La persona giuridica è responsabile anche di un vantaggio indiretto, come conseguenza dell’illecito commesso da un dipendente?
Fermo restando che l'interesse del dipendente autore del reato può coincidere con quello dell'Ente, la responsabilità della società sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi anche quello dell'Ente?
In altri termini, se i reati presupposto vengono commessi nell'interesse esclusivo delle persone fisiche autrici dei medesimi, tale circostanza, che costituisce un limite negativo della fattispecie complessa da cui scaturisce la responsabilità dell'ente, comporta la necessaria estraneità dell’ente-datore di lavoro?
Il punto di partenza è costituito dall’art. 5 del D.Lgs n. 231/01 stabilisce che:
a) la persona giuridica è responsabile per i reati commessi “nel suo interesse o vantaggio” dai suoi vertici apicali ovvero da coloro che sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza dei medesimi,
b) mentre l’ente non risponde se questi stessi soggetti hanno agito nell’interesse proprio o di terzi.
Dall’analisi di questa disposizione si evince che l’alternatività tra interesse e vantaggio rischia di venire vanificata dal limite posto dalla lett. b): infatti, l’accertata carenza di un seppure concorrente interesse dell’ente nella commissione del reato impedisce di determinare la sua responsabilità, a prescindere da qualsiasi verifica dell’eventuale vantaggio che il medesimo abbia eventualmente ricavato dalla consumazione dell’illecito.
Tant’è che, in dottrina, qualcuno aveva “bollato” come pleonastico il requisito del vantaggio e qualificato l'interesse quale sostanzialmente unico criterio attributivo della responsabilità all'ente, dovendosi assegnare al requisito del "vantaggio" al più un valore solo sintomatico dell'effettivo perseguimento dell'interesse dell'ente.
La Cassazione ha affermato che i termini interesse e vantaggio riguardano concetti giuridicamente diversi.
Infatti si deve distinguere fra un interesse per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, e un vantaggio obiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante.
Di conseguenza:
- l’interesse ed il vantaggio devono ritenersi criteri imputativi concorrenti ma alternativi
- occorre attribuire alla nozione di interesse una dimensione non propriamente od esclusivamente soggettiva (questo determinerebbe una deriva "psicologica" nell'accertamento della fattispecie che non trova effettiva giustificazione nel dato normativo), ma piuttosto oggettiva (in questo modo si conserva autonomia concettuale al termine "vantaggio", pure contemplato dalla norma menzionata tra i criteri ascrittivi della responsabilità).
Di conseguenza, l'interesse dell'autore del reato può coincidere con quello dell'ente, ma la responsabilità dello stesso sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi anche quello dell'ente.
In conclusione, affinché possa ascriversi all'ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell'autore di quest'ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, "anche" l'interesse del medesimo.