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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (VIII)

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(segue da) Ultima “puntata” dell’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!

Il post precedente chiosava così: “il problema del cibo, e dell’agricoltura, non è, da noi, un problema di carenza: anzi nei paesi ricchi di cibo ce n’è fin troppo, tanto da dover essere gettato via… I prodotti che scadono, ad esempio, devono essere buttati via: in termini tecnici si dice che questi prodotti vengono valorizzati. Sono gli scarti, i rifiuti dei supermercati. Ma non di tutti".

I LAST MINUTE MARKET
Infatti...
Infatti esistono i c.d. “Last Minute Market”, “idea e pratica” nata alla fine degli anni 90: Andrea Segrè, Preside della Facoltà di agraria dell'Università di Bologna, in quel periodo ebbe occasione di calcolare gli sprechi medi che si perpetravano nella grande distribuzione.
Circa 170 tonnellate di cibo perfettamente consumabile, nei soli quattro supermercati che hanno aderito all'iniziativa...
E su scala nazionale?
Considerando tutte le tipologie distributive cash and carry, ipermercati, supermercati e piccoli dettaglio il potenziale quantità di beni alimentari recupe
rabili sono pari a 238.000 tonnellate, dice Sabina Morganti, di Last Minute Market.

Piero Riccardi fa due rapidi conti: “calcolando un valore medio per chilo di cibo recuperato di 3 euro e 70 centesimi, otteniamo uno spreco di 881 milioni di euro, che potrebbe sfamare 620 mila persone in un anno pari a 566 milioni di pasti all’anno. Sono cifre impressionanti, ma per noi tutto questo è solo il benessere”

Ma: perché tutto questo spreco?

Scarto fisiologico per la Grande Distribuzione, “spiega” Stefano Cavagna, direttore di un ipermercato a Bologna.
Ma lo scarto dei supermercati è solo il terminale di una catena che inizia dal campo.
Ma lo scarto, è davvero fisiologico?

I GAS - GRUPPI D'ACQUISTO SOLIDALI
Esistono, tuttavia, luoghi in cui, per fortuna, lo scarto non sanno neanche cosa sia...
L’azienda biologica Colombini a Pisa, ad esempio, che fa parte di una rete di GAS, Gruppi d’Acquisto Solidali, un gruppo di persone della zona che si uniscono e organizzano acquisti comuni, direttamente da un’azienda.
Come funziona?
Semplice.
Attraverso la programmazione delle semine.

Basta sfruttare internet: un sito,
un forum di discussione dei progetti, e “il gioco è fatto”...
La scelta dei consumatori, dunque, “parte” dalla semina.
Per quanto riguarda il prezzo, poi, i GAS cercano di mantenerlo, stabile, intorno all'euro e 70 centesimi al chilo, “indifferenziato” (stesso prezzo al chilo per tutti i prodotti).

“Nelle buste, carote, broccoli, fragole tutto ha lo stesso prezzo, tutto costa mediamente 1 euro e 70 al chilo e le carote industriali da 7 centesimi sembrano lontane anni luce, lontani anni luce gli sprechi nel campo, perché al contadino il prezzo non ripaga neppure la raccolta, gli sprechi nei mercati generali solo perché un gambo è un po’ appassito, e nei supermercati dove una retina di arance viene gettata nella spazzatura solo perché una è ammaccata, sembrano lontani anni luce con la loro inefficienza, i prezzi alti, gli imballaggi che costano più del prodotto e paiono fatti apposta solo per alimentare i termovalorizzatori.
Qui tutto funziona diversamente, i consumatori intervengono sul piano di semine, gli sprechi sono zero perc
hé tutto quello che viene prodotto finisce nelle buste dei consumatori e per l’agricoltore non c’è nulla che non valga la pena di essere raccolto.
Tutto qui è efficiente ed economico, e tutto sembra così semplice”
.


Stesso discorso vale per il latte: molti allevatori possono vendere direttamente, senza intermediari, il latte, perchè le loro mucche sono sane e alimentate con prodotti di qualità, certificati.

In questo modo guadagnano tutti.
I consumatori, che pagano meno il prodotto finale; il produttore, che può ricavare un prezzo giusto dal suo lavoro; e anche l’ambiente, perché lo spreco di imballaggi si abbassa drasticamente....

In Italia, precisa Piero Riccardi, “consumiamo 834.000 litri di latte al giorno, che significa 834.000 bottiglie di plastica e buste del latte in meno nei rifiuti ogni giorno, in pratica una montagna...”

CHILOMETRO ZERO
Sandra Chiarato, della Coldiretti Veneto, dice che “il chilometro zero fa pensare al protocollo di Kyoto, fa pensare comunque a una cosa a portata di mano, per cui i ristoratori hanno pensato giustamente di non pensare più a una cucina tipica, ma di pensare a una cucina a chilometro zero. Forse non abbiamo scoperto niente di nuovo, ma sicuramente abbiamo creato una coscienza, abbiamo creato un ombrello dove tutti sono andati a ripararsi e a creare anche una strategia di promozione, ma anche un credo, un credo nuovo, una scelta etica.

In conclusione: serve un agricoltura migliore, rispettosa dell’ambiente, della sopravvivenza del nostro pianeta,dei cibi che produce non solo è possibile, ma si sta già realizzando.
Migliaia di agricoltori, allevatori ci stanno mettendo le loro competenze e la loro faccia.
Ma un vero cambiamento non è possibile senza le nostre scelte, di ciò che mettiamo sulle nostre tavole, di quello che mangiamo al bar, al ristorante, in mensa.


È vero, nessuno può impedire ad un supermercato di vendere delle fragole fuori stagione perché inquinano e hanno poche proprietà nutritive.

Ma noi possiamo non comprarle.

E cosa impedisce alle mense aziendali o scolastiche di cucinare pasti a chilometri zero?


Ippocrate, nel 400 a.c. diceva, e con qusto si chiude la puntata: "lascia che il cibo sia la tua medicina".


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (VII)

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Continua l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!

Il post precedente ha messo in evidenza l’importanza della logica che mette al centro il consumatore…

Occorre, ora, mettere in evidenza l’importanza del biologico

L’IMPORTANZA DEL BIOLOGICO

"Produrre una varietà antica di mele non è un vezzo o una nostalgia, significa contare su una varietà più resistente alle malattie di quel posto, significa poter non usare pesticidi e insetticidi chimici, insomma fare un’agricoltura più pulita".

Riguardo alla qualità dei frutti, uno studio dell’Università di California Davis del 2006 lascia pochi dubbi.
La ricerca, durata 10 anni, dimostra la superiorità del biologico.

Anche Maria Teresa Russo, chimica degli alimenti dell’Università di Reggio Calabria – Università dotata di un laboratorio integrato, uno dei pochissimi esempi esistenti qua in Italia, dove si fanno misurazioni di qualità e si estraggono sostanze naturali dai vegetali da usare nella lotta biologica alle malattie – sottolinea che "la concimazione su un prodotto alimentare […] ha un riflesso immediato sulla composizione chimica del prodotto. Diciamo che comunque prodotti alimentari ottenuti con metodo biologico hanno delle caratteristiche edonistiche e anche delle sostanze che definiscono l’aspetto nutrizionale per alcuni versi migliore".

Biologico, tuttavia, ricorda Piero Riccardi, non è solo assenza di pesticidi e fertilizzanti chimici.
Base dell’agricoltura biologica, infatti, è lasciare inerbiti i campi con le erbe spontanee per produrre quella sostanza organica nel terreno che permette di non usare i fertilizzanti chimici e questa è proprio quella pratica indicata dalla Fao per contenere la produzione di gas serra.

GLI EFFETTI DANNOSI DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE…

Cercando qualche dato – dice la Gabanelli"abbiamo trovato che l’Istituto nazionale per la nutrizione delle piante ha calcolato il rapporto fra perdita di sostanza organica nei terreni, dovuta a continui cicli di arature e concimazioni chimiche, e la produzione di anidride carbonica".
In che modo?
"Sappiamo che l’erba e le foglie metabolizzano tramite fotosintesi l’anidride carbonica, liberano l’ossigeno nell’aria e trattengono il carbonio che si fissa nel terreno e si combina con le sostanze organiche. I continui cicli di aratura e di concimazione chimica distruggono le sostanze organiche, si libera il carbonio nell’aria che combinandosi con l’ossigeno diventa anidride carbonica.
In sostanza ogni volta che viene arato un campo iperconcimato, contribuisci all’emissione di gas serra tanto quanto una colonna di tir.
I dati ahimè sono impressionanti".

Il protocollo di Kyoto, dice che – a partire da gennaio e per i prossimi 4 anni – dobbiamo ridurre l’emissione di gas serra del 6,5%, pena una multa salatissima.
Siccome non abbiamo ancora fatto nulla, sul sito del Kyoto club c’è un contatore che misura in tempo reale il debito che l’Italia sta accumulando: 47 euro al secondo, più di 4 milioni di euro al giorno. Ma pare che la cosa non ci interessi granché.

"Eppure secondo l’istituto nazionale per la nutrizione delle piante, per rientrare nei parametri, basterebbe imprigionare dentro i nostri 13 milioni di terreni agricoli lo 0,1% di carbonio. Quel carbonio che viene liberato dalle continue arature di terreni iperconcimati chimicamente. Quindi bisognerebbe fare quello che già fa l’agricoltura biologica già fa.
Ma c’è chi sostiene che questo metodo provocherebbe una carenza di cibo".

“Un gruppo di ricercatori dell’Università del Michigan negli Stati Uniti – dice Maria Fonte, economista agraria dell’Università Federico II di Napoli – rispondendo a questa preoccupazione hanno portato avanti un grande lavoro di ricerca passando in rassegna circa trecento lavori, i quali mettevano a confronto le rese del biologico e le rese dell’agricoltura convenzionale”.

Il risultato svela che se tutti i paesi sviluppati coltivassero con metodi di agricoltura biologica, in media le rese sarebbero inferiori di un 10%, mentre aumenterebbe la disponibilità per i paesi in via di sviluppo.

…E QUELLI DELL’INUTILE SPRECO

Il problema del cibo, e dell’agricoltura, non è, da noi, un problema di carenza: anzi nei paesi ricchi di cibo ce n’è fin troppo, tanto da dover essere gettato via…

I prodotti che scadono, ad esempio, devono essere buttati via: in termini tecnici si dice che questi prodotti vengono valorizzati.
Sono gli scarti, i rifiuti dei supermercati.
Ma non di tutti

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (VI)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!


Il post precedente si concludeva con una considerazione di Piero Riccardi sulla perdita della sostanza organica nei terreni, partita attorno la quale si gioca il futuro dell’agricoltura sostenibile.

Ci avviciniamo pian piano alla conclusione del riassunto di questa importantissima puntata di Report

SLOW FOOD E LA SCELTA DEL CIBO RESPONSABILE

A Bra, fra il Roero e le Langhe, c’è la sede storica di Slow Food, un’associazione che nasce negli anni ’80 come risposta al Fast Food, e che fa della scelta del cibo un atto responsabile.
Carlo Petrini, l’ideatore di Slow Food, è stato da poco inserito dal quotidiano inglese The Guardian tra le 50 personalità (unico italiano…) che potrebbero salvare il pianeta dai danni dell’effetto serra.

Al microfono di Piero Riccardi spiega che “nel momento in cui facciamo le scelte tutti siamo dei gastronomi; e siccome ognuno di noi fa delle scelte, nel momento in cui fa delle scelte sul proprio cibo, in qualche misura, non solo è gastronomo ma è anche contadino, sceglie che tipo di agricoltura aiutare, sceglie che tipo di agricoltura sostenere.
E allora da questo punto di vista le opzioni e le scelte devono essere responsabili"
.

Un’agricoltura rispettosa dell’ambiente, di piccola scala, continua Petrini, è assolutamente più produttiva e più sostenibile che un’agricoltura massiva, di larga scala, nel senso che produce di più, perché consente anche in piccole realtà territoriali la rotazione delle coltivazioni e consente un utilizzo dei terreni in modo più intelligente.
È questa la nuova forma della modernità: avere la cultura, la conoscenza e la saggezza per tornare a ritmi che rispettino la stagionalità e la produzione locale.

PROGETTI AGRICOLI SOSTENIBILI PER COMBATTERE LA MENTALITA’ DEL VINTO

I Presidi nati attorno a Slow Food, 200 in Italia e altri 100 nel mondo, sono un esempio di sostenibilità, di lotta contro i troppo compromessi cui dovevano sottostare gli allevatori…

"Vedevo proprio che i più bravi volevano smettere – dice Sergio Capaldo, l’ispiratore e motore di una associazione di allevatori nel cuneese – i figli lasciavano l’attività perché dicevano tanto non c’è niente da fare, è proprio la mentalità del vinto, veramente, se tu non entravi nella grande distribuzione, se non facevi così, se non usavi quell’integratore, se non facevi tutto quello che noi non volevamo che a volte avvenisse, sembrava che tu fossi un perdente.

Sempre questa mentalità di dire, no vince il furbo, non vince chi è onesto, questo è stata una sfida che io ho voluto lanciare”

La ricetta?
Semplice.
E sostenibile.
Non è stato inventato niente.
“L’allevamento sostenibile è quello dove il numero di capi è proporzionato ai terreni dell’azienda dove l’allevatore produce da sé il foraggio e gli alimenti necessari, fertilizzati con lo stesso letame dei suoi animali, che è sano perché non contiene medicinali e altri chimici, perché se il cibo è buono l’animale sta bene e non servono i medicinali. Per tutti gli allevatori del presidio prodursi l’alimentazione in azienda è fondamentale, anche perché non si dipende dagli acquisti esterni e se il costo del mais e dei mangimi a livello mondiale aumenta all’azienda non importa, il costo di allevamento rimane certo”.

UNA NUOVA LOGICA
Non è la logica di chi vende che deve decidere come noi dobbiamo produrre, ma è il contrario.
Si riporta al primo posto il consumatore……che vuole mantenere l’ambiente e curarsi con la qualità del cibo.

Per allevare occorre garantirsi il prezzo giusto.
E per garantirsi il prezzo giusto gli allevatori del Presidio hanno deciso di controllare anche il resto della filiera: la distribuzione.
Come?
Attraverso un moderno, efficiente, computerizzato sistema di controllo: la tracciabilità e le forniture sono gestite direttamente, senza intermediari.
Con importanti e positive ricadute sui prezzi….

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (V)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!
Il post precedente
ci ha proiettato verso i risultati della ricerca condotta dal centro di scienze dell’invecchiamento dell’Università di Chieti al fine di quantificare la presenza in frutta e ortaggi di polifenoli e flavonoidi.
Ricerca che – senza entrare nei dettagli – ha mostrato l’enorme differenza esistente nei livelli di licopene fra i pomodori “artificiali” (raccolti verdi, e maturati successivamente) e i pomodori….pomodori!

LA ROTTURA DELLE SICUREZZE DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE
Altro argomento, altra interconnessione….

Adesso Piero Riccardi intervista Claudio Caramadre, agricoltore da più generazioni, diventato agricoltore industriale per “necessità”, e riconvertitosi all’agricoltura tradizionale, non appena si è accorto degli effetti sulla biodiversità dell’uso indiscriminato dei diserbanti, e le sue sue sicurezze, al riguardo, avevano cominciato a vacillare…

Caramadre ci tiene a far notare la differenza fra il suo terreno, riconvertito a coltura tradizionale, e quello del vicino, ostinatamente succube della chimica
“Guarda la differenza tra questi due terreni – dice Carama
dre – quando ho cominciato la conversione al bio avevo un terreno tutto come questo, sostanza organica media intorno allo 0,3, 0,4%; adesso mi sono avvicinato all’1%.
È un terreno vivo, mentre questo è più simile al polistirolo che non alla terra: questo è l’elemento che fa la differenza tra agricoltura biologica e agricoltura convenzionale.

La chimica, presupponendo il fatto che tutto quello che serve alla vita della pianta può essere prodotto da un’altra parte, trasportato lì e immesso nel terreno, praticamente ha ridotto il terreno a non essere più vitale, perché tanto non gli serve la propria vita, basta che gli metti i fertilizzanti.

Questo significa che nel momento in cui l’industria smetterà, per un qualsiasi motivo, di produrre i fertilizzanti, avremo distrutto la vita in tutti i terreni…
"

I PARADOSSI CAPITALI DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE
Il professor Piero Bevilacqua, storico dell’Università “La Sapienza” di Roma, ha elaborato la teoria dei paradossi capitali dell’agricoltura industriale chimica, quella che lui stesso ha definito una partita di giro truccata.

"I concimi chimici – spiega il Professore – diversamente da quanto era accaduto in tutta la precedente storia dell’umanità, non fertilizzano più la terra ma fertilizzano direttamente la pianta.
La concimazione chimica ripetuta nel corso di decenni finisce con l’impoverire la sostanza organica nel terreno, finisce con il favorire l’accumulo di metalli pesanti, il terreno si isterilisce, diventa pesante e naturalmente la pianta vive in un habitat artificiale, questa pianta può sopravvivere solo se costantemente medicalizzata".

Piero Riccardi fa il punto della situazione: “questa della sostanza organica è la partita attorno la quale si gioca il futuro dell’agricoltura sostenibile.
La perdita di sostanza organica nei terreni è una delle più grandi fonti di produzione di gas serra perché è proprio la sostanza organica a trattenere il carbonio prodotto dalla fotosintesi delle piante.
Arare, diserbare, fertilizzare chimicamente, significa liberare di nuovo nell’aria quel carbonio. Un grammo di carbonio liberato ne produce 3,6 di CO2.
Prima dell’avvento dell’agricoltura industriale il suolo agricolo italiano conteneva in media 130 tonnellate per ettaro di carbonio, oggi meno di 70, significa che negli ultimi 50-100 anni, l’agricoltura intensiva ha prodotto 80 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, un quinto di quanta se ne produce in Italia in un anno”.

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (IV)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!

Il
post precedente si
concludeva con una domanda: il modello di consumo…imposto dalla Grande distribuzione ci fa effettivamente risparmiare?

Milena Gabanelli
riassume, con il suo solito stile, conciso e denso, quanto detto fin qui:
“Abbiamo visto che le carote, per esempio, al produttore vengono pagate 7 centesimi al c
hilo (tra parentesi poi ci chiediamo perché chi raccoglie frutta e verdura viene pagato una miseria e in nero), e poi le carote arrivano al negozio ad un prezzo 20 volte superiore.
Ma chi lo stabilisce il prezzo?

Dovrebbe essere il mercato, ma quale mercato non si è capito, perché al mercato tutti dicono "il prezzo lo fa la Grande Distribuzione", che controlla il 70% del venduto...
Quindi dovrebbero essere prezzi bassi, invece l’indagine conoscitiva dell’autorità garante per la concorrenza e il mercato dice " i prezzi al consumo nei supermercati, comparti
ortofrutticolo, risultano sensibilmente superiori a quelli del mercati di quartiere".

LA CREAZIONE DI ASPETTATIVE (E DI PREZZI)
Paolo Barberini, presidente di Federdistribuzione, pone l’accento sul “problema culturale”, legato al fatto che, dopo aver creato delle aspettative nei clienti, “loro” si propongono di assecondarli:
“il non voler mangiare per forza o consumare le fragole a Natale non è un discorso che può essere imputato alla Grande Distribuzione – ultimo anello della catena – che vende le fragole”.
È un problema che riguarda il desiderio delle fragole che vengono prodotte o in serra o in altri paese europeo oppure mondiale quindi noi diamo il prodotto al nostro cliente […]
Noi lo facciamo perché è nel nostro dna, il nostro oggetto sociale, noi facciamo i commercianti, per cui, d’altra parte non è che possiamo disciplinare per legge quelli che sono i desideri….”

Discorso culturale a parte, e ritornando ai prezzi, Pietro Riccardi fa notare al suo interlocutore che “queste carote costano 8 e 76 al chilo, siamo andati qui vicino a Latina e le carote al produttore vengono pagate 7 centesimi. Come fa ad aumentare così tanto da 7 centesimi alla produzione a 8 e 70 al chilo”?

La risposta, laconica, tende a sottolineare l’importanza del servizio insito nel prodotto stesso, assolutamente enorme, e va dalla “quantità di tempo che non fa spendere alla massaia nell’acquisto, alla quantità di tempo c
he non fa spendere alla massaia nel lavaggio, nel tagliarle e nel fare tutti quelli che sono gli atti quotidiani. Adesso purtroppo il tempo è tiranno per cui si preferisce, in alcuni casi, spendere più in servizio che non nel prodotto”.

La differenza in un gesto: “a noi il gesto di grattugiare ci prende qualche istante.
Quello che c’è dietro la scatola di carote grattugiate invece sono trasporti, plastica, energia e infine pure lo smaltimento della confezione nel termovalorizzatore.

Qual è la logica economica di tutto questo?”

LA “LOGICA” DIETRO L’INCREDIBILE SPRECO
Della logica che sta dietro a questo incredibile spreco abbiamo già parlato nel primo di questa serie doi post….
Paolo Barberini, parlando di "logica", "tira fuori" il consumo intelligente, evidenziando che “non è vietando il consumo che si da la possibilità al pianeta di sostenersi, secondo me è incentivando i consumi intelligenti che abbiamo la possibilità di sostenerci”.
Tuttavia, incalzato da domande sempre più stringenti, ammette che, nel palcoscenico nel quale tutti recitiamo un copione “assolutamente dettato”, lui “questo” (si riferisce al fatto che utilizza la passata di pomodoro, in inverno, anziché mangiare i pomodori d’inverno) non glielo posso dire, se no ammazzo il mercato!”

LA PRECARIA DISINFORMAZIONE
"Le riviste che ci danno indicazioni sulle proprietà di questo o quello per mantenerci sani, o per ritardare i segni dell’età – riassume la Gabanelli vendono parecchio, quindi la salute ci è cara.
Le carote
fanno bene alla pelle, i pomodori contengono il licopene che combatte i radicali liberi.
E noi giù a comprare
carote e pomodori.
Quello che non si scrive mai è in quali condizioni il prodotto mantiene le sue
caratteristiche.
Le carote grattugiate vendute nella vaschetta di plastica o l’insalata già lavata e in busta hanno perso le loro proprietà, è quasi come mangiare niente.

Presso il centro di scienze dell’invecchiamento dell’Università di Chieti è stata fatta una ricerca per quantificare la presenza in frutta e ortaggi di polifenoli e flavonoidi, quegli antiossidanti dalle proprietà antitumorali per i quali bisogna mangiare frutta e verdura.
Cosa hanno fatto? Sono andati al mercato e hanno fatto la spesa, cioè hanno analizzato gli stessi prodotti che poi finiscono sulla nostra tavola, per vedere che cosa c’è dentro.

Per esempio hanno preso i pomodori, dalla catena corta, cioè quelli raccol
ti oggi maturi, e venduti domani o dopodomani nei mercati rionale, e i pomodori verdi”.
Qual è il risultato della ricerca?


(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (III)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!

Nel post precedente
si concludeva evidenziando i risultati di uno studio statunitense, il quale ha
dimostrato che “spesso” il prodotto è soltanto un pretesto per venderti un imballaggio.

I COSTI “NASCOSTI”

Più analiticamente, precisa Pietro Riccardi, “per produrre un chilo di questa plastica con cui ci han
no venduto una manciata di prezzemolo tritato o 500 grammi di pomodori si consumano 17 chili e mezzo di acqua, un po’ di petrolio, una spruzzata di zolfo, una di monossido di carbonio e 2 chili e mezzo di CO2, quella che fa crescere il gas serra.
Ma prima ancora dobbiamo calcolare i costi di estrazione del petrolio, il trasporto in raffineria, le varie lavorazioni in fabbriche diverse e ad ogni fase un nuovo trasporto. E poi quella plastica diventa subito un rifiuto e bisogna smaltirla. E allora prodotti che sono un pretesto per vendere un imballaggio".


I “PREZZI DI MERCATO”…

Ma quanto vale il prodotto?
"Ad esempio, di questa confezione di carote grattugiate che ho pagato 8 euro e mezzo al chilo, quanto va a chi lo ha prodotto nel campo, al contadino?”

Da un’indagine condotta in una delle zone agricole più fertili, a sud di Roma, è emerso che le carote,
ad esempio, vengono pagate all’incirca 7 centesimi al Kg…prezzo stabilito dal “mercato” in modo insindacabile…(il “mantra della legge di mercato”…che stabilisce, oltre al prezzo, anche le modalità e i tempi di produzione; cfr. prima parte)

…E LE CONSEGUENZE DELL’AGRICOLTURA CONVENZIONALE
Nei terreni, a forza di fare monocoltura – dettata da esigenze di mercato, per
aumentare la produttività… – l’elemento naturale ha reagito, “riempiendo il terreno di nematodi, i pionieri della vita, cioè quelli che dopo la colata lavica o dopo il disastro vanno a colonizzare”.
Il problema è che si nutrono delle radici delle piante, e la chimica si rivela un’arma non così efficace, oltre che dannosa…
In definitiva: massicce dosi di dicloropropene; sterilizzazione della terra; nematocidi sempre più resistenti; ulteriore aumento delle dosi di fumiganti…
Per produrre: carote. Carote a un certo prezzo.
Ma, alla fine, chi è questo “mercato” che stabilisce i prezzi?

I “PREZZI DI MERCATO”…E IL RUOLO DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE
Il prezzo come si fa?
Risponde Giuseppe La Rocca, Presidente del MOF
, il più grande mercato orto frutta d’Europa
“Diciamo il mercato non è più il luogo come 20 anni fa, 30 anni fa, dove effettivamente si faceva il prezzo” ...
Certo il prezzo lo si fa quotidianamente nel mercato, però…
Però, in un “clima di globalizzazione”, è ovvio che il prezzo non sia più fatto, specificatamente, all’interno del mercato…

Un lungo giro di parole per dire che
il prezzo viene stabilito anche dalla Grande Distribuzione quando fa dei contratti direttamente con i fornitori.
Pietro Riccardi cerca di “mettere ordine” a questo vortice di “parole vuote”…
"Insomma, cerchiamo di capire chi stabilisce il prezzo e tutti ci dicono il mercato, ma nel più grand
e mercato orto frutta d’Europa invece, il presidente ci dice imbarazzato che sì, il prezzo dovrebbero farlo loro, perché sono appunto il mercato, ma in effetti a farlo è la Grande Distribuzione"...
Mai “toccata” - si lamenta il Presidente del MOF, dalle inchieste televisive.


Report lo accontenta, ed entra.

Per verificare.

“La Grande Distribuzione, abbiamo capito – prosegue la Gabanelli dallo studio – non passa dai mercati generali, che vendono sempre meno […], ma fa accordi con il produttore, che deve essere in grado di produrre sempre, tutto l’anno, le stesse cose e in grandi quantità. Anche nelle nostre serre si produco tutto l’anno pomodori, peperoni o fragole ma molto spesso nei supermercati vediamo che questi prodotti arrivano dall’Egitto, dalla Spagna o dal Marocco, cioè da quei paesi dove il processo di industrializzazione dell’agricoltura è più spinto”


Ma si risparmia?

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (II)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!

I LUNGHI VIAGGI DELLA VERDURA e i “PREZZI DI MERCATO”

Pietro Riccardi fa una “breve”, ma significativa, analisi
1- degli incredibili “viaggi dei prodotti agricoli”: i
I pomodorini che arrivano dalla Sicilia (nel caso specifico, si è presa in considerazione la situazione della Auchan S.p.A. di Rozzano Milano), ad esempio, sono stati prodotti a Vittoria (Ragusa), sono andati a finire a Faenza, in Emilia Romagna, a Ravenna e li abbiamo comprati a Roma.

2 - dei prezzi, che lievitano ad ogni passaggio…il caso più eclatante è quello del prezzemolo: “i 50 grammi del caro vecchio prezzemolo di questa busta, ci sono costati 1 euro e 49, detto così, forse, non appare neppure tanto, anzi si perché intanto ci potrei comperare 2 etti di caffè, ma se ne ricavo il prezzo al chilo scopro che ho pagato il prezzemolo 29 euro e 80 al chilo".

"Sono sicuro di aver comperato del prezzemolo?
Cosa abbiamo pagato comprando questa confezione? Forse questo prezzemolo non è lo stesso che quando andiamo al mercato comunale sotto casa, a fare la spesa, e chiediamo al fruttivendolo un mazzetto di odori, lui mette insieme una costa di sedano, una carota, un ciuffetto di prezzemolo appunto e veloce ce li aggiunge nella busta, gratis. Quale sarà il valore reale del prezzemolo? Quello omaggio del fruttivendolo, o quello che ho pagato al prezzo di un filetto di manzo?”

IL DOCUMENTO “MILLENNIUM ECOSYSTEM ASSESSMENT” – IL RISCALDAMENTO GLOBALE

Nel documento, frutto di una laboriosa ricerca della FAO (il documento integrale si può scaricare cliccando qui) si conclude che, la principale causa del riscaldamento della terra è legata al cibo.
O meglio, al modello di produzione, distribuzione e consumo che il mondo occidentale ha adottato.

Ma perché un pomodoro dovrebbe far aumentare il riscaldamento globale?
Come si fa a calcolare l’emissione di gas serra da quello che ho nel piatto?

A questa domanda risponde Wulf Killmann, direttore del Dipartimento forestale della FAO.

“Allora, ho una bistecca sulla mia tavola, quanto ha contribuito esattamente alla formazione di gas serra questa bistecca prima che io me la mangi?
Qui alla Fao abbiamo cercato di capire tutto il ciclo di vita di questa bistecca dall’inizio alla fine, e la conclusione è che il 18% del gas serra è prodotto dagli allevamenti nel loro complesso e questo include la deforestazione, i foraggi coltivati per alimentare i bovini (mais, soia e così via), la digestione interna (il metano che viene prodotto), i fertilizzanti usati per fertilizzare i pascoli, i processi di trasformazione in carne, la macellazione, i trasporti, la refrigerazione e cosi via…”

Questo è l’intero ciclo di vita da analizzare, e così ognuno di noi, sapendolo, può decidere di comportarsi di conseguenza…

Perché non si tratta solo di cibo, ma di un sistema fatto di infinite interconnessioni…

INTERCONNESSIONI: RISCALDAMENTO GLOBALE E PESO DEGLI IMBALLAGGI

Fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, carburanti per i trattori, trasformazioni, refrigerazioni, trasporti.
Quanto contribuisce al riscaldamento globale il trasporto della frutta e verdura da una parte all’altra del pianeta?
E la busta di plastica che racchiude 50 grammi di prezzemolo che a occhio e croce costa di più del prezzemolo stesso?
Sono domande cui non si pensa quando si va a fare la spesa, ma che “nascondono” un universo assolutamente da scoprire.

Francesco Gesualdi, del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, intervistato da Pietro Riccardi, sottolinea, rispetto alla prima domanda, che “un chilo di ciliegie che produce qualcosa come 360 chilocalorie di fatto ne assorbe 20.000 per quanto riguarda i combustibili fossili, perché? Perché ci vogliono 2 litri e mezzo di cherosene per far arrivare un chilo di ciliegie dall’Argentina fino a qua il che significa 6 chili e mezzo di anidride carbonica prodotta, ecco e questo poi se lo moltiplichiamo per le tonnellate e tonnellate di merci che viaggiano in giro per il mondo, poi alla fine ci rendiamo conto quanto siamo assurdi e schizofrenici”.

Rispetto alla seconda, cita uno studio statunitense, fatto rispetto ad un barattolo di mais del peso di 455 grammi, al fine di capire qual è l’energia utilizzata per ogni singolo componente.
I risultati hanno messo in luce che il mais, in quanto tale, ha assorbito 450 chilocalorie nella fase agricola, 316 nella fase industriale, mentre l’imballaggio incide per 1006 chilocalorie.

In sostanza, un terzo di tutta l’energia impiegata è “destinata” agli imballaggi: la più chiara dimostrazione che, “spesso”, il prodotto è soltanto un pretesto per venderti un imballaggio.

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (I)

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Più passa il tempo e più Report, la trasmissione condotta da Milena Gabanelli, si dimostra una delle rare trasmissioni che valga la pena di vedere, e di aspettare.

Quella di questa settimana, intitolata “Buon appetito!” (di Pietro Riccardi e Michele Buono), è particolarmente importante non solo per l’analisi delle profonde interconnessioni insite nel ciclo completo dell’agricoltura, ma anche per gli spunti che offre al consumatore, dato che tutti facciamo questo lavoro…

Data vastità degli argomenti trattati, che vanno dall’analisi dei prezzi al calcolo delle emissioni di CO2 in atmosfera, dal peso degli imballaggi al ruolo degli intermediari, dal potere della grande distribuzione ai paradossi industriali dell’agricoltura industrializzata, dal “Millennium Ecosystem Assesment” a Eatitaly, dal Last Minute Market ai Gruppi d’acquisto solidale, dividerò il post in più parti, cercando di riassumere la mole di lavoro dei due reporter senza snaturarne il profondo significato (Per leggere il testo completo, basta ciccare qui)

Già dall’inizio la Gabanelli sottolinea l’importanza di fare sul serio, per capire cosa possiamo fare per riba
ltare un sistema che alla lunga si ritorce contro di noi: è stato calcolato, infatti, che “la terra potrebbe nutrire 10 miliardi di persone che si alimentassero come gli indiani; 5 miliardi che seguissero la dieta degli italiani; ma solo 2,5 miliardi con il regime alimentare degli statunitensi.
Questo perché la metà dei cereali che produciamo servono per alimentare gli animali che mangiamo.
820 milioni di persone nel mondo muoiono di fame e altre 800 milioni mangiano come se di pianeti a disposizione ne avessero 5.
L’agricoltura industriale e chimica oggi è la causa di un terzo di tutte le emissioni di g
as serra che stanno uccidendo il pianeta.
Se il nostro futuro e quello della biosfera dipendono da come produciamo e consumiamo quotidianamente cibo, questo carica tutti noi di responsabilità, subito, ora”.
Il concetto di fondo è questo: siamo ciò che mangiamo, e questo significa che il cibo oltre ad essere una merce, deve avere anche un senso, che deve essere analizzato nell’ambito del contesto globale, considerando il ciclo completo di produzione-distribuzione-consumo.Il ciclo completo dell’agricoltura, secondo gli studi della Fao, incide per il 30% sul riscaldamento del pianeta.

Un metro di paragone:
- i trasporti non legati al settore dell’alimentazione incidono per il 17%
- il settore zootecnico produce gas serra 296 volte più dannosi del COo2.


Sempre parlando del settore zootecnico, lo studio pone l’accento su un fattore che la maggior parte di noi non conosce, e che potrebbe, invece, influenzare le nostre scelte alimentari: si consuma troppa carne, e in modo troppo diseguale.
Occorrerebbe ridistribuire meglio il consumo, “ma se il modello è la nostra ingordigia si può rischiare di arrivare alla rovina del pianeta.
Un hamburger di 150 grammi, prima di arrivare sulla nostra tavola ha consumato 2500 litri di acqua, tutta quella che serve per irrigare il terreno che cresce mais o il foraggio che serve ad alimentare l’animale. Ma la carne è poca cosa rispetto ad un sistema di produrre e consumare che sfugge alle ogni logica minime di tutela, della salute, del pianeta, del portafogli. Possiamo continuare a fregarcene, oppure vedere di cambiare abitudini”.


Lo “schema” che ho pensato di utilizzare, per sintetizzare quanto descritto in Report, dovrebbe dar l’idea visiva di quanti, e quali, sono i passaggi ed le interconnessioni presenti in un semplice gesto quotidiano: andare a comprare frutta e verdura, così come “imposto” (proprio su questo concetto ci soffermeremo più in là…) dall’attuale modello di consumo.


Che noi abbiamo il potere, e il dovere, di cambiare.

FUORI STAGIONE e MERCATO

Pomodori, zucchine, melanzane, peperoni, asparagi, fagiolini verdi, fragole in pieno inverno: qual è il senso di questa perenne voglia di estate, che nei supermercati dura tutto l’anno?
“Per legge – mettono i risalto i due reporter – tutti gli alimenti hanno le loro etichette, nomi, informazioni, numeri, pesi ma in genere ciò che osserviamo è la data di scadenza, "scade il…". Eppure l’etichetta ci può dire molto di più, ad esempio da dove arriva. Questi asparagi infatti vengono dal Perù, dato che in Italia, a gennaio, gli asparagi non possono crescere”.
Stesso discorso per i fagiolini, le fragole e molto, molto altro……

La domanda vale sia che tali prodotti fuori stagione vengano dall’estero (spesso da molto lontano, con gli annessi problemi legati all’inquinamento causato dai mezzi di trasporto), sia che vengano prodotti in Italia.
La risposta?
E’ il mantra della legge di mercato”: le serre si estendono senza soluzione di continuità
[…] e non servono più per proteggere i prodotti invernali più delicati dalle gelate, ma per produrre al di là delle stagioni […]

FUORI STAGIONE e PREZZI

Il gioco è semplice: “occorre” produrre solo roba fuori stagione.
Perché?
Perche quando arriverà la stagione, quella giusta, intendo, i pomodori, ad esempio, quelli che maturano, rossi, sulla pianta, non convengono più, perché il “mercato” butta giù il prezzo.
“La non stagionalità è il rito sacrificale al mercato, per tenere su i prezzi. Allora pomodori verdi d’inverno”

FUORI STAGIONE e P.I.L.

La stretta “logica” del mercato porta a parlare di tutto in termine di merci: tutto ciò che ha un valore economico ha un prezzo, espresso dai numeri del denaro, che sono quelli numeri del P.I.L., che quantifica tutto in termini di prezzi e quindi usa la logica molto banale, se vogliamo, ma molto stringente della matematica elementare del denaro, addizione e sottrazione”.
“Ma il valore, una buona teoria del valore – sottolinea Pierangelo Da crema, economista dell’Università Arcavata, in Calabria – tiene conto del fatto che il valore ha un senso, prima ancora che un prezzo.
Il prezzo non esprime il senso del valore, non esprime il significato di un bene”.

Purtroppo il P.I.L. esprime in modo eccellente l’ossessione della quantità, e ci fa dimenticare che esistono dei costi di cui non tiene assolutamente conto (quelli sostenuti dalla terra, da cui sottraiamo energie per produrre secondo tecniche produttive criticabili sotto l’aspetto ambientale; quelli legati all’inquinamento, …)

Si tratta di costi che non provocano una diminuzione del P.I.L.: anzi, il paradosso è che, al contrario, ne determinano un aumento, legato, in generale, al concetto di ricostruzione…
Un esempio “in crescendo” di questa logica perversa?”
“Si spacca una petroliera ….fa aumentare il P.I.L. perché dovrò ricostruirne un’altra e pure le coste da ripulire, i pesci e gli uccelli imbrattati da curare mi fanno alzare il P.I.L., e quando siamo in coda sull’autostrada il P.I.L. aumenta perché bruciamo carburante, che inquina, e se l’inquinamento ci fa venire un tumore tanto meglio, malati e ospedali fanno aumentare il P.I.L.. Un incidente fa aumentare il P.I.L.. I prodotti fuori stagione fanno alzare il P.I.L. perché costa di più produrli, perché più fertilizzanti, erbicidi e pesticidi uso, aumenta il P.I.L.. E pazienza se l’aereo che porta asparagi dal Perù e fagiolini dall’Africa produce CO2 perché si alza il numeretto magico del benessere. E poi i prodotti fuori stagione posso venderli ad un prezzo più alto di uno di stagione. E’ meglio vendere un chilo di fagiolini a gennaio a 4 e 99 al chilo, che un cavolfiore a 0.99, perché anche questo fa aumentare il P.I.L.


Per ricostruire, insomma, devi rompere.
Ma se non rompessi, non ci sarebbe bisogno di ricostruire…

(continua)


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Report, puntata del 16 marzo 2008: un altro modello di sviluppo (III). E' ancora possibile...

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“Cosa vuol dire rivoltare il mondo? Passare da un sistema basato sull’energia fossile, ad uno basato sulle rinnovabili.
Invertendo le proporzioni.
Ma non si può fare dall’oggi al domani riempiendo tutti gli spazi di pale e pannelli. Bisogna modificare l’intero sistema.
Oggi la rete elettrica è organizzata prevalentemente per distribuire e non per ricevere da tutte le fonti rinnovabili, perché sole e vento sono discontinui. Significa che anche producendo più fotovoltaico o eolico o termodinamico, il sistema non è in grado di accogliere un aumento di questo tipo di energia e va in tilt. Bisognerebbe programmarle le rinnovabili, ma come fai a programmare la distribuzione di energia discontinua in un intero paese?”.

Questo è l’interrogativo con il quale inizia l’ultima parte della puntata di Report di domenica 16 marzo 2008, nella quale la Gabanelli e i suoi hanno dato spazio a quelli che ci stanno provando, partendo dal ripensamento dell’architettura della rete elettrica, che, adesso come adesso, disperde un’enorme quantità di energia.
Occorre, in sostanza, “accorciare la catena”, e fare in modo che questa architettura sia in grado di accogliere e controllare, contemporaneamente, sia i grandi impianti fossili che quelli piccoli rinnovabili.

Alla Cesi ricerca, ad esempio, si prova a immaginare un mondo pensato per isole autosufficienti: quartieri, città in cui le centrali sono piccole e si trovano vicino alle persone, in modo da non sprecare nulla.
Nel caso in cui un utente connesso alla rete non sfrutti direttamente l’energia prodotta dal suo impianto, l’energia e il calore vengono continuamente riutilizzati, attraverso l’utilizzo di cellule combustibile di tipo Pem, da 5 kilowatt, di generatori solari termodinamici (in grado di produrre energia elettrica attraverso la concentrazione della radiazione solare senza emettere nulla in atmosfera), accumulatori, sistemi “intelligenti” in grado di monitorare la rete, di regolare il traffico energetico e di assicurare che il livello di tensione rimanga costante (l’energiebutler, la chiave della rete intelligente, un apparecchio che renderebbe inutile la costruzione di nuove centrali regolando semplicemente la domanda).

Da noi, però, mancano i finanziamenti e si fa fatica a coinvolgere l’industria che sarebbe il punto focale di una ricerca concreta.
Accade, quindi, che, ad esempio, i tedeschi siano, nel campo del fotovoltico, molto più avanti del paese del sole…

E’ ancora possibile riportare indietro il mondo?
A quest’ultima domanda, l’economista Jorgen Randers (l’autore di “I limiti allo sviluppo”) risponde che “sì, è possibile, ma non facilmente. Sarebbe stato più facile se si fosse iniziato prima. Per prima cosa bisogna organizzare l’economia mondiale in modo sostenibile, cioè che possa operare ancora per molto tempo senza arrivare al collasso. La capacità di carico del pianeta è la capacità di sostenere gli esseri umani, le società. Se il mondo ci deve sostenere, deve essere messo in condizione di sostenere la capacità di carico per molto tempo. Le combustioni prodotte dall’uomo sul pianeta devono essere sufficientemente ridotte perché il mondo possa andare avanti. L’impronta ecologica deve essere più bassa della capacità di carico”.

Se aumentiamo gradualmente il carico di una nave, conclude "ironico" Michele Buono, "possiamo anche cercare di distribuirlo in modo ottimale ma a un certo punto la nave affonderà, anche se avremo la consolazione di un affondamento ottimale".


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Report, puntata del 16 marzo 2008: un altro modello di sviluppo (II). Il necessario “disaccoppiamento" del concetto di merce e di quello di bene

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Pietro Lorusso, imprenditore di Bari, sottolinea – nell’intervista a Michele Buono – che la cultura dell’incremento del PIL significa aumento smisurato di produzione di merci, che sono inutili al benessere dell’uomo, consumano un’enorme quantità i risorse e devono essere prodotte in grandissima quantità…

La Gabanelli, dal canto suo, evidenzia le contraddittorietà del modello basato sul PIL: “sentire degli imprenditori dire che si producono troppe merci inutili sembra una roba da matti, ma non lo è: cercano un modello che permetta di non impoverirsi e vivere meglio utilizzando meno risorse.
Che nel nostro schema di sviluppo c’è qualcosa che non va lo dimostra il fatto che abbiamo paura che Cina e India arrivino a consumare quanto noi, perché si arriverebbe al collasso del sistema. Allora bisognerebbe ripensare tutto”.

Lo diceva, già nel 1972, Aurelio Peccei, dirigente FIAT e fondatore del Club di Roma quando, insieme ad un gruppo di imprenditori, economisti e scienziati, finanziò una ricerca al MIT di Boston volta a (cercare di) sapere dove ci avrebbe portato il nostro tipo di “crescita” economica: “il risultato della proiezione – proiezione, sottolinea in studio la Gabanelli, e non previsione – fu che il sistema sarebbe collassato, anche facendo finta di avere a disposizione risorse illimitate. E la risorsa numero uno per produrre qualunque cosa è l’energia”. Stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità, consumando e sprecando troppo, e ad un ritmo vertiginoso. Di qui l’estrema attualità e l’importanza dell’argomento, che comincia a spingere molti imprenditori (e non solo: basti pensare alle sempre più diffuse “metodologie” di consumo individuale) verso la ricerca di modelli alternativi, capaci di invertire la rotta.

Come nel caso del trasporto a Parma, dove è stato adottato un piano della mobilità
con un progetto e dei soldi per far camminare persone e merci risparmiando carburante e non inquinando (un sistema efficiente ed integrato di trasporto pubblico che disincentiva il massiccio ricorso alle autovetture private; piste ciclabili sicure; biciclette comunali che si possono prendere a piacimento con una semplice carta magnetica; il bus a chiamata; il car sharing; l’introduzione di figure specializzate di mobility manager).

O in quello previsto per il trasporto delle merci sulla tratta La Spezia-Padova, dove l’utilizzo della ferrovia e la raziona
lizzazione dei viaggi abbattono drasticamente il livello di inquinamento dovuto all’inutile trasporto su gomma. In definitiva, adottare un piano generale trasporti, in cui i movimenti di merci e le persone interagiscono, e tengono conto dell’ambiente: una visione globale, che porta ad investire sulla TAV ma anche sui trasporti regionali, tanto per fare un esempio.
La notizia è che tale piano es
iste già: purtroppo, però, come troppo sovente accade, al di là della facciata e delle parole da perenne propaganda elettorale, si nascondono gli interessi, neanche tanto occulti, di bottega, che ne modificano continuamente il contenuto, o ne ostacolano la realizzazione.
A questo, per completezza, occorre aggiungere che esiste ancora una radicata abitudine a utilizzare l’aut personale, anche per brevi spostamenti, e molto spesso per una sola persona.

O, ancora, come nel caso della monorotaia di Wuppertal, classico esempio di come si può utilizzare al meglio ciò che già esiste, invece di continuare a ricostruire, e sprecare materie ed energia.

O in quello del riutilizzo di pc e di materiale informatico per il riuso presso scuole o altre strutture che hanno bisogno di questo tipo di materiali; dell’utilizzo “perpetuo” che dei contenitori fanno coloro che comprano alla spina; del recupero di energia grigia da parte di una sessantina di imprenditori pugliesi, associatisi per fare in modo che gli scarti, i rifiuti, le esternalità di una impresa diventino materia prima per un’altra.Icastica, a questo riguardo, l’affermazione di Roberto Lorusso, imprenditore di Bari: “io posso decidere di concordare con un mio cliente l’erogazione di un prodotto/servizio in determinate ore del giorno dicendo che arriverò da lui non prima delle 10 e 30 ed andrò via alle 18 perché il mio personale viaggia solo con treno. Se io nella relazione spiego lui che il mancato utilizzo dell’automobile, il fatto di utilizzare un mezzo pubblico questo produce, in realtà è una dimensione delle risorse, che fa bene a me e fa bene anche a lui e se lui comincia a percepire questa cosa, nella catena di valore della relazione tra cliente e fornitore, può darsi che cambi qualche cosa nel modo in cui il mio cliente modifichi la relazione o con altri fornitori o con i suoi clienti”.

Vito Mannari, un
 altro imprenditore di Bari, afferma, dal canto suo, che “sono a disposizione studi attrezzati, sale riunione, in questo momento ci sono 3 offerte, uffici, depositi di magazzini spazi verdi. L’inutilizzo di uno spazio è spreco, l’inutilizzo di alcuni spazi in auto è spreco, l’inutilizzo dei miei scarti di produzione è spreco, l’inutilizzo della mia banda internet è spreco. Allora il fatto che la mia banda internet sia a disposizione di studenti, di persone deboli gratuitamente, il tutto sono scambi, sono doni, non mercificati, produce ricchezza, ricchezza culturale ricchezza sociale, automaticamente riduce l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente”.

Il risultato finale, sottolinea Michele Buono, è che sono avvenuti degli scambi gratuiti, non c’è stato passaggio di danaro, ma tutti hanno potuto godere di beni, compreso la comunità nella quale si svolgono questi scambi.

E’ un esempio di crescita senza spreco di risorse.
Eppure tutto questo sfugge al calcolo del PIL…


"Maggiore è la crescita delle merci che si scambiano col denaro, maggiore è il benessere. In realtà il concetto di merce non corrisponde al concetto di bene, per cui noi possiamo avere delle merci che fanno crescere il prodotto interno lordo che quindi richiedono denaro e così via, che non sono effettivamente dei beni. Tutta l’energia in più che si consuma in una casa mal costruita, tutta la benzina in più che si consuma in una coda, sono delle merci che fanno crescere il PIL e, quindi, il giro di denaro, ma che fanno diminuire il benessere. Noi dobbiamo disaccoppiare il concetto di merce dal concetto di bene. E a questo punto abbiamo bisogno di indicatori diversi per misurare il benessere di una nazione e dei suoi abitanti”
(Maurizio Pallante, economista dell’ambiente).


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