto non osta a norme nazionali disciplinanti la riparazione di tali danni.

La direttiva 2004/35, inoltre, non impedisce che vengano emanate norme che prevedano una responsabilità per danni all’ambiente svincolata dall’esistenza di un dolo o di una colpa.

Ciò che invece la direttiva 2004/35/CE impedisce è la previsione di una responsabilità per danni ambientali che sia del tutto indipendente da un contributo causale del danno ambientale: la direttiva sul danno ambientale osta ad una responsabilità per danni ambientali indipendente da un contributo alla causazione dei medesimi soltanto se ed in quanto essa abbia l’effetto di elidere quella incombente a titolo prioritario sull’operatore che ha causato i danni in questione.


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Danno ambientale: di chi è la colpa?

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Sul sito di Natura Giuridica sono state pubblicate le conclusioni dell’Avv. Generale della Corte di Giustizia Juliane Kokott, che riguardano una materia di grande interesse, oltre che di estrema attualità: come ci si deve comportare di fronte ad inquinamenti pregressi?

Quale normativa occorre applicare in caso di inquinamento diffuso, risalente nel tempo?
E quale, invece, per i danni di nuova formazione prodottisi per propagazione di danni preesistenti?
Di chi è la colpa dell’inquinamento?
È concepibile una responsabilità da posizione, che viene addossata, cioè, al soggetto in virtù del solo rapporto di posizione nel quale si trova (ad esempio perché si tratta di un operatore che svolge la propria attività all’interno del sito)?
Quali sono i confini del principio “chi inquina paga”?

Come avrete notato, si tratta di problematiche di un certo spessore, la cui risoluzione è fondamentale per mettere ordine ad un sistema in cui il rischio è di non punire i reali responsabili di danni ambientali, da un lato, e di prendersela con “il primo che capita”, dall’altro.


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Tassa rifiuti a spanne…

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Nel post dello scorso 29 luglio 2009, Chi inquina paga (e i cocci sono suoi) vi parlavo delle conclusioni dell’Avv. Generale della Corte di Giustizia nella causa C-254/08, relativa alla gestione dei rifiuti e, in particolare, alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani: l’Avv. Generale Kokott, in sintesi, sosteneva che “non si può esigere un’esatta liquidazione dei costi, ma occorre fare riferimento all’appartenenza ad un gruppo responsabile nel suo complesso per l’inquinamento ambientale, espressione della responsabilità di gruppo”.


Sulla scia di queste conclusioni, la Corte di Giustizia ha affermato/confermato che la normativa comunitaria (art. 15 lett. a), della direttiva 2006/12/CE) “non osta ad una normativa nazionale che disponga la riscossione, per il finanziamento di un servizio di gestione e smaltimento dei rifiuti urbani, di una tassa calcolata sulla base di una stima del volume di rifiuti generato dagli utenti di tale servizio e non sulla base del quantitativo di rifiuti da essi effettivamente prodotto e conferito”.

Al giudice a quo spetta accertare, sulla scorta degli elementi di fatto e di diritto sottopostigli, se la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni non comporti che taluni «detentori» (nel caso di specie: aziende alberghiere) non si facciano carico di costi manifestamente non commisurati ai volumi o alla natura dei rifiuti da essi producibili.

Una sentenza che fa discutere, su cui Natura Giuridica tornerà a breve con gli approfondimenti del caso: certo che basarsi su una responsabilità di gruppo per giustificare una “tassa a spanne” rischia di vanificare proprio quel principio (“chi inquina paga”) che addossa al responsabile dell’inquinamento l’esclusiva responsabilità dei costi per la sua “gestione”.

Per un approfondimento sulla “questione tariffa”, con particolare riguardo alla giurisdizione in materia, leggi anche:

Sulla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 238/09, v. lexambiente

Leggi il testo integrale della Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, nella causa C-254/08

Foto: “Manteniamo le distanze” originally uploaded by crimistar / loris viviano



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OGM: precauzione prima di tutto

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Nella sentenza pubblicata sul sito di Natura Giuridica (Il sito di consulenza ambientale che offre servizi professionali di consulenza per imprese e pubbliche amministrazioni in materia di diritto ambientale), la Corte di Giustizia delle Comunità europee (sentenza del 17 febbraio 2009 nella causa C-552/07) si è occupata degli OGM, organismi geneticamente modificati, analizzando, in particolare, la definizione di luogo di emissione di organismi geneticamente modificati, il concetto di emissione deliberata nell’ambiente di OGM, le possibilità “concesse” al consumatore di accedere ai documenti amministrativi e la libertà di accesso all’informazione.

Il tutto, alla luce del principio precauzionale, e degli obiettivi perseguiti dalla direttiva 2001/18/CE: la tutela della salute umana, il principio dell’azione preventiva e quello di precauzione, oltre alla trasparenza delle misure relative all’elaborazione e all’attuazione delle emissioni di OGM.

Per chi vuole approfondire l’iter della lunga e complessa vicenda che ha portato alla decisione della Corte di Giustizia, la sentenza è liberamente scaricabile sulle pagine di Natura Giuridica.


In questa sede è sufficiente sottolineare che la Corte – nel risolvere due questioni pregiudiziali, sottopostele dal Conseil d’Etat francese, nell’ambito di una controversia fra un Comune e un cittadino francese, in relazione al rifiuto di trasmettere a quest’ultimo le lettere prefettizie e le schede d’impianto relative a esperimenti di emissione deliberata di organismi geneticamente modificati – ha sottolineato che il «sito dell’emissione», ai sensi dell’art. 25 […] della direttiva 2001/18/CE, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati, è determinato da qualsiasi informazione, relativa all’ubicazione dell’emissione, fornita dal notificante alle autorità competenti dello Stato membro sul cui territorio deve avvenire l’emissione nel contesto delle procedure di cui agli artt. 6 8, 13, 17, 20 o 23 della medesima direttiva.

Non si può opporre alla comunicazione delle informazioni (indicate nell’art. 25) una riserva relativa alla protezione dell’ordine pubblico o di altri interessi tutelati dalla legge.



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Direttiva 2008/98: dalla nozione di rifiuto e terreno inquinato alla sentenza Van De Walle (Causa C-1/03)

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Come sapete, a novembre dell’anno scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee la direttiva 2008/98/CE in materia di rifiuti, di cui Natura Giuridica ha cominciato sinteticamente a parlare, e sulla quale tornerà a scrivere presto, con nuovi approfondimenti.

Molte le novità: fra queste, nell’ambito della definizione della nozione di rifiuto, il comma 1 dell’art. 2, che rende incondizionata l’esclusione dalla normativa sulla gestione dei rifiuti del “terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non escavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno”.

Facciamo un passo indietro, e torniamo all’analisi della nozione di rifiuto, così come sviluppata, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, al fine di apprezzare le differenze introdotte dalla direttiva 2008/9/CE rispetto all’elaborazione della Corte di Giustizia.


Finora abbiamo analizzato le sentenze:
Oggi parleremo della sentenza Van De Walle (Causa C-1/03), che ha riguardato proprio il caso di un terreno contaminato da idrocarburi…

La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata proposta nell’ambito di un procedimento penale a carico dei sigg. Van de Walle e altri, responsabili della società Texaco Belgium SA i quali, in conseguenza di una fuoriuscita accidentale di idrocarburi da una stazione di servizio gestita sotto le insegne della detta società, si sarebbero resi colpevoli del reato di abbandono di rifiuti.

Per il riassunto dei fatti che hanno condotto alla sentenza della Corte di Giustizia (Causa C-1/03) rinvio al testo integrale della sentenza Van De Walle.
In estrema sintesi, di seguito riporto quanto statuito dalla Corte di Giustizia: come vedrete, la nuova direttiva si è mossa in direzione diametralmente opposta a quanto delineato dalla Corte di Giustizia...
Costituiscono rifiuti, ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, idrocarburi che siano stati sversati in modo non intenzionale e che siano all’origine di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee. Lo stesso vale per il terreno inquinato da idrocarburi, ivi compreso il caso in cui tale terreno non sia stato rimosso. In circostanze quali quelle di cui alla causa principale, la società petrolifera fornitrice della stazione di servizio può essere considerata detentrice di tali rifiuti, ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, soltanto nel caso in cui la fuoriuscita dagli impianti di stoccaggio della stazione di servizio, che è all’origine dei rifiuti in questione, sia imputabile al suo comportamento.
Nella specie, la Corte ha affermato che costituiscono rifiuti non solo gli idrocarburi sversati in modo non intenzionale, fonte di un inquinamento del terreno e delle acque sotterranee, ma anche il terreno inquinato da idrocarburi (ivi compreso il caso in cui tale terreno non sia stato rimosso) fuoriusciti da una stazione di servizio oggetto di un contratto di affitto commerciale e gestito in forza di un «accordo di gestione», il quale prevedeva che i terreni, i fabbricati, i materiali e i beni mobili aziendali venissero messi dalla proprietaria a disposizione del gestore stesso.

A presto, con nuovi episodi del lungo cammino interpretativo della Corte di Giustizia sulla nozione di rifiuto.

Foto: “petrolio” originally uploaded by fe_pop


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CDR-Q, rottami ferrosi e rifiuti: un’altra condanna per l’Italia

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La sentenza della Corte di Giustizia di cui vi riporto le massime (Causa C-283/07) prende le mosse da un ricorso presentato dalla Commissione delle Comunità europee, con il quale si chiedeva alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo adottato (e mantenendo in vigore…) disposizioni per mezzo delle quali
  • certi rottami destinati all'impiego in attività siderurgiche e metallurgiche e
  • il combustibile da rifiuti di qualità elevata (il «CDR-Q»)
sono sottratti a priori all'ambito di applicazione della legislazione italiana sui rifiuti è venuta meno agli obblighi derivanti dall'art. 1, lett. a), della medesima direttiva.


Per quanto riguarda i rottami destinati alla produzione siderurgica o metallurgica la Corte ha sinteticamente, affermato che, nel contesto della direttiva 75/442/CEE la portata della nozione di rifiuto:
  • dipende dal significato del termine «disfarsi», che deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva stessa;
  • non può essere interpretata in senso restrittivo (cfr sentenza ARCO),
  • e l'effettiva esistenza di un rifiuto ai deve essere accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia.
Alcune circostanze possono costituire indizi della sussistenza di un'azione, di un'intenzione oppure di un obbligo di disfarsi di una sostanza o di un oggetto.

In particolare, la nozione di rifiuto non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica: il sistema di vigilanza e di gestione stabilito dalla direttiva 75/442, infatti, si applica a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo.

La giurispridenza della Suprema Corte di Giustizia ha affermato che anche un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di disfarsi, ma che intende sfruttare o commercializzare a condizioni favorevoli in un processo successivo: tuttavia, occorre circoscrivere il ricorso a tale argomentazione relativa ai sottoprodotti, a quelle situazioni in cui il riutilizzo, compreso quello per i fabbisogni di operatori economici diversi da quello che li ha prodotti, non sia solo eventuale, bensì certo, prescinda da operazioni di trasformazione preliminare, ed avvenga nel corso del processo di produzione.

Nel caso di specie, la Corte di Giustizia ha ritenuto fondato il ricorso della Commissione europea volto a dichiarare che la Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore disposizioni con le quali sottraeva a priori dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i rottami ferrosi destinati all’impiego in attività siderurgiche è venuta meno agli obblighi derivanti dall'art. 1, lett. a), della medesima direttiva.

La Corte ha sottolineato che i rifiuto, malgrado la loro conformità a talune specifiche tecniche nazionali ed internazionali, costituiscono residui di produzione o di consumo non ricercati in quanto tali.
Inoltre, non si può escludere che il «riutilizzo effettivo» in attività siderurgiche e metallurgiche venga effettuato solo dopo il decorso di un periodo di tempo notevole, se non addirittura indeterminato, e che pertanto siano necessarie delle operazioni di stoccaggio durevole dei materiali in questione.

Per quanto concerne, invece il CDR-Q,la Corte di Giustizia ha affermato che il recupero completo di rifiuti non è sufficiente, di per sé, a determinare se la sostanza risultante costituisca o meno un rifiuto, ma rappresenta solamente uno degli elementi che devono essere presi in considerazione al fine di stabilire una conclusione definitiva in merito.
La «certezza dell'utilizzo effettivo» del CDR-Q non rappresenta un criterio rilevante al fine di escludere definitivamente l'azione, l'intenzione, o l'obbligo del detentore del CDR-Q di disfarsene.
Il riutilizzo certo di un bene o di un materiale è soltanto una delle tre condizioni necessarie per qualificare detto bene o materiale come sottoprodotto.

Nel caso di specie, la Corte di Giustizia ha ritenuto fondato il ricorso della Commissione, sottolineando che il CDR-Q non costituisce il risultato di un recupero completo, bensì soltanto il risultato di una fase ad esso precedente.

Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, causa C-283/07 (rottami ferrosi e CDR-Q)

Foto: “ai confini della civiltà” originally uploaded by SuperUbO

Foto: “European Court of Justice – Luxembourg” originally uploaded by Cédric Puisney



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Incenerimento e rifiuti gassosi

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La nozione di «rifiuto» contenuta all’art. 3, punto 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 dicembre 2000, 2000/76/CE, sull’incenerimento dei rifiuti, non riguarda sostanze che si presentano in forma gassosa.

La nozione di «impianto di incenerimento» di cui all’art. 3, punto 4, della direttiva 2000/76 riguarda qualsiasi unità o attrezzatura tecnica destinata al trattamento termico dei rifiuti, purché le sostanze che risultano dall’impiego del trattamento termico siano successivamente incenerite e, a tale riguardo, la presenza di una linea di incenerimento non costituisce un criterio necessario ai fini di tale qualifica.

In circostanze come quelle di cui alla causa principale:
  • un impianto di gassificazione che persegue l’obiettivo di ottenere prodotti in forma gassosa, nella fattispecie un gas depurato, sottoponendo determinati rifiuti a un trattamento termico deve essere qualificato come un «impianto di coincenerimento» ai sensi dell’art. 3, punto 5, della direttiva 2000/76;
  • una centrale elettrica che utilizza come combustibile aggiuntivo, in sostituzione di combustibili fossili impiegati in prevalenza nella sua attività di produzione, un gas depurato ottenuto dal coincenerimento di rifiuti in un impianto di gassificazione non rientra nella sfera di applicazione di tale direttiva.

In estrema sintesi, una società finlandese, la Lathi - che aveva chiesto un’autorizzazione ambientale riguardante l’attività del suo impianto di gassificazione e della sua centrale elettrica - ha impugnato una decisione dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione, che qualificava i due impianti come un unico impianto di coincenerimento, al fine di ottenerne l’annullamento.

Il Korkein hallinto-oikeus, chiamato a pronunciarsi sull’appello presentato dalla Lathi sulla sentenza che aveva respinto il ricorso, ha deciso di sospendere la sua pronuncia e di sottoporre alla Corte quattro questioni pregiudiziali:
  1. L’art. 3, punto 1, della direttiva 2000/76/CE, deve essere interpretato nel senso che la direttiva non è applicabile all’incenerimento di rifiuti gassosi?
  2. Un impianto di massificazione deve essere considerato un impianto di incenerimento, anche qualora in tale impianto non vi sia alcuna linea di incenerimento?
  3. L’incenerimento nella caldaia di una centrale elettrica di gas formatosi in un impianto di gassificazione e depurato dopo il processo di massificazione, deve essere considerato un procedimento di incenerimento? Ha rilevanza, a tale riguardo, il fatto che il gas prodotto e depurato sostituisce il carburante fossile e che le emissioni della centrale elettrica per unità di energia prodotta, impiegando il gas ottenuto da rifiuti e depurato, sono inferiori rispetto a quelle derivanti dall’impiego di altri carburanti?
  4. E’ rilevante il fatto che l’impianto di gassificazione e la centrale elettrica, da un punto di vista tecnico-funzionale e in considerazione della distanza a cui si trovano, costituiscono un unico impianto? Oppure il fatto che il gas prodotto, formatosi nell’impianto di gassificazione e depurato, può essere trasportato e utilizzato come carburante o per altri scopi in altro luogo, ad esempio per la produzione di energia?
La Corte di Giustizia, riprendendo alcuni passi delle conclusioni dell’avvocato generale Kokott, ha enunciato le massime, riportate in esordio.

Foto: “Usine d'incinération” originally uploaded by shadow light



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TAR Catania - Questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia europea

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L’“ultimo grido” in tema di bonifiche dei siti contaminati è rappresentato dall’ordinanza del TAR Catania, Sez. I, n. 308 del 15 luglio 2008, emanata in seguito alla domanda di sospensione dell’esecuzione di alcuni provvedimenti del Ministero dell’Ambiente avanzata dalla ENI SpA.

Nel ricorso, l’ENI SpA censurava le prescrizioni ministeriali che imponevano:
  • un barrieramento fisico delle acque di falda, in luogo di quello idraulico originariamente previsto e realizzato e
  • nuovi criteri per la restituzione delle aree agli uso legittimo dei terreni già bonificati.
In sostanza, la società, dopo aver evidenziato che una precedente Conferenza di Servizi (del luglio 2005) aveva:
  • recepito ed approvato determinate modalità di gestione degli interventi di ristrutturazione o manutenzione all’interno del sito perimetrato, proposte da alcuni Comuni in procedimenti paralleli pendenti su altri siti;
  • consentito, a determinate condizioni, la realizzazione degli interventi di ristrutturazione in alcune aree del sito perimetrato con attività di bonifica in corso, a condizione che non interferissero con le matrici ambientali interessate e non pregiudicassero la successiva bonifica delle stesse (con esclusione di scavi ed interventi edilizi veri e propri).
  • consentito anche l’effettuazione di interventi edilizi (scavi finalizzati all’installazione di strutture impiantistiche) in aree interne al perimetro, purché i terreni fossero risultati conformi ai limiti normativi all’esito di una caratterizzazione, da condursi con determinate modalità;
  • consentito la realizzazione immediata di interventi qualificabili come a) “opere pubbliche”, e b) opere “private” che rivestissero carattere di indifferibilità ed urgenza e che comportassero una limitata movimentazione di terreno
si doleva del fatto che:

* senza alcuna motivazione;
* senza contraddittorio con i soggetti interessati, nonché
* al di fuori della conferenza di servizi istruttoria

la successiva Conferenza di Servizi decisoria del 6 marzo 2008 aveva deliberato di “revocare” tali criteri e di approvarne di nuovi…

I nuovi criteri per la restituzione delle aree agli usi legittimi prevedevano che:
  • i soggetti interessati al riutilizzo delle aree non più contaminate dovessero presentare i progetti di bonifica delle matrici ambientali contaminate, previa idonea caratterizzazione delle medesime
  • lo svincolo delle aree de quibus avvenisse solamente in seguito all’attuazione del progetto definitivo di bonifica delle acque di falda, basato sul marginamento fisico.
In questo modo, secondo la ricorrente, l’Amministrazione bloccherebbe l’esecuzione di ogni tipo di intervento sul sito (persino quelli di manutenzione straordinaria, indifferibili ed urgenti) fino alla realizzazione della ritenuta incongrua opera di confinamento fisico, relativa peraltro alla falda e non ai terreni…
Come capirete, si tratta di problemi non secondari…


Per decidere sulla domanda cautelare posta, il Giudice estensore – Salvatore Costantino Gatto – ha premesso che è necessario valutare la conformità del diritto nazionale al diritto comunitario…
Tuttavia, la normativa comunitaria sembra non disciplinare fattispecie di questo tipo, caratterizzate dalla presenza di:
  • fenomeni risalenti di inquinamento ed, al contempo
  • una pluralità di soggetti imprenditoriali, che operano nel campo degli idrocarburi e della produzione e trattamento industriale di sostanze aventi rilievo ambientale.
In casi come questo, nel silenzio della normativa comunitaria, si potrebbe anche dubitare dell’operatività concreta del principio “chi inquina paga”…

In concreto: se così stessero le cose, la P.A. – stante la complessità della situazione, e la compromissione delle matrici ambientali – sarebbe, di fatto, legittimata ad operare d’autorità, senza il rispetto delle regole sul contraddittorio e sulla motivazione del procedimento, imponendo le soluzioni che reputa più idonee a contenere gli effetti della produzione industriale inquinante.

Fatta questa premessa, il Giudice estensore ha ritenuto necessario disporre la rimessione alla Corte di Giustizia della Comunità Europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 234 del vigente Trattato della Comunità Europea, di tre questioni pregiudiziali.

La direttiva comunitaria in materia di risarcimento per danno ambientale impedisce ad uno Stato membro di adottare una normativa nazionale che consenta alla Pubblica Amministrazione di imporre:
  1. quali “ragionevoli opzioni di riparazione del danno ambientale”, interventi sulle matrici ambientali (costituiti, nella specie, dal “confinamento fisico” della falda lungo tutto il fronte mare) diversi ed ulteriori rispetto a quelli prescelti all’esito di una apposita istruttoria in contraddittorio, già approvati, realizzati e in corso di esecuzione?
  2. tali prescrizioni senza aver valutato le condizioni sito-specifiche, i costi di attuazione in relazione ai benefici ragionevolmente prevedibili, i possibili o probabili danni collaterali ed effetti avversi sulla salute e la sicurezza pubblica, i tempi necessari alla realizzazione?
  3. tali prescrizioni quali condizioni per l’autorizzazione all’uso legittimo di aree non direttamente interessate alla bonifica, in quanto già bonificate o comunque non inquinate, comprese nel perimetro del Sito di Interesse nazionale di Priolo?
Alla Corte di Giustizia l’“ardua sentenza”…

Foto: “si, sono esaurita” originally uploaded by il custode negli occhi



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L’insostenibile leggerezza dell’essere…sottoprodotto

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È stato da poco pubblicato il n. 4-5 del 2008 della Rivista Consulting, Geva Edizioni.


Questo è il sommario (collegandovi al sito della GEVA potete leggere l’editoriale):

Massimo Jandolo, ne "L'uso dei silicati minerali per eliminare l'acido fluoridrico" illustra una nuova tecnica di smaltimento.

Stefano Bernardi indica "Le corrette norme di comportamento" nella gestione di rifiuti aziendali, mentre Gian Luca Montel spiega i perché della “Sicurezza della trattrice agricola”.

Nella rubrica GREenERGY l’Ing. Leonardo Evangelista delinea le "Luci e…soprattutto le ombre del fotovoltaico", oggi.
Anch’io ho collaborato alla redazione della Rubrica GREenERGY, in questo numero, con un articolo in materia di sottoprodotti, che ho voluto intitolare, un po’ provocatoriamente: L'insostenibile leggerezza dell'essere... sottoprodotto - Le modifiche alla nozione di sottoprodotto introdotte nel secondo decreto correttivo”

Seguono gli articoli di
Paolo Ghelfi: "Metodi ed esperienze per l'organizzazione aziendale - L'importanza della misura dei fenomeni"

Marilena Serafini: "Domande e risposte sulla certificazione energetica"

Nicola G. Grillo: "Tecnico o consulente Tecnico? - Gestione aziendale e imprenditorialità"

Lidia Mancini: "Testo Unico e sicurezza sul lavoro - Diverse idee, ma ancora poche soluzioni concrete"

Domenico Grillo: "Caro petrolio... Quanto costi realmente?"

Nello Speciale, l’Ing. Grillo parla di "Energia nucleare: Riprendere o lasciare?"

Per informazioni sull’abbonamento, collegati al sito della GEVA Edizioni.

Vi riporto alcuni stralci del mio articolo: "L’insostenibile leggerezza dell’essere…sottoprodotto".


Nel primo paragrafo, intitolato “Le modifiche alla nozione di sottoprodotto introdotte nel secondo decreto correttivo”, analizzo le novità introdotte, nella disciplina sulla gestione dei rifiuti, in relazione alla definizione di sottoprodotto, sottolineando come
nel complesso – è stato sottolineato in dottrina – “si tratta di certo di un testo senza dubbio migliore rispetto al precedente anche sotto il profilo della tecnica legislativa […].
Ciò non toglie, peraltro, che rimane qualche dubbio riguardo alla opportunità della scelta stessa di fissare in un testo legislativo dei criteri che - essendo unicamente il frutto di elaborazioni giurisprudenziali - sono ovviamente di difficile interpretazione e mutevoli nel tempo”: la tecnica legislativa, infatti, può suscitare perplessità “in quanto fotografa un fenomeno in evoluzione che, con il tempo, rischia di essere sempre meno fedele rispetto all’oggetto rappresentato, così da obbligare il legislatore italiano a continui interventi di riallineamento della disposizione interna alla norma comunitaria, quando la differenza non sia più colmabile attraverso il ricorso all’interpretazione adeguatrice”.
Nel secondo paragrafo, "La comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti", dopo aver delineato i punti salienti della “Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti” del 21 febbraio 2007, nella quale la Commissione ha evidenziato che, in alcuni casi, è problematico distinguere fra:
  • materiali che non sono l'obiettivo primario di un processo di produzione (ma che possono essere considerati sottoprodotti non assimilabili a rifiuti), e
  • materiali che devono invece essere trattati come rifiuti
analizzo le linee fondamentali delle linee guida interpretative:

1) la prima riguarda il materiale risultato di una scelta tecnica […]
2) nella seconda la Commissione elenca le tre condizioni che gli stessi devono soddisfare per essere considerati sottoprodotto (e non rifiuto):
  • la certezza del suo utilizzo;
  • l’assenza di una previa trasformazione preliminare del residuo di produzione.
  • la continuità del processo di produzione.
3) nella terza, infine, la Commissione “snocciola” altri elementi che, sulla base dell’esperienza “vagliata” dalla Corte di Giustizia, possono essere utili - pur non costituendo una prova irrefutabile – per distinguere, nel concreto, fra rifiuti e sottoprodotti.
Nel terzo paragrafo, "La posizione comune definita dal Consiglio il 20 dicembre 2007: meno limiti per i sottoprodotti…?", viene analizzata brevemente la posizione comune del 20 dicembre 2007, adottata dal Consiglio dell’Unione e dal Parlamento in vista dell’adozione delle nuova direttiva in materia di rifiuti, mentre nel paragrafo successivo ("…e la raccomandazione del Parlamento"), si accenna al Progetto di risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 18 aprile 2008, che ha ritenuto opportuno di intervenire ulteriormente in materia.



Nelle conclusioni finali sottolineo come l’assenza di chiarezza giuridica ha sicuramente reso difficile l'applicazione della definizione di rifiuto, sia per le autorità competenti che per gli operatori economici, creando, a volte, disparità nel trattamento fra gli operatori economici e ostacolando il mercato interno.

“non si tratta di discorsi meramente teorici:
- da un lato, un'interpretazione troppo ampia della definizione di rifiuto imporrebbe alle aziende costi superflui, rendendo meno interessante un materiale che, invece, sarebbe potuto invece rientrare nel circuito economico;
- dall’altro, un'interpretazione troppo restrittiva potrebbe tradursi in danni ambientali e pregiudicare l'efficacia della legislazione e delle norme comunitarie in materia di rifiuti.
Credo che – stante la già difficile ricerca di un’adeguata nozione di rifiuto, oltre alla complessità dei “processi di produzione” (“partecipati”, nella preparazione del materiale per il suo riutilizzo, anche da utilizzatori successivi e intermediari, senza che per questo si debba necessariamente ritenere di essere in presenza di un «diverso» processo produttivo) – la nozione di sottoprodotto, imbavagliata in stretti parametri giuridici, che non riescono a descrivere l’analitica realtà quotidiana, sia… “insostenibile”, e che continuare a mantenere (in Italia, e introdurre, in Europa) una definizione “statica” di un “fenomeno” in continua evoluzione sia controproducente.

Così come, ad avviso di scrive, non sembra condivisibile l’orientamento rigido della Cassazione, che tende a negare aprioristicamente la possibilità di configurare un «sottoprodotto» nel caso di intervento di un terzo nell’ambito del processo produttivo (anche a titolo di mera detenzione della sostanza)…
Come ha giustamente sottolineato la Commissione nelle linee guida del 21 febbraio 2007, è preferibile il ricorso a linee guida, strumento più…“leggero”, flessibile e meglio adattabile al cospetto dell’incessante evolversi della tecnologia.
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Incenerimento di rifiuti

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Sentenza della Corte di Giustizia nella causa C-251/07

Nel post del 28 maggio 2008 vi riportavo le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia delle comunità europee, Juliane Kokott, nella causa C-251/07, in materia di incenerimento di rifiuti: con la sentenze dell’11 settembre 2008, la Corte di Giustizia, come preannunciato nel post – dopo averle più volte richiamate – le ha sostanzialmente riprese, stabilendo che
Ai fini dell’applicazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 dicembre 2000, 2000/76/CE, sull’incenerimento dei rifiuti, qualora una centrale termoelettrica comprenda più caldaie, ogni caldaia nonché le attrezzature ad essa connesse devono essere considerate quale impianto distinto.
Un impianto dev’essere qualificato «impianto di incenerimento» ovvero «impianto di coincenerimento», ai sensi dell’art. 3, punti 4 e 5, della direttiva 2000/76, in considerazione della sua funzione principale. Spetta alle autorità competenti individuare tale funzione sulla base di una valutazione degli elementi di fatto esistenti al momento dell’effettuazione della valutazione stessa. Nell’ambito di tale valutazione occorrerà tener conto, in particolare, del volume della produzione di energia o di prodotti materiali generati dall’impianto di cui trattasi rispetto al quantitativo di rifiuti inceneriti nell’impianto medesimo nonché della stabilità o continuità di tale produzione.
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Coke da petrolio e rifiuto a confronto

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Continuando la rassegna di giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee in materia di nozione di rifiuto, è la volta di analizzare, in breve, l’ordinanza “Saetti e Frediani del 15 gennaio 2004, cui avevo accennato in un post precedente.

La vicenda nasce dall’ordinanza con la quale il 19 giugno 2002 il GIP presso il Tribunale di Gela ha sottoposto alla Corte ben quattro questioni pregiudiziali in materia di rifiuti.

Ma procediamo con ordine.

La perizia tecnica effettuata nello stabilimento della raffineria di petrolio di Gelacoke da petrolio, risultante dalla raffinazione del petrolio grezzo, come combustibile per la centrale di cogenerazione di vapore e di elettricità. – disposta dal PM presso il Tribunale di Gela in seguito ad una serie di denunce – ha accertato che la raffineria utilizzava il coke da petrolio, risultante dalla raffinazione del petrolio grezzo, come combustibile per la centrale di cogenerazione di vapore ed elettricità.

Il pubblico ministero ha ritenuto che il coke da petrolio costituisse un rifiuto soggetto al decreto legislativo n. 22/97…

Poiché questo era depositato ed utilizzato senza l'autorizzazione amministrativa prescritta dal Decreto Ronchi, il PM ha accusato i sigg. Saetti e Freudiani – direttore ed ex direttore della raffineria di petrolio di Gela gestita dall'AGIP Petroli SpA – del reato di inosservanza delle prescrizioni relative a tale autorizzazione.

Inoltre, il pubblico ministero ha ottenuto dal Giudice per le indagini preliminari il sequestro dei due depositi di coke da petrolio che alimentano la centrale di cogenerazione della raffineria (sequestro cui è stato posto fine in seguito all’entrata in vigore del decreto legge 7 marzo 2002, n. 22, il quale ha previsto che l'utilizzo del coke da petrolio è autorizzato, se ricorrono determinate condizioni).

IL GIP, dopo la conversione in legge del cit. decreto legge, continuava a ritenere che il coke da petrolio costituisse un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 e che, in assenza di una normativa comunitaria relativa al coke da petrolio, le autorità nazionali non potessero escluderlo dal campo di applicazione del decreto legislativo Ronchi.

Alla luce di queste circostanze il Giudice per le indagini preliminari decideva, quindi, di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
  1. Il coke da petrolio rientra nella nozione di rifiuto fornita dall'art. 1 della direttiva 75/442?
  2. Il suo utilizzo come combustibile costituisce attività di recupero a norma dell'art. 1 della stessa direttiva?
  3. Il coke da petrolio, utilizzato come combustibile per uso produttivo, rientra tra le categorie di rifiuti escludibili da uno Stato membro dall'applicazione della normativa comunitaria sui rifiuti, previa specifica regolamentazione a norma dell'art. 2 della direttiva 75/442?
  4. Infine, la sua utilizzabilità nel luogo di produzione, anche nei processi di combustione mirati a produrre energia elettrica o termica con finalità non funzionali ai processi propri della raffineria, purché le emissioni rientrino nei limiti stabiliti dalle disposizioni in materia, rappresenta una misura necessaria e sufficiente per assicurare che tale rifiuto sia recuperato senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti e metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente?
Rinviando al testo integrale dell'ordinanza l’approfondimento dell’iter logico seguito dalla Corte di Giustizia, in questa sede è sufficiente riportare la massima, con la quale il Giudice comunitario ha stabilito che
il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE.


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Avesta:rifiuto e sottoprodotto (sabbia di scarto da operazioni di arricchimento di minerale provenienti dallo sfruttamento di una miniera)

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La AvestaPolarit, società finlandese operante nel settore minerario, presentava presso il centro regionale una domanda di autorizzazione ambientale, per potere proseguire la sua attività di estrazione mineraria e di arricchimento del sito, sfruttato da una trentina di anni, che doveva passare progressivamente da uno sfruttamento a cielo aperto ad uno sfruttamento sotterraneo a decorrere dal 2002 (nella sentenza c’è una dettagliata descrizione della situazione ambietale circostante).


Il centro regionale concedeva l'autorizzazione ambientale richiesta subordinandola, però, a talune condizioni, in quanto riteneva che i detriti e la sabbia di scarto dovessero essere qualificati rifiuti, cui si applicano, di conseguenza, le procedure stabilite dalla legge nazionale.
In particolare, nella motivazione del provvedimento, il centro regionale osservava che:


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Sentenza Mayer Parry: nozione di rifiuto e riciclaggio. Trattamento dei rifiuti di imballaggio contenenti metallo (3)

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(segue da - sei nel terzo ed ultimo di 3 articoli che riguardano la sentenza della Corte di Giustizia Mayer Parry)

La definizione di riciclaggio precisa anche che il rifiuto può essere ritrattato in un processo di produzione per la sua funzione originaria «o per altri fini»: di conseguenza, la nozione di riciclaggio non è circoscritta al caso in cui il nuovo materiale o il nuovo prodotto, dalle caratteristiche paragonabili a quelle del materiale originario, è utilizzato per la stessa funzione di imballaggio metallico, in quanto anche un utilizzo per altri scopi integra la detta nozione (che possono essere i più disparati, a condizione che il ritrattamento dei rifiuti di imballaggio non si traduca in una forma di recupero di energia né sia effettuato mediante smaltimento, perché ciò contrasterebbe con la nozione stessa di riciclaggio come modo di recupero dei rifiuti).

Così interpretata, la definizione di riciclaggio soddisfa gli obiettivi della direttiva 94/62, perché assicura un elevato livello di tutela dell'ambiente, oltre a rispondere alle esigenze di chiarezza e di uniformità connesse agli obiettivi della direttiva stessa riguardo al buon funzionamento del mercato interno, consistenti in particolare nella prevenzione degli ostacoli agli scambi e delle distorsioni di concorrenza.

Alla stregua di tali chiarimenti, il materiale di grado 3 B, quale quello prodotto dalla Mayer Parry si può considerare rientrante in tale nozione?

Una premessa è d’obbligo: le parti nella causa principale non contestano che i materiali o gli oggetti alla base della produzione del materiale di grado 3 B fabbricato dalla Mayer Parry sono rifiuti di imballaggio.

Il problema è che la produzione di materiale di grado 3 B non costituisce un ritrattamento di rifiuti di imballaggio contenenti metallo per ripristinare lo stato iniziale di tale materiale, cioè l'acciaio, e riutilizzarlo conformemente alla sua funzione originaria, ovvero la lavorazione di imballaggi contenenti metallo, o per altri fini.
In sostanza, i rifiuti di imballaggio contenenti metallo ritrattati dalla Mayer Parry non sono sottoposti a un ritrattamento nell'ambito di un processo di produzione che conferisce al materiale di grado 3 B caratteristiche paragonabili a quelle del materiale di cui l'imballaggio metallico era costituito: di conseguenza, detto materiale, prodotto dalla Mayer Parry, non può essere considerato un rifiuto di imballaggio riciclato.

A questo punto, alla Corte rimaneva da accertare se l'utilizzo del materiale di grado 3 B nella produzione di lingotti, lamiere o bobine di acciaio, si potesse definire un'operazione di riciclaggio di rifiuti di imballaggio.

La risposta data dalla Corte di Giustizia è positiva, perché il processo di produzione della Marry Parry sfocia nella fabbricazione di nuovi prodotti, che hanno caratteristiche paragonabili a quelle del materiale di cui erano originariamente costituiti i rifiuti di imballaggio e che si possono impiegare per la medesima funzione iniziale cui era desinato il materiale originario, vale a dire per gli imballaggi metallici, o per altri scopi.

Quindi la Corte di Giustizia ha risolto la seconda questione nel senso che la nozione di «riciclaggio» (direttiva 94/62) dev'essere interpretata nel senso che essa non comprende il ritrattamento di rifiuti di imballaggio contenenti metallo quando questi sono trasformati in materia prima secondaria, come il materiale di grado 3 B, ma riguarda il ritrattamento di tali rifiuti quando sono utilizzati per la fabbricazione di lingotti, lamiere o bobine di acciaio.

Infine la Corte di Giustizia – rispondendo alla prima questione – ha affermato che la soluzione, sopra evidenziata, non cambierebbe se si prendessero in considerazione le nozioni di riciclaggio e di rifiuti cui si riferisce la direttiva 75/442…


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Sentenza Mayer Parry: nozione di rifiuto e riciclaggio. Trattamento dei rifiuti di imballaggio contenenti metallo (2)

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La Mayer Parry sosteneva che, secondo la giurisprudenza della Corte, esistono quattro principi guida che consentono di stabilire il momento in cui sono stati riciclati rifiuti:
  1. sapere se una sostanza è un «rifiuto» rientrerebbe nella competenza del giudice nazionale e tale questione andrebbe risolta alla luce dell'insieme delle circostanze del caso di specie;
  2. qualsiasi sostanza è un rifiuto se chi la possiede se ne disfa o vuole disfarsene;
  3. esisterebbe una distinzione tra il «recupero dei rifiuti» e il «trattamento industriale normale»;
  4. vi sarebbe recupero se il processo in questione permettesse di ottenere materie prime secondarie utilizzabili in un processo industriale: infatti, quando una materia prima secondaria è stata ottenuta a tale scopo come, nella causa principale, il materiale di grado 3 B prodotto dalla Mayer Parry, il recupero e quindi il riciclaggio si considererebbero ultimati e i materiali non costituirebbero più dei rifiuti.
Dal canto suo, l’Environment Agency – al fine di sapere in quale momento i rifiuti sono da considerarsi riciclati – sosteneva che:
  • da un lato, una sostanza non cessa di essere un rifiuto per il solo fatto che è posseduta da una persona diversa dal produttore originario e che tale persona non ha lei stessa l'intenzione o l'obbligo di disfarsene;
  • dall'altro, sebbene i rifiuti non cessino necessariamente di essere tali solo perché si può affermare che sono stati sottoposti a un'operazione di recupero, la descrizione di talune di queste operazioni potrebbe tuttavia consentire di determinare in quale momento un materiale cessa di essere un rifiuto (così, a titolo di esempio, riteneva che non vi fosse motivo di mantenere i controlli di gestione dei rifiuti su materiali che sono già stati utilizzati per la produzione di energia […)
In conlusione, l’agenzia per l’ambiente non riteneva che le attività di un'azienda quale la Mayer Parry porti al riciclaggio perchè, in qualità di produttore, essa effettuerebbe solamente operazioni di pretrattamento o altre operazioni che modificano la natura o la composizione dei rifiuti contenenti metallo trattati. (vedi testo sentenza Mayer-Parry).

La Corte di Giustizia, dopo aver sottolineato il rapporto fra le due direttive “chiamate in causa” (la direttiva 94/62 dev'essere considerata una legge speciale – lex specialis – rispetto alla direttiva 75/442 cosicché le sue disposizioni prevalgono su quelle di quest'ultima direttiva nei casi che essa intende specificamente disciplinare), ha stabilito quanto segue, partendo dalla seconda questione.

In base alla definizione di riciclaggio, sottolinea la Corte, il rifiuto di imballaggio dev'essere sottoposto a «un ritrattamento in un processo di produzione», il quale implica che il rifiuto di imballaggio dev'essere manipolato per produrre un nuovo materiale o per fabbricare un prodotto nuovo.
In questo senso, il riciclaggio si distingue nettamente da altre operazioni di recupero o di trattamento dei rifiuti previsti dalla normativa comunitaria, quali il recupero di materie prime e di composti di materie prime, il pretrattamento, il miscuglio o altre operazioni che mutano solo la natura o la composizione di detti rifiuti

Inoltre, un rifiuto può essere considerato riciclato solo se è stato sottoposto a un ritrattamento tale da ottenere un materiale nuovo o un prodotto nuovo «ai fini della sua funzione originaria»: in sostanza, il rifiuto dev'essere trasformato nel suo stato originario per poter, eventualmente, essere utilizzato per una funzione identica a quella che aveva inizialmente il materiale all'origine del rifiuto.
Detto in altri termini: un rifiuto di imballaggio contenente metallo dev'essere considerato riciclato quando è stato sottoposto a un ritrattamento nell'ambito di un processo finalizzato alla produzione di un nuovo materiale o a fabbricare un prodotto nuovo dalle caratteristiche paragonabili a quelle del materiale di cui era costituito il rifiuto, per poter essere riutilizzato per la produzione di imballaggi contenenti metallo.


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Sentenza Mayer Parry: nozione di rifiuto e riciclaggio. Trattamento dei rifiuti di imballaggio contenenti metallo

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Continua la rassegna di giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla nozione di rifiuto, cominciata con la sentenza Vessoso e Zanetti e proseguita con l’analisi delle sentenze Tombesi, Wallonie, Arco, Fornasar e Palin - Granit.
(I link agli articoli correlati si trovano a fondo pagina).

Oggi, proseguendo in rigoroso ordine cronologico, vi propongo la sentenza Mayer Parry (causa C-444/00).
In breve (il testo della sentenza è accessibile dal link Mayer Parry 444/00), la Mayer Parry è una società specializzata nel trattamento dei rifiuti contenenti metallo, al fine di renderli utilizzabili dalle acciaierie per la produzione dell'acciaio.

La Mayer Parry si procura rifiuti contenenti metallo (fra i quali quelli di imballaggio, in particolare di origine industriale), che hanno un valore commerciale e che la società generalmente deve acquistare.
Quindi raccoglie, ispeziona, controlla la radioattività, smista, pulisce, taglia, separa e frantuma (riduce in frammenti) tali rifiuti: mediante questo processo la Mayer Parry trasforma rifiuti contenenti metallo ferroso in un materiale dalle specifiche del grado 3 B, e lo vende ad acciaierie, che lo utilizzano per la produzione di lingotti, lamiere o bobine di acciaio.

La vicenda che ha condotto alla sentenza della Corte di Giustizia nasce dalla richiesta della Mayer Parry di essere accreditata come «trasformatore» (definito come soggetto le cui attività consistono nel recuperare e riciclare rifiuti) e dal successivo rifiuto da parte dell'Environment Agency inglese.

Nella conseguente controversia la High Court ritenendo che la causa necessitasse dell'interpretazione della normativa comunitaria, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

1. Nel caso in cui un'impresa tratti materiali di imballaggio, metalli ferrosi inclusi, che (quando ricevuti da quella impresa) costituiscono rifiuti […] smistandoli, pulendoli, tagliandoli, frantumandoli, separandoli e/o imballandoli in modo tale da rendere questi materiali adatti ad essere utilizzati come materia base nella fornace, per produrre lingotti, lamiere o bobine di acciaio, tali materiali devono considerarsi riciclati e cessano di essere rifiuti, qualora siano stati:
a) resi adatti ad essere utilizzati come materia base, o
b) utilizzati da un produttore di acciaio per la produzione di lingotti, lamiere o bobine di acciaio?
2. Questi materiali devono considerarsi come riciclati qualora siano stati:
a) resi adatti ad essere utilizzati come materia base, o
b) utilizzati da produttori di acciaio per produrre lingotti, lamiere o bobine di acciaio?

Sentenze citate a inizio articolo:
per Vessoso e Zanetti, guarda l'articolo pillole di giurisprudenza
per Tombesi, scarica il testo della sentenza Tombesi
per Wallonie, scarica il testo della sentenza Wallonie
per Arco, guarda l'articolo sulla nozione di rifiuto
per Fornasar, guarda l'articolo sulla qualificazione di rifiuto pericoloso
per Palin Granit, guarda l'articolo dal titolo Palin Granit: il sottoprodotto fa capolino nella giurisprudenza della Corte di Giustizia



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