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Responsabilità delle imprese: più informazioni ambientali nei bilanci societari

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Dal 2017 nei bilanci societari dovranno essere presenti maggiori informazioni ambientali 


Il Parlamento europeo ha integrato la disciplina relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, con l’obiettivo di portare la trasparenza delle informazioni sociali e ambientali fornite dalle imprese di tutti i settori ad un livello elevato comparabile in tutti gli Stati membri. 

L’obiettivo 
La comunicazione, da parte delle imprese, di informazioni sui fattori sociali ed ambientali è essenziale – sottolinea il Parlamento europeo – per individuare i rischi per la sostenibilità e accrescere la fiducia degli investitori e dei consumatori. 
Inoltre, la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario è fondamentale per gestire la transizione verso un’economia globale sostenibile coniugando redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell’ambiente. 
Le due più importanti novità concernono l’introduzione delle dichiarazioni (consolidata e non) di carattere non finanziario. 

La dichiarazione di carattere non finanziario: le modalità 
Chi riguarda: le imprese di grandi dimensioni che costituiscono enti di interesse pubblico e che, alla data di chiusura del bilancio, presentano un numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 500. 
Cosa devono fare: includere nella relazione sulla gestione una dichiarazione di carattere non finanziario. 
Contenuto della dichiarazione: 
  • “almeno” le informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale e al rispetto dei diritti umani;
  • una descrizione del modello aziendale; delle politiche applicate dall’impresa, comprese le procedure di due diligence applicate; dei risultati conseguiti; dei principali rischi; delle modalità di gestione adottate; degli indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario pertinenti per l’attività specifica dell’impresa. 
Per quanto concerne gli aspetti ambientali, è previsto un obbligo. La dichiarazione, infatti, deve contenere informazioni dettagliate riguardanti:
  • l’impatto attuale e prevedibile delle attività dell’impresa sull’ambiente nonché, ove opportuno, sulla salute e la sicurezza;
  • l’utilizzo delle risorse energetiche rinnovabili e/o non rinnovabili;
  • le emissioni di gas a effetto serra; • l’impiego di risorse idriche;
  • l’inquinamento atmosferico. 
Per quanto concerne gli aspetti sociali e attinenti al personale, invece, l’elenco stilato dalla direttiva è facoltativo; infatti le informazioni fornite nella dichiarazione possono riguardare:
  • le azioni intraprese per garantire l’uguaglianza di genere;
  • l’attuazione delle convenzioni fondamentali dell’OIL (organizzazione internazionale del lavoro);
  • le condizioni lavorative;
  • il dialogo sociale;
  • il rispetto del diritto dei lavoratori di essere informati e consultati;
  • il rispetto dei diritti sindacali;
  • la salute e la sicurezza sul lavoro;
  • il dialogo con le comunità locali, e/o le azioni intraprese per garantire la tutela e lo sviluppo di tali comunità.
Imprese “senza politiche”: le imprese che non applicano politiche in relazione a uno o più di tali aspetti, devono fornire nella dichiarazione di carattere non finanziario una spiegazione chiara e articolata del perché di questa scelta.

Facoltà degli Stati membri: consentire l’omissione di informazioni concernenti gli sviluppi imminenti o le questioni oggetto di negoziazione in casi eccezionali. 

La dichiarazione consolidata di carattere non finanziario 
Chi riguarda: “gli enti di interesse pubblico che sono imprese madri di un gruppo di grandi dimensioni e che, alla data di chiusura del bilancio, presentano, su base consolidata, un numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 500”. 
Cosa devono fare: includere nella relazione consolidata sulla gestione una dichiarazione consolidata di carattere non finanziario. 
Contenuto: il medesimo previsto per la dichiarazione non consolidata. 

I doveri e le responsabilità nell’elaborazione e nella pubblicazione del bilancio e della relazione della gestione 
Gli Stati membri dovranno assicurare che i membri degli organi di amministrazione, di gestione e di controllo di un’impresa, che operano nell’ambito delle competenze a essi attribuite dal diritto nazionale, garantiscano:
  1. i bilanci di esercizio, la relazione sulla gestione, la dichiarazione sul governo societario, ove fornita separatamente;
  2. i bilanci consolidati, le relazioni consolidate sulla gestione, la dichiarazione consolidata sul governo societario, ove fornita separatamente
siano redatti e pubblicati in osservanza degli obblighi previsti dalla direttiva e, se del caso, dei principi contabili internazionali.

Le tempistiche 
Gli Stati membri dovranno recepire la direttiva entro il 6 dicembre 2016. Entro la medesima data la Commissione dovrà elaborare degli orientamenti non vincolanti sulla metodologia di comunicazione delle informazioni di carattere non finanziario, compresi gli indicatori fondamentali di prestazione generali e settoriali. Lo scopo è quello di agevolare la divulgazione pertinente, utile e comparabile di informazioni di carattere non finanziario da parte delle imprese.

Le prospettive 
Il MEF ha dichiarato che
“le aziende, specialmente le più grandi, svolgono un ruolo fondamentale nell'economia europea che va ben oltre la semplice produzione di beni e servizi. Approvando questa direttiva, i legislatori dell’Unione hanno riconosciuto tale ruolo e potenziato il quadro sulla responsabilità sociale d’impresa. Livelli di trasparenza più elevati saranno garantiti attraverso la divulgazione di informazioni non finanziarie; questo migliorerà la responsabilità delle grandi imprese verso i cittadini europei e permetterà agli investitori di ricompensare le aziende socialmente responsabili promuovendo così una crescita sostenibile”.
In definitiva, il restyling della normativa costituisce uno snodo fondamentale per lo sviluppo e il riconoscimento della responsabilità sociale d’impresa come modalità gestionale volta a coniugare gli obiettivi di crescita e sviluppo sostenibile, da un lato, e come volano per permettere l’introduzione di importanti novità anche in relazione ad altre normative, strettamente connesse a quella oggetto di questo contributo (si pensi al Piano d’azione nazionale sulla Responsabilità sociale d’impresa o il Rating della legalità).


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D.Lgs n. 231/01 impresa responsabile anche del vantaggio indiretto?

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La persona giuridica è responsabile anche di un vantaggio indiretto, come conseguenza dell’illecito commesso da un dipendente

Fermo restando che l'interesse del dipendente autore del reato può coincidere con quello dell'Ente, la responsabilità della società sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi anche quello dell'Ente? 

In altri termini, se i reati presupposto vengono commessi nell'interesse esclusivo delle persone fisiche autrici dei medesimi, tale circostanza, che costituisce un limite negativo della fattispecie complessa da cui scaturisce la responsabilità dell'ente, comporta la necessaria estraneità dell’ente-datore di lavoro? 

Il punto di partenza è costituito dall’art. 5 del D.Lgs n. 231/01 stabilisce che: 
a) la persona giuridica è responsabile per i reati commessi “nel suo interesse o vantaggio” dai suoi vertici apicali ovvero da coloro che sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza dei medesimi,
 b) mentre l’ente non risponde se questi stessi soggetti hanno agito nell’interesse proprio o di terzi. 
Dall’analisi di questa disposizione si evince che l’alternatività tra interesse e vantaggio rischia di venire vanificata dal limite posto dalla lett. b): infatti, l’accertata carenza di un seppure concorrente interesse dell’ente nella commissione del reato impedisce di determinare la sua responsabilità, a prescindere da qualsiasi verifica dell’eventuale vantaggio che il medesimo abbia eventualmente ricavato dalla consumazione dell’illecito. 
Tant’è che, in dottrina, qualcuno aveva “bollato” come pleonastico il requisito del vantaggio e qualificato l'interesse quale sostanzialmente unico criterio attributivo della responsabilità all'ente, dovendosi assegnare al requisito del "vantaggio" al più un valore solo sintomatico dell'effettivo perseguimento dell'interesse dell'ente.

La Cassazione ha affermato che i termini interesse e vantaggio riguardano concetti giuridicamente diversi. 
Infatti si deve distinguere fra un interesse per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, e un vantaggio obiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante. 

Di conseguenza: 
  • l’interesse ed il vantaggio devono ritenersi criteri imputativi concorrenti ma alternativi 
  • occorre attribuire alla nozione di interesse una dimensione non propriamente od esclusivamente soggettiva (questo determinerebbe una deriva "psicologica" nell'accertamento della fattispecie che non trova effettiva giustificazione nel dato normativo), ma piuttosto oggettiva (in questo modo si conserva autonomia concettuale al termine "vantaggio", pure contemplato dalla norma menzionata tra i criteri ascrittivi della responsabilità). 
Di conseguenza, l'interesse dell'autore del reato può coincidere con quello dell'ente, ma la responsabilità dello stesso sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi anche quello dell'ente.

In conclusione, affinché possa ascriversi all'ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell'autore di quest'ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, "anche" l'interesse del medesimo.


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Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: può essere disposta la confisca automatica del bene?

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Un cliente di Natura Giuridica mi ha posto il seguente quesito in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: nel caso in cui una società venisse condannata per il reato di attività di trasporto illecito di rifiuti, per non essersi iscritta all’ANGA, il Giudice può disporre la confisca automatica del mezzo di trasporto, anche se di proprietà di un soggetto estraneo al reato? 
La risposta, secca, è negativa. 
No, non può essere disposta la confisca automatica del bene, ma il Giudice deve valutare la estraneità dell'ente rispetto al reato commesso dal suo manager ex Dlgs 231/2001. 
Ma, come sempre accade nel settore del diritto dell’ambiente, occorre dare una motivazione contestualizzata, altrimenti la risposta vale quel che vale, è potrebbe assumere i contorni di un’opinione. 
Tant’è che, fino a qualche anno fa, la risposta data dalla giurisprudenza era di segno opposto… 

Vediamo velocemente come giustificare questa risposta. 
È vero, l’art. 259, comma 2, del “testo unico ambientale” stabilisce che 
“alla sentenza di condanna per i reati relativi al traffico o trasporto illecito di rifiuti consegue obbligatoriamente la confisca del mezzo di trasporto”. 
Sulla base di questa norma la giurisprudenza che si è pronunciata prima dell’entrata in vigore del D.Lgs n. 121 – che ha introdotto i reati ambientali all’interno della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche – ha tenuto una posizione intransigente. 
In sostanza, i giudice di legittimità evidenziavano che 
«in tema di gestione di rifiuti, legittimamente il giudice dispone la confisca dei mezzi utilizzati per il trasporto illecito di rifiuti anche se appartenenti alla società di cui all'epoca dei fatti l'imputato era legale rappresentante, non rilevando in tale ipotesi la pretesa appartenenza a persona estranea al reato del bene, atteso che ove una attività illecita venga posta in essere da un soggetto collettivo attraverso i suoi organi rappresentativi mentre a costoro farà capo la responsabilità penale per i singoli atti delittuosi ogni altra conseguenza patrimoniale non può non ricadere sull'ente esponenziale in nome e per conto del quale la persona fisica abbia agito, con esclusione della sola ipotesi di rottura del rapporto organico per avere il soggetto agito di propria esclusiva iniziativa». 
Ma è anche vero che, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs n. 121/11, e sotto l’influenza della giurisprudenza della CEDU, tal posizione si è ammorbidita. 
La CEDU, in particolare, esige, per punire (e di conseguenza irrogare una pena e anche la confisca), che ricorra un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta del soggetto cui viene applicata una sanzione sostanzialmente penale. 

Pertanto, nella fattispecie sottoposta all’esame di NG, il terzo proprietario del mezzo estraneo al reato, può evitare la confisca se provi la sua buona fede, ossia, che l'uso illecito della res gli sia stato ignoto e non collegabile ad un suo comportamento negligente.
Del resto, l'espressa previsione, per l'ente, di poter provare la sua estraneità ai reati commessi nel suo interesse da persone che rivestono funzioni apicali, anche quando l'ente sia di piccole dimensioni, introduce elementi di possibile estraneità dell'ente al reato commesso dal suo legale rappresentante, dei quali il giudice non può non tenere conto in sede di confisca di beni diversi dal profitto del reato. 

Di conseguenza, non può essere disposta la confisca automatica del bene, ma il Giudice deve valutare la estraneità dell'ente rispetto al reato commesso dal suo manager ex Dlgs 231/2001.


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Reati ambientali. Il DDL Realacci allo studio in Commissione ambiente: come potrebbe cambiare il diritto penale dell’ambiente?

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La normativa ambientale è spesso oggetto di rimaneggiamenti di tipo amministrativo-burocratico, volti, almeno nelle intenzioni, a semplificare l’iter procedurale. Nel corso del 2013 si è avviato il cammino per una nuova codificazione ambientale e, dopo l’entrata in vigore dei reati ambientali nel corpus delle norme sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, sono stati presentati due DDL per l’introduzione di alcuni reati ambientali all’interno del codice penale, in queste settimane incorso di esame alla commissione ambiente alla Camera. Vediamo come potrebbe cambiare la normativa. 

I costi ambientali 
Recenti studi (ECBA Project Environmental cost-benefit) hanno dimostrato che le attività economiche italiane generano mediamente 24 € di danni ambientali/sanitari per ogni 1000 di valore aggiunto generato. Si tratta di un costo, enorme, causato da un certo tipo di attività, ma soprattutto dalla mancanza di un’autorevole e lungimirante regolazione ambientale adeguata, sia dal punto di vista burocratico-amministrativo che da quello sanzionatorio. 
Quest’ultimo, in particolare, è caratterizzato per la presenza quasi esclusiva di reati contravvenzionali, spesso oblazionabili, che rendono di fatto la tutela dell’ambiente un “optional non conveniente”. 

L’urgenza
Tant’è che – come evidenziato dai rapporti “Ecomafia 2012” e “Mercati illegali 2013” di Legambiente – i reati ambientali (accertati) sono aumentati, nel solo periodo fra il 2010 e il 2011, di quasi il 10%: un dato allarmante, che impone l’inserimento di specifici reati contro l’ambiente nel codice penale.
Finora nel codice, infatti, non sono stati inseriti specifici reati ambientali, anche se spesso la giurisprudenza ha fatto utilizzo di alcune norme (in particolare, l’art. 674 e 635 del c.p.) per giustificare, in qualche modo una tutela ambientale. 
E così, dopo numerosi tentativi andati a vuoto, quest’anno è stato presentato un DDL, che in queste settimane è all’esame della commissione ambiente alla Camera. 
Come potrebbe cambiare il diritto penale dell’ambiente? 

La ratio
La necessità di introdurre specifici reati ambientali all’interno del codice penale nasce dall’esigenza di prevedere un gruppo omogeneo di norme volte alla tutela dell’ambiente, finora sparse in una pluralità di normative disorganiche che, nonostante la presenza di un testo unico ambientale, rendono difficoltosa anche la loro percezione, oltre la possibilità di applicazione pratica. 
Inoltre – evidenziano i promotori – questa strada è stata intrapresa da molti Stati europei, che hanno considerato la maggior capacità di sintesi della formazione codicistica per una finalità che, oltre che repressiva, deve essere anche di “orientamento culturale” dei cittadini, volta a definire a livello normativo-codicistico i beni giuridici fondanti la convivenza civile nella società. 

La struttura tecnica della proposta
Dal punto di vista tecnico-giuridico, la proposta si caratterizza per: 
• il passaggio dalla tradizionale utilizzazione, in ipotesi del genere, di figure contravvenzionali, allo strumento maggiormente repressivo del delitto. Se da un lato ciò contribuisce ad esprimere maggiormente il disvalore di tali violazioni, dall’altro serve per evitare che entrino in funzione i meccanismi prescrizionali tipici delle contravvenzioni; 
• la mutazione della struttura della fattispecie da reato di pericolo astratto (tipico delle contravvenzioni), a quello di pericolo concreto, fino all’introduzione di forme di reato di danno, previsto in specifiche circostanze aggravanti, seguendo il paradigma del reato aggravato dall’evento. 

La proposta nel dettaglio
Anche sull’onda anche delle codificazioni europee, si è scelto di adottare una nozione ampia del bene ambiente, non limitata soltanto ai tradizionali elementi dell’aria, dell’acqua o del suolo, ma estesa anche al patrimonio naturale. 
I reati ambientali ipotizzati
Inquinamento ambientale
Chiunque: 
• introduce, in violazione di specifiche disposizioni normative, nell’ambiente sostanze o radiazioni, 
• in modo da determinare il pericolo di un rilevante deterioramento dello stato dell’aria, dell’acqua o del suolo, 
è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 2.582 € a 15.494 €,  progressivamente aumentate, sia nei militi temporali che in quelli quantitativi, se: 
• il deterioramento si verifica o se dal fatto deriva un pericolo per la vita o l’incolumità delle persone, o 
• se dal fatto deriva un disastro ambientale 
Le circostanze attenuanti concorrenti con le circostanze aggravanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste 

Distruzione del patrimonio naturale
Chiunque, in violazione di specifiche disposizioni normative, determina il pericolo di rilevante deterioramento dello stato della flora, della fauna o del patrimonio naturale è punito con: 
• la reclusione da uno a cinque anni e 
• con la multa da 5.165 euro a 25.823 € 

Frode in materia ambientale
Chiunque, al fine di commettere taluno dei delitti previsti nel presente titolo, ovvero di conseguirne l’impunità: 
• omette o falsifica in tutto o in parte la documentazione prescritta dalla normativa ambientale ovvero 
• fa uso di documentazione falsa 
è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a 10.329 € 

Circostanza aggravante
Le pene sono aumentate se il fatto è commesso da un associato per delinquere ai sensi degli articoli 416 e 416-bis del c.p. quando la commissione del reato rientra tra le finalità dell’associazione 

Ravvedimento operoso
È prevista una forma di ravvedimento operoso (sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 56 del c.p.), con la possibilità di diminuire la pena fino a 2/3 laddove l’autore: 
• rimuova il pericolo o 
• elimini la situazione da lui provocata prima che ne derivi un deterioramento rilevante o anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto e nella scoperta degli autori di esso 

Delitti colposi contro l’ambiente
Quando sia commesso, per colpa: 
• un inquinamento ambientale o 
• una distruzione del patrimonio naturale 
si applicano le pene ivi rispettivamente stabilite, ridotte da un terzo alla metà 

Pene accessorie
Per tutte e tre le tipologie di reato sono previste le seguenti pene accessorie: 
1) l’interdizione temporanea dai pubblici uffici; 
2) l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; 
3) l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; 
4) la pubblicazione della sentenza penale di condanna


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Il sequestro preventivo può riguardare anche l’intera azienda (come bene produttivo)?

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Con la sentenza n. 18603/13 la Cassazione è intervenuta per la prima volta sul tema della sequestrabilità dell’azienda come bene produttivo, sancendo inter alia che in materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali. 

La sentenza in pillole 
In materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali. 

La vicenda processuale

La vicenda trae origine da un sequestro preventivo di due S.r.L. e delle relative aziende, disposto da un giudice per le indagini preliminari nel quadro del procedimento penale relativo al reato di lesioni personali colpose commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni dei lavoratori. Il Tribunale di Firenze, nell’annullare con ordinanza il sequestro preventivo disposto dal GIP, aveva evidenziato l’inammissibilità del sequestro preventivo in relazione ad un’attività imprenditoriale: il carattere prettamente ablatorio (e non interdittivo) del sequestro preventivo, infatti, impone la sola riferibilità ad una res pertinente al reato. Di conseguenza, sono sequestrabili soltanto beni, e non un’impresa o un’attività imprenditoriale, “vieppiù a fronte della piana ricorribilità ai rimedi specifici di cui al D.Lgs. n. 231/2001 (in tema di responsabilità amministrativa degli enti) esperibili anche in relazione al delitto di lesioni personali gravi”. 

Le motivazioni dell’impugnazione da parte del PM 
  1. Violazione di legge: il giudice ha erroneamente ritenuto che il sequestro fosse volto all’imposizione di un’inibitoria nei confronti di un’attività imprenditoriale, e non di un vincolo reale su beni riguardanti nella loro materialità. La misura cautelare, al contrario, era stata disposta sulle società e sulle aziende costituenti l’insieme dei beni che l’imprenditore destina alla propria impresa;
  2. Beni come mezzo per la realizzazione del reato contestato: all’imputato è stata ascritta la realizzazione di un’organizzazione imprenditoriale del tutto priva di qualsivoglia forma di cautela o di misura precauzionale funzionale alla sicurezza e all’incolumità dei lavoratori impiegati;
  3. Rapporti con il D.Lgs n. 231/01: non ha alcun rilievo il D.Lgs n. 231/01, nel caso de quo: infatti, sono diversi i presupposti delle misure cautelari disciplinate da tale testo normativo e il sequestro preventivo, nel caso di specie immediatamente destinato ad inibire l’esercizio di un’attività imprenditoriale pericolosa mediante l’uso dei beni strumentali. 

Un passo indietro: la pertinenzialità necessaria per il sequestro di azienda 

Prima di analizzare la novità contenuta nella sentenza della Cassazione n. 18603/13, occorre premettere che tutta la giurisprudenza che, in passato, si è occupata del tema della sequestrabilità, o meno, dell’azienda, ha avuto come “faro” esclusivo il suo eventuale rapporto di pertinenzialità rispetto al reato. 
Ferma restando l’insequestrabilità delle società commerciali tout court, la Cassazione ricorda le alterne vicende che hanno caratterizzato la giurisprudenza nel recente passato in relazione proprio al tema del sequestro preventivo di aziende, e il minimo comun denominatore posto alla base delle stesse. 
Se, infatti, ed in relazione a vicende riguardanti l’impiego di lavoratori privi del permesso di soggiorno, la Cassazione ha affermato, a volte, la legittimità del sequestro preventivo di immobili, strutture e apparecchi costituenti l’azienda funzionalmente ed economicamente produttiva, “allorché essi siano impiegati per lo svolgimento dell’attività lavorativa prevalente di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno, essendo l’imposizione del vincolo funzionale ad impedire la prosecuzione dello sfruttamento di manodopera illegale” (ex multis, cfr. Cass. Pen., n. 18550/09), in altri casi ha, al contrario, escluso l’assoggettabilità a tale misura cautelare “dell’immobile, delle strutture e degli apparecchi costituenti l’azienda funzionante ed economicamente produttiva in ragione dell’occupazione non totalitaria o prevalente di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, in quanto tali beni non sono in rapporto di pertinenzialità” (nel caso analizzato dalla sentenza della Cassazione n. 34605/07, ad esempio, rispetto al reato di cui all’art. 22, D.Lgs. n. 286/98). 

La sequestrabilità dell’azienda come bene produttivo

La novità contenuta nella sentenza de qua risiede proprio nel fatto di aver analizzato la problematica da un altro angolo visuale: quello della sequestrabilità in sé dell’azienda, come bene produttivo, secondo la definizione datane dall’art. 2555 del c.c., in base al quale l’azienda è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. In materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali.

Focus sugli indizi: sono valide anche gli elementi di prova provenienti da un altro procedimento 
Cassazione Penale n. 37024/11: 
  • sono utilizzabili ai fini dell’applicazione di misure cautelari reali, quando questi siano stati richiesti in fase dibattimentale, anche elementi di prova provenienti da altri procedimenti e non ancora acquisiti in dibattimento, analogamente a quanto stabilito dalla stessa Corte di Cassazione, in materia di misure cautelari personali;
  • sono utilizzabili come gravi indizi di colpevolezza, ai fini della vantazione di legittimità delle misure cautelari personali, atti di altri procedimenti, indipendentemente dalla circostanza che siano state osservate le condizioni stabilite nell’art. 238 c.p.p., non richiamate dall’art. 273 stesso codice;
  • lo stesso principio non può che valere anche ai fini della valutazione della sussistenza del fumus commissi delicti, in materia di misure cautelari reali. 

Di conseguenza, l’ordinanza impugnata è stata emessa – evidenzia la Cassazione – è stata emessa in violazione di legge “nella parte in cui esclude, in via di principio, la suscettibilità dell’azienda a costituire oggetto di sequestro preventivo, indipendentemente dall’indagine di merito riguardante il rapporto di pertinenzialità della misura rispetto al reato, ovvero l’eventuale proporzionalità di detta misura cautelare rispetto alle esigenze cui è destinata”. 

In conclusione, occorre fare un sia pur rapido cenno ai principî di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, di cui all’art. 275 cpp: la Cassazione, infatti, ricorda che tali principî , previsti per le misure cautelari personali, “devono ritenersi applicabili anche alle misure cautelari reali e devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell’applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata. Ne consegue che, qualora detta misura trovi applicazione, il giudice deve motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare reale con una meno invasiva misura interdittiva”. 

Sequestro di un’azienda operante nel settore ambientale 
Cassazione Penale n. 8082/09:
  • la questione da risolvere nel caso di specie era la seguente: la qualifica di corpo di reato, o comunque di cosa pertinente, compete all’intero insediamento o alla sola porzione terminale (condotta, camino, impianto) attraverso la quale avviene l’immissione illecita di sostanze nell’ambiente? 
  • La Cassazione ha affermato un principio generale, in base al quale se l’inquinamento dipende dall’inadeguatezza complessiva dell’insediamento, è a quest’ultimo che il sequestro deve fare riferimento;
  • infatti, in quella sede, il Giudice, nel far riferimento alla sufficienza degli indizi al fine di sottoporre l’azienda a sequestro preventivo, ha rilevato come, nella specie, la condotta di versamento in mare dei fanghi residui dalla lavorazione del marmo riguardassero l’attività dell’intera azienda: di conseguenza, il sequestro preventivo non poteva essere limitato ad un determinato processo produttivo specificatamente interessato dalla condotta abusiva e, nell’immediato, l’esigenza preventiva sottesa alla misura cautelare non poteva che afferire all’intera azienda.


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Il sequestro preventivo può riguardare anche l’intera azienda

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Con la sentenza n. 18603/13 la Cassazione è intervenuta per la prima volta sul tema della sequestrabilità dell’azienda come bene produttivo, sancendo inter alia che in materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali. 


La vicenda processuale 

La vicenda trae origine da un sequestro preventivo di due S.r.L. e delle relative aziende, disposto da un giudice per le indagini preliminari nel quadro del procedimento penale relativo al reato di lesioni personali colpose commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni dei lavoratori. 
Il Tribunale di Firenze, nell’annullare con ordinanza il sequestro preventivo disposto dal GIP, aveva evidenziato l’inammissibilità del sequestro preventivo in relazione ad un’attività imprenditoriale: il carattere prettamente ablatorio (e non interdittivo) del sequestro preventivo, infatti, impone la sola riferibilità ad una res pertinente al reato. 
Di conseguenza, sono sequestrabili soltanto beni, e non un’impresa o un’attività imprenditoriale, “vieppiù a fronte della piana ricorribilità ai rimedi specifici di cui al D.Lgs. n. 231/2001 (in tema di responsabilità amministrativa degli enti) esperibili anche in relazione al delitto di lesioni personali gravi”. 

Le motivazioni dell’impugnazione da parte del PM
Violazione di legge
Il giudice ha erroneamente ritenuto che il sequestro fosse volto allimposizione di uninibitoria nei confronti di unattività imprenditoriale, e non di un vincolo reale su beni riguardanti nella loro materialità.
La misura cautelare, al contrario, era stata disposta sulle società e sulle aziende costituenti l’insieme dei beni che limprenditore destina alla propria impresa.
Beni come mezzo per la realizzazione del reato contestato
All’imputato è stata ascritta la realizzazione di un’organizzazione imprenditoriale del tutto priva di qualsivoglia forma di cautela o di misura precauzionale funzionale alla sicurezza e all’incolumità dei lavoratori impiegati.
Rapporti con il D.Lgs n. 231/01
Non ha alcun rilievo il D.Lgs n. 231/01, nel caso de quo: infatti, sono diversi i presupposti delle misure cautelari disciplinate da tale testo normativo e il sequestro preventivo, nel caso di specie immediatamente destinato ad inibire l’esercizio di un’attività imprenditoriale pericolosa mediante l’uso dei beni strumentali.

Un passo indietro: la pertinenzialità necessaria per il sequestro di azienda 

Prima di analizzare la novità contenuta nella sentenza della Cassazione n. 18603/13, occorre premettere che tutta la giurisprudenza che, in passato, si è occupata del tema della sequestrabilità, o meno, dell’azienda, ha avuto come “faro” esclusivo il suo eventuale rapporto di pertinenzialità rispetto al reato. 
Ferma restando l’insequestrabilità delle società commerciali tout court, la Cassazione ricorda le alterne vicende che hanno caratterizzato la giurisprudenza nel recente passato in relazione proprio al tema del sequestro preventivo di aziende, e il minimo comun denominatore posto alla base delle stesse. 
Se, infatti, ed in relazione a vicende riguardanti l’impiego di lavoratori privi del permesso di soggiorno, la Cassazione ha affermato, a volte, la legittimità del sequestro preventivo di immobili, strutture e apparecchi costituenti l’azienda funzionalmente ed economicamente produttiva, “allorché essi siano impiegati per lo svolgimento dell’attività lavorativa prevalente di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno, essendo l’imposizione del vincolo funzionale ad impedire la prosecuzione dello sfruttamento di manodopera illegale” (ex multis, cfr. Cass. Pen., n. 18550/09), in altri casi ha, al contrario, escluso l’assoggettabilità a tale misura cautelare “dell’immobile, delle strutture e degli apparecchi costituenti l’azienda funzionante ed economicamente produttiva in ragione dell’occupazione non totalitaria o prevalente di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, in quanto tali beni non sono in rapporto di pertinenzialità” (nel caso analizzato dalla sentenza della Cassazione n. 34605/07, ad esempio, rispetto al reato di cui all’art. 22, D.Lgs. n. 286/98). 

La sequestrabilità dell’azienda come bene produttivo 

La novità contenuta nella sentenza 18603/13 della Cassazione risiede proprio nel fatto di aver analizzato la problematica da un altro angolo visuale: quello della sequestrabilità in sé dell’azienda, come bene produttivo, secondo la definizione datane dall’art. 2555 del c.c., in base al quale l’azienda è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. 
In materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali. 

Focus sugli indizi: sono valide anche gli elementi di prova provenienti da un altro procedimento
Cassazione Penale
n. 37024/11
Sono utilizzabili ai fini dell’applicazione di misure cautelari reali, quando questi siano stati richiesti in fase dibattimentale, anche elementi di prova provenienti da altri procedimenti e non ancora acquisiti in  dibattimento, analogamente  a  quanto  stabilito  dalla  stessa  Corte  di Cassazione, in materia di misure cautelari personali.

Sono utilizzabili come gravi indizi di colpevolezza, ai fini della vantazione di legittimità delle misure cautelari personali, atti di altri procedimenti, indipendentemente dalla circostanza che siano state osservate le condizioni stabilite nell’art. 238 c.p.p., non richiamate dall’art. 273 stesso codice.

Lo stesso principio non può che valere anche ai fini della valutazione della sussistenza del fumus commissi delicti, in materia di misure cautelari reali.

Di conseguenza, l’ordinanza impugnata è stata emessa – evidenzia la Cassazione – è stata emessa in violazione di legge “nella parte in cui esclude, in via di principio, la suscettibilità dell’azienda a costituire oggetto di sequestro preventivo, indipendentemente dall’indagine di merito riguardante il rapporto di pertinenzialità della misura rispetto al reato, ovvero l’eventuale proporzionalità di detta misura cautelare rispetto alle esigenze cui è destinata”. 
In conclusione, occorre fare un sia pur rapido cenno ai principî di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, di cui all’art. 275 cpp: la Cassazione, infatti, ricorda che tali principî , previsti per le misure cautelari personali, “devono ritenersi applicabili anche alle misure cautelari reali e devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell’applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata. Ne consegue che, qualora detta misura trovi applicazione, il giudice deve motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare reale con una meno invasiva misura interdittiva”. 

Sequestro di un’azienda operante nel settore ambientale
Cassazione Penale
n. 8082/09
La questione da risolvere nel caso di specie era la seguente: la qualifica di corpo di reato, o comunque di cosa pertinente, compete all’intero insediamento o alla sola porzione terminale (condotta, camino, impianto) attraverso la quale avviene l’immissione illecita di sostanze nell’ambiente?
La Cassazione ha affermato un principio generale, in base al quale se l’inquinamento dipende dall’inadeguatezza complessiva dell’insediamento, è a quest’ultimo che il sequestro deve fare riferimento.
Infatti, in quella sede, il Giudice, nel far riferimento alla sufficienza degli indizi al fine di sottoporre l’azienda a sequestro preventivo, ha rilevato come, nella specie, la condotta di versamento in mare dei fanghi residui dalla lavorazione del marmo riguardassero l’attività dell’intera azienda: di conseguenza, il sequestro preventivo non poteva essere limitato ad un determinato processo produttivo specificatamente interessato dalla condotta abusiva e, nell’immediato, l’esigenza preventiva sottesa alla misura cautelare non poteva che afferire all’intera azienda.


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Quando viene assolto il manager, la società non può essere automaticamente assolta

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Per la responsabilità amministrativa ex 231 è necessario che venga compiuto un reato da parte del soggetto riconducibile all’ente, ma non è anche necessario che tale reato venga accertato con individuazione e condanna del responsabile. 
La responsabilità penale presupposta può essere ritenuta incidenter tantum (ad esempio perché non si è potuto individuare il soggetto responsabile o perché questi è non imputabile) e ciò nonostante può essere sanzionata in via amministrativa la società.

Nella sentenza n. 20060 dello scorso 9 maggio 2013, la Cassazione ha stabilito che una società può essere condannata ai sensi della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti, di cui al D.Lgs n. 231/01, anche se il reato contestato ad un suo manager si è medio tempore prescritto, o nei casi in cui non sia possibile individuare, specie nelle realtà più grandi, il responsabile.
In sostanza, dall’assoluzione di un manager, dal quale scaturisce la responsabilità dell’ente, non può discendere in modo automatico l’assoluzione di quest’ultimo, dal momento che si tratta di due posizioni distinte, da valutare autonomamente. 
Il caso analizzato dalla Suprema Corte riguarda il ricorso immediato per Cassazione proposto da un PM contro la sentenza che aveva assolto una società (la Citibank) dall’illecito amministrativo di cui all’art. 5 del D.Lgs n. 231/01, sostenendo, in estrema sintesi, che il Tribunale aveva erroneamente fatto applicazione dell’art. 8 dello stesso decreto legislativo: avendo ritenuto sussistente il reato presupposto, infatti, il Tribunale non avrebbe dovuto assolvere la società, in quanto “quello dell’ente è un titolo autonomo di responsabilità rispetto al reato presupposto, tanto che l’articolo 8 del D.Lgs. afferma che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato”. 
Contro tale ricostruzione, la società ha replicato non solo che la sentenza ha escluso in modo assoluto qualsiasi concorso nell’illecito da parte di soggetti riferibili alla società, ma anche che:
  • non può procedersi per l’illecito amministrativo quando il reato si è estinto per prescrizione e 
  • la responsabilità dell’ente è vincolata all’indispensabile individuazione di un soggetto che abbia commesso un reato completo di ogni elemento, sia oggettivo che soggettivo. 
Potete leggere l’approfondimento analitico della sentenza nell’articolo “Non è esclusa la responsabilità della società anche se viene assolto il manager”, pubblicato il 21 maggio 2013 sul “Il Quotidiano IPSOA – Professionalità quotidiana”


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Le PMI e le imprese individuali nel DLGS 231/01: esiste un modello "universale"?

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Le PMI (e le imprese individuali) sono molto meno strutturate delle grandi imprese, che per dimensioni ed organizzazione sono (teoricamente) in grado di dedicare maggiori risorse (umane ed economiche) alla pianificazione e alla progettazione di un modello ex DLGS n. 231/01; spesso, inoltre, gioca un ruolo fondamentale la considerazione che l’adozione di un MOG consente solo di ridurre (senza azzerarlo), il rischio di commissione di reati, essendo in ogni caso lasciato molto spazio alla discrezionalità del giudice, in sede di valutazione della responsabilità dell’ente.

Ragionamento che contiene in nuce aspetti pericolosi (per la responsabilità dell’ente), che non vengono tuttavia considerati in sede di decisione se adottare, o meno, un modello di organizzazione e gestione ex 231.

Ragionamento che, tuttavia, e sia pure in modo non corretto, è in qualche modo reso giustificabile (stante la non obbligatorietà della disciplina) dal nostro legislatore, che con le continue modifiche politico-normative, non offre certezze giuridiche e, anzi, crea un polverone pratico-applicativo che di fatto finisce con il “legittimare” le aziende a non agire, contando sulla sostanziale inoperatività del sistema sanzionatorio…

Esiste un modello ex 231/01 universale che le PMI possono adottare?

In tutte le occasioni in cui ho avuto modo di parlare di diritto dell’ambiente e dell’energia, ho parlato spesso di “molteplici sostenibilità”: lo sviluppo non può che essere sostenibile, non solo per motivi etico-ambientali, ma perché nel mondo globalizzato le molteplici sostenibilità (ambientale, economica, finanziaria, sociale, culturale, giuridica …) sono fortemente interconnesse fra di loro.
Per questo motivo, a livello politico-normativo non è ipotizzabile continuare ad annunciare semplificazioni (delle semplificazioni) decontestualizzate, senza avere un’idea dell’obiettivo che si vuole raggiungere, e senza certezza del diritto: su questa strada, infatti, le molteplici sostenibilità continueranno ad essere un flebile miraggio.
Fra le molteplici sostenibilità, quella culturale rappresenta la base logica per garantire stabilità ed autorevolezza alle altre: solo attraverso la comprensione di un’accorta programmazione preventiva, infatti, è possibile immaginare, prima, e realizzare, successivamente, un futuro sostenibile dal punto di vista politico, giuridico, economico, finanziario e quindi anche latu sensu sociale.

Questa premessa di carattere generale assume un’importanza maggiore nel settore ambientale, per:
  • le strette correlazioni che esistono fra la tutela della salute dell’uomo e della salubrità ambientale, da un lato, e del diritto al lavoro, dall’altro, come la vicenda dell’ILVA dimostra; 
  • limitare al massimo, di conseguenza, gli effetti negativi, economici e sociali, che si verificano sempre in tutti i casi in cui (troppo spesso), magari anche in buona fede, si è pensato di poter prescindere dal contesto globale nel quale si operava, relegando la prevenzione a mero cavillo burocratico considerato inutile ed eccessivamente oneroso. 
Nelle PMI, in particolare, questo aspetto era (ed è, tutt’ora) percepito come una spada di Damocle, “un ulteriore ingabbiamento delle funzioni aziendali, senza contare il costo” (DE GENNARO): più nello specifico, di fronte alla possibilità/necessità di adottare modelli organizzativi e di gestione ex DLGS n. 231/01 – che rientrano a pieno titolo nel concetto pratico di sostenibilità culturale, collante di tutte le altre – il proprietario/amministratore immediatamente nega la necessità di attuarli presso la propria struttura, in quanto tutto è centralizzato su di lui (firma dei contratti d’acquisto, firma del pagamento, firma dei contratti di vendita etc), e quindi è da escludere la possibilità di commettere reati…

Tornando alla domanda di poc'anzi ("esiste un modello ex 231/01 universale che le PMI possono adottare?"), una prima risposta è contenuta nell’articolo “Le PMI e il D.Lgs. n. 231/2001: est modus in rebus”, pubblicato su “Il Quotidiano IPSOA. Professionalità quotidiana”.

Nelle pagine dello stesso quotidiano online potrete trovare anche un approfondimento circa la possibilità di ritenere responsabili ex DLgs n. 231/01 le imprese individuali.

Con la recente sentenza n. 30085/12, infatti, la sesta sezione della Cassazione ribadisce, sia pure incidentalmente, l’inapplicabilità della normativa sulla responsabilità delle persone giuridiche alle imprese individuali, sconfessando il revirement giurisprudenziale operato dalla terza sezione della stessa Corte, che solo un anno aveva sostenuto, al contrario, la piena applicabilità del DLGS n. 231/01 anche alle imprese individuali.

Esiste un “modus in rebus” in grado di armonizzare, in concreto, contrapposizioni tanto assertive quanto “inconciliabili”?


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Ruolo e responsabilità del consulente ambientale

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In campo ambientale, uno (dei tanti) problemi più dibattuti – anche in seguito all’introduzione dei reati ambientali all’interno del DLGS n. 231/01 – è sicuramente quello concernente le responsabilità: la difficoltosa applicazione spazio-temporale del principio “chi inquina paga”, infatti, ha costretto in particolare la giurisprudenza ad adottare “soluzioni” alle lacune (o imprecisioni) legislative, che tuttavia non sono sempre state coerenti fra di loro. 
Per un verso, si evolve e modernizza il concetto di responsabilità per reato ambientale, oggi attribuibile anche alle persone giuridiche e, per l'altro, cresce la rilevanza di una figura come quella del "consulente ambientale" all'interno delle società, per gestire, appunto, questa nuova "tipologia di responsabilità. 

Emblematico, a tale riguardo, è il caso del proprietario non colpevole dell’inquinamento (destinatario dei provvedimenti delle autorità semplicemente sulla base del criterio dominicale) e di tutti quei soggetti che, di volta in volta, sono stati chiamati a rispondere per colpe altrui (la giurisprudenza, a mero titolo esemplificativo, si è occupata della posizione del curatore fallimentare; del locatore; dei comproprietari: per una disamina accurata si rimanda agli articoli di questo blog sotto la categoria Bonifiche-Responsabilità).
Alle difficoltà legislative ed interpretative si affianca il cambio di paradigma che sta vivendo il diritto penale, che si caratterizza per il “ripensamento dei modelli di riferimento e da una progressiva presa di distanze dal diritto penale classico modellato sul reato commissivo doloso di evento” (PERINI), e per la sua modernizzazione, frutto della progressiva estensione di campo dei c.d. “reati artificiali”.

Si tratta, in estrema sintesi, di un nuovo “diritto penale del rischio” (a fondamento probabilistico e imperniato sulla violazione del dovere) che ha immediate ripercussioni in relazione all’elemento soggettivo e alla tipologia di responsabilità: sotto quest’ultimo aspetto, in particolare, “la burocratizzazione e la frammentazione del potere decisionale all’interno degli enti giuridici rendono sempre più recessivo il modello di imputazione personale focalizzato sulla persona fisica per privilegiare la responsabilizzazione della persona giuridica. In una prospettiva di accentuata tecnocraticizzazione dell’ente, l’abbandono del principio societas delinquere non potest appare sempre più irrinunciabile, tanto più che il progressivo avvicinamento tra diritto penale e diritto penale amministrativo rende sempre meno dogmaticamente traumatico un tale passo” (PERINI).
D’altro canto, con sempre maggior frequenza l’accertamento di responsabilità penali è significativamente condizionato (e, a volte, determinato in via esclusiva), dalle valutazioni su aspetti tecnici delle vicende, proprio con riferimento al cit. “diritto penale del rischio”, espressivo delle incertezze e della complessità tecnologica della società contemporanea, cui sopra si è fatto cenno. In questo complesso (rectius: complicato) quadro generale, il consulente tecnico-giuridico ambientale assume un ruolo centrale – specie nel caso degli illeciti colposi – affiancando sia l’accusa, sia la difesa nella valutazione tecnica e, soprattutto, nella ricerca corretta e completa degli elementi storici sui quali le stesse valutazioni dovranno trovare rispondenza fattuale, diventando “il protagonista della dialettica di formazione della prova” (PARODI). 
In relazione a questa fase “ex post”, la Cassazione ha precisato che “la nozione di accertamento riguarda non la constatazione o la raccolta di dati materiali pertinenti al reato e alla sua prova, che si esauriscono nei semplici rilievi, ma il loro studio e la relativa elaborazione critica, necessariamente soggettivi e per lo più su base tecnico-scientifica; la distinzione trova testuale conferma normativa in ripetute disposizioni del codice vigente, che menzionano separatamente i termini rilievi e accertamenti” (Cassazione, n. 301/90): la distinzione fra accertamento e rilievo viene così a costituire la linea di demarcazione fra l’attività in senso stretto del consulente e tutta una serie di attività dirette soltanto a cristallizzare e raccogliere elementi in fatto, senza alcuna forma di rielaborazione critica delle medesime.

Quanto alle responsabilità del consulente, in estrema sintesi occorre rilevare che quello dell’accusa è un pubblico ufficiale, e pertanto è soggetto al regime penalistico dei reati propri del pubblico ufficiale, mentre quello della difesa – libero di accettare, o meno, l’incarico – è soggetto al regime di responsabilità contrattuale.

Ma più che della fase ex post, ciò che in questa fase storica merita sottolineare, è il ruolo del consulente nella fase “ex ante”: quella, cioè, che vede il consulente ambientale impegnato nel ruolo altrettanto (se non più) importante di “addetto alla prevenzione” (tecnico-economica-giuridica), attraverso il suo fondamentale apporto in materia di scelte tecnologiche dell’impresa, di valutazioni economiche e strategiche delle aziende e – volendo allargare il campo alla consulenza tecnico-giuridica, oggi più che mai indispensabile – di prevenzione della commissione di reati.

In seguito all’entrata in vigore del DLGS n. 121/11, che ha introdotto i reati ambientali all’interno della disciplina sulla responsabilità delle persone giuridiche, e del conseguente intensificarsi dei doveri gravanti sui soggetti economici (che, come si è più volte sottolineato, sono alquanto complicati), infatti, gli imprenditori “devono” fare ricorso a soggetti iper-specializzati, in grado di affiancarli nell’assolvimento dei nuovi compiti loro imposti: se, infatti, l’adozione di un MOG non è obbligatoria (anche se vivamente consigliabile), la nomina di un consulente tecnico (nella sua accezione più ampia, ivi compresa quella del tecnico-giuridico) sembra essere imprescindibile per l’impresa.

Il giurista ambientale si colloca in questa fase ex ante, ed è uno di questi professionisti di cui (anche) le imprese non potranno fare a meno.  


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Leggi 27 e 62 2012; la proposta Montante e il rating di legalità per l'accesso al credito

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Nel quadro desolante delineato nell'articolo del 25 giugno scorso - l'Italia delle imprese oneste che hanno meno disponibilità economica delle imprese colluse con le mafie e si vedono, per giunta, negare l’accesso al credito -  il 28 gennaio 2012 Antonello Montante - ex vicepresidente di Confindustria, ha lanciato la sua proposta: considerare la legalità come indicatore positivo del rischio di credito. Assegnare un rating più alto alle aziende “che investono e vivono nei mercati grazie a processi di legalità e a codici anti-corruzione”, facilitando il loro accesso al credito bancario.
La proposta, recepita dall’Associazione Bancaria Italiana e dal Parlamento è confluita nella legge 27/2012. La Legge 27/2012 (la legge di conversione del Decreto Liberalizzazioni), all’articolo 5-ter, ha attribuito all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) il compito di segnalare al Parlamento le modifiche normative necessarie “al fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali”, e di procedere, “in raccordo con i Ministeri della giustizia e dell'interno, all'elaborazione di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale”.
Il medesimo articolo stabiliva che del rating attribuito si dovesse tenere conto in sede di concessione di finanziamenti pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario.
Se da un lato veniva accolta la "proposta Montante", l’articolo 5-ter della L. 27/2012 aveva sollevato non poche perplessità: leggendolo, sembrava di capire che all’Antitrust fosse stato assegnato il compito di assegnare un rating di legalità a tutte le imprese italiane, una specie di fotografia del livello di legalità dell’intero sistema economico nazionale.
Ma su quali basi poteva essere realizzata questa valutazione globale?
E con quali tempistiche?
Con queste premesse, il rating di legalità sembrava destinato a restare lettera morta.

I dubbi sono stati (in parte) chiariti dalla legge 62/2012, che, nata per convertire in il Decreto Legge sulle commissioni bancarie, è stata poi estesa ad altri ambiti, sempre inerenti l’attività degli istituti di credito.
La Legge 62/2012 stabilisce che solo le aziende con un fatturato di almeno 2 milioni di Euro (riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza) potranno richiedere il rating di legalità all’Antitrust e che, al fine dell’attribuzione del rating, potranno essere chieste informazioni a tutte le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, la legge ribadisce che del rating attribuito all’azienda si dovrà tener conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni e in sede di accesso al credito bancario, aggiungendo che “gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d'Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”.
La legge 62/2012 è stata pubblicata in gazzetta ufficiale il 21 maggio 2012. Il rating di legalità, però, non sarà immediatamente in vigore. Infatti, entro 90 giorni l’Antitrust dovrà definire i criteri e le modalità per il calcolo del rating e il Ministero dell’Economia e delle Finanze dovrà emettere un decreto, definendo le modalità «agevolate» di finanziamento pubblico e accesso al credito, riservate alle aziende che dispongono di un rating di legalità.
Dunque, è stato chiarito che il rating di legalità sarà uno strumento volontario, di cui le aziende potranno servirsi, per agevolarsi nei rapporti con le banche e le pubbliche amministrazioni. E’ quindi di primario interesse, per le impresa, sapere quali saranno i criteri che, in futuro, l’Antitrust utilizzerà per definire il loro rating di legalità. Non ci sono ancora, purtroppo, indicazioni certe in merito.
Tuttavia, il Ministro della Giustizia Paola Severino, già nel mese di marzo, aveva espresso la propria opinione sul rating di legalità, definendolo “una proposta estremamente seria che riguarda non soltanto le imprese che rifiutano di pagare il loro terribile tributo alla mafia, ma anche le imprese che si dotano di modelli di organizzazione idonei a prevenire il reato”, vale a dire le imprese che si sono dotate di Modelli 231 finalizzati alla prevenzione dei reati di criminalità organizzata. Se tale orientamento fosse confermato dall’Antitrust, molto probabilmente, quindi, in futuro le aziende che si doteranno di Modelli 231 potranno ottenere un rating di legalità più alto ed accedere più facilmente a finanziamenti pubblici e al credito bancario.


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Il DLgs 231 entra nel calcio e in politica: due "settori" che devono dare il buon esempio per il raggiungimento delle molteplici sostenibilità

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In questo articolo vediamo come l'introduzione del D.Lgs 231/2001, che sancisce la responsabilità amministrativa per le imprese, stia producendo una serie di riflessioni, e forse di conseguenze concrete, nell'ambito di un dibattito che sembra poter condizionare profondamente la cultura della responsabilità d'impresa in Italia.
Non dimentichiamo, infatti, che il presupposto dell'intero impianto normativo italiano della responsabilità ex 231/2001, inclusa l'estensione a determinati reati ambientali, è quello di introdurre una serie di cambiamenti "morbidi" all'interno della cultura imprenditoriale italiana, con lo scopo di suscitare il cambiamento "dal basso" e non con stravolgimenti normativi piovuti dall'alto. In particolare, negli ultimi tempi il dibattito sulla 231 ha investito il mondo del calcio, quello dei partiti politici e dei rimborsi elettorali, e quello di alcune società di gioco (casinò e siti on line). Infine, il dibattito è approdato in Confindustria e poi in Consiglio dei Ministri, ma per questo ultimo tema, al di là di una prima introduzione, rinvio ad un articolo dedicato.
In questo post, parlerò dei primi due ambiti.

Il modello organizzativo 231 fa il suo ingresso nel mondo del calcio: il 27 aprile scorso, il Consiglio federale FIGC ha approvato le linee guida per la redazione di un proprio Modello organizzativo ai sensi del D.lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle società e degli enti, che dovrebbe entrare in vigore a partire dal 1 Luglio 2012. Solo pochi giorni prima, il 20 aprile, l’Assemblea della Lega di Serie A ha deliberato di adottare un Codice Etico ed un Modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del medesimo decreto e di prevedere quale fondamentale requisito per l’iscrizione al campionato di serie A, a partire dalla stagione sportiva 2013/14, l’adozione di un Modello organizzativo ex D.lgs. 231/2001 da parte delle società sportive militanti in tale categoria.


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Il disastro ambientale della Concordia

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A pochi giorni dalla tragedia umana e dal pontenziale disastro ambientale causato dallo schianto della nave da crociera Concordia su uno scoglio davanti all'Isola del Giglio, vorrei soffermarmi, in questo articolo, sul concetto giuridico di disastro ambientale.
L'incidente verificatosi sulla nave comandata dal chiacchierato Schettino potrebbe infatti provocare, in seguito alla fuoriuscita incontrollata di carburante sulla costa antistante l'isola, danni incalcolabili all'ecosistema circostante. In queste ore si sta tentando con ogni mezzo di impedire una tale catastrofica eventualità, che potrebbe verificarsi a causa dell'inabissamento della nave.

Cos'è, dal punto di vista giuridico, un disastro ambientale? E, soprattutto, per configurare il reato di disastro è necessario che l'evento abbia luogo oppure è sufficiente che una condotta avventata o un dolo ne provochino un rischio potenziale?

Il punto di partenza è costituito dall'articolo 434 del c.p. (crollo di costruzioni o altri disastri dolosi), in base al quale “chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti – fra i quali rientrano gli attentati alla sicurezza dei trasporti e degli impianti di energia elettrica e del gas, disastro ferroviario e altri disastri – commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”.

In più occasioni la Cassazione ha avuto modo di sottolineare che per configurare il reato di “disastro” è sufficiente che il nocumento metta in pericolo, anche solo potenzialmente, un numero indeterminato di persone: infatti, il requisito che connota la nozione di "disastro" ambientale, delitto previsto dall'art.434 c.p., è la "potenza espansiva del nocumento" anche se non irreversibile, e l'"attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità".
Il termine “disastro” (nella specie ambientale) implica che esso sia cagione di un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità "straordinariamente grave e complesso", ma non "eccezionalmente immane" (Cassazione Sez. V, n. 40330/2006): pertanto,"è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone". 

Strettamente connessa alla nozione disastro ambientale è la problematica relativa alle conseguenze risarcitorie/patrimoniali dello stesso: di recente, la Cassazione (11059/09, relativa al disastro ambientale di Seveso; sentenza che potete scaricare sul sito di Natura Giuridica, dopo esservi registrati gratuitamente; per cercare la sentenza utilizzate il motore di ricerca interno del sito) ha affermato che anche il “semplice” - si fa per dire – “patema d'animo” sofferto dai cittadini, preoccupati per le ripercussioni sulla salute, causate dal disastro ambientale, deve essere risarcito come danno morale.


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Andrea Quaranta, giurista ambientale, su Tuttogreen

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Su TuttoGreen, il portale con le guide pratiche alla green economy, potete leggere l'intervista ad Andrea Quaranta dal titolo Green Job: il Giurista Ambientale.
Cos'è un giurista ambientale? Come lavora concretamente e come si costruisce questa competenza, così nuova ed attuale nel panorama dei green jobs? Vi sono figure simili all'estero?
Queste sono solo alcune delle domande che Tutto Green ha rivolto ad Andrea Quaranta, giurista ambientale con alle spalle 10 anni di esperienza, durante i quali il corpus normativo del diritto dell'ambiente e dell'energia è stato stravolto, ampliato, semplificato - e reso più complicato per certi versi - entrando a far parte della nostra vita quotidiana: nei discorsi, negli stili di vita, nel lavoro, nei progetti per il nostro futuro.


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I reati ambientali nel sistema di gestione D.Lgs n.231

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Ei fu. Finalmente, dopo dieci anni dall’entrata in vigore del D.Lgs n. 231/01, i reati ambientali sono entrati a far parte del sistema della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, “grazie” al tardivo recepimento, nel nostro ordinamento, della direttiva 2008/99/CE, sulla tutela penale dell’ambiente. 

Fu vera gloria? Parlo al passato remoto di quanto successo solo poche settimane fa perché la prima impressione è quella che non sia successo un granché, e il legislatore delegato si sia limitato esclusivamente ad inserire nella 231 (attraverso il D.Lgs 121/11, che ha introdotto al suo interno) soltanto quelle disposizioni strettamente necessarie a garantire (coma al solito in ritardo, dopo la procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia attivata dalla U.E.) l’adempimento agli obblighi comunitari scaturenti dalla direttiva 2008/99/CE, senza riordinare, ancora una volta, l’intera materia dei reati ambientali, e senza rendere obbligatoria l’adozione di modelli organizzativi idonei alla ragionevole prevenzione del rischio reato. Verrebbe dunque da rispondere in modo negativo… 

Lo suggerisce lo stesso modus operandi, lo stesso già adottato a partire dal 2001 quando, nello strutturare il sistema di responsabilità degli enti collettivi conseguenti a reato (D.LGS 231/01), il nostro legislatore delegato ritenne opportuno escludere dall’attuazione della delega i reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio: la loro introduzione, infatti, avrebbe fatto della responsabilità degli enti “un problema di quotidiana amministrazione della giustizia”. Tanto che, nella relazione di accompagnamento del tempo, si sottolineò che “l'introduzione della responsabilità sanzionatoria degli enti assume carattere di forte innovazione nell'ordinamento e, quindi, sembra opportuno contenerne, perlomeno nella fase iniziale, la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento”.


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L'Organismo di Vigilanza ex Dlgs 231/01 nella Legge di Stabilità 2011

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La Legge 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di stabilità 2012) pubblicata sulla G.U. dello scorso 14.11.2011, reca novità sui soggetti che possono svolgere le funzioni dell’OdV di cui all'art. 6, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 231/2001, sulla responsabilità degli Enti e società. 

La modifica è contenuta nel comma 12 dell'art. 14 e recita: "All’articolo 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, dopo il comma 4 è inserito il seguente: “4-bis. Nelle società di capitali il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza e il comitato per il controllo della gestione possono svolgere le funzioni dell’organismo di vigilanza di cui al comma 1, lettera b)”. 

In relazione alla suddetta modifica, deve essere sottolineato che essa vale esclusivamente "nelle società di capitali" ed entra in vigore il 1 gennaio 2012 e, quindi, non deve intendersi immediatamente operativa.

Rispetto alla bozza di decreto legge per lo sviluppo che circolava ai primi del mese di novembre 2011 - che ha scatenato numerose polemiche - vi è un ridimensionamento della portata della norma.


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La responsabilità d'impresa ex D.Lgs 231/2001 - servizio di consulenza

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Con l’art.2 del decreto legislativo 121 del luglio 2011 è stata estesa ai reati ambientali la portata della responsabilità civile diretta delle imprese sancita dal decreto legislativo 231 del 2001. Questo vuol dire che soggetti forniti di personalità giuridica, società, associazioni e imprese individuali sono responsabili non solo per reati contro la P.A. (es. corruzione), reati informatici, riciclaggio/ricettazione, reati societari, corruzione internazionale, reati in materia di sicurezza sul lavoro, ma anche per reati ambientali come il trasporto di rifiuti non autorizzato, o la creazione di scarichi di acque reflue industriali non autorizzati.

L'estensione della responsabilità diretta d'impresa in forza del D.Lgs n. 231/01 ai reati ambientali rientra in un percorso normativo volto a rivoluzionare il diktat, che ha imperato per anni, secondo il quale societas delinquere non potest.

Societas delinquere non potest significa letteralmente che "la società non può commettere reati" e, in sostanza, risponde ad un classico principio sulla responsabilità penale delle persone giuridiche: una persona giuridica non può commettere reati, per la mancanza di volontà (elemento soggettivo) che copre la frode ai suoi lavori. 
In tal modo, alle persone giuridiche non possono essere imposte sanzioni intese come le conseguenze giuridiche penali-classiche.
Di conseguenza,  i patrimoni societari sono stati finora fatti salvi dall'eventualità di essere soggetti a sanzioni per responsabilità da qualsivoglia reato...
Con l'estensione della responsabilità d'impresa anche ai reati mbientali, il paradigma è cambiato, e l'impresa è chiamata a rispondere direttamente per la commissione, da parte dei dipendenti, di tali tipologie di reato.

Natura Giuridica propone un servizio di consulenza in materia di responsabilità d'impresa ex D lgs 231, che supporti l'azienda nel suo confrontarsi con questa nuova materia.
Andrea Quaranta, titolare di Natura Giuridica ed esperto in diritto dell'ambiente e dell'energia, si avvale della collaborazione di Luca De Gennaro, professionista in possesso di una consolidata esperienza nella consulenza alle imprese in materia di gestione e controllo dei costi, che ha già supportato numerose imprese nella messa a punto del sistema organizzativo Mog previsto dal decreto 231.


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