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Vivere a impatto zero

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di Naide Della Pelle

L’impatto zero è un modello di vita che punta verso l’azzeramento delle emissioni di CO2.
Le attività umane sono uno dei fattori che influenzeranno i futuri cambiamenti climatici. Questo è un dato accettato - come riporto nell'articolo Piccola Lezione sul clima - anche se, data la complessità e la molteplicità dei fattori che influenzano il clima, non siamo ancora in grado di capire che cosa succederà al nostro clima nei prossimi anni. Possiamo ragionare in termini probabilistici ed ipotizzare una serie di scenari.

Questo però non è un buon motivo per non agire fin da subito, concentrandoci su come ridurre gli effetti dannosi derivanti dalle attività umane, industriali e civili. Fare la spesa o comprare il giornale, prendere l’auto o produrre un bene: tutto quello che facciamo consuma energia.

Le materie prime più usate per produrre energia, attualmente, sono, per lo più, petrolio, carbone e metano che, bruciando, emettono anche anidride carbonica, oggi troppa per il nostro pianeta.
L’anidride carbonica è quella sostanza responsabile principale dell’effetto serra. La CO2 di per se non è un male, perché serve al nostro pianeta per trattenere il calore del sole, impedendo che la temperatura diventi troppo bassa per la nostra sopravvivenza. 
Il punto è che noi ne produciamo troppa, più di quanta noi e il pianeta riusciamo a sopportarne.



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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (VII)

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Continua l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!

Il post precedente ha messo in evidenza l’importanza della logica che mette al centro il consumatore…

Occorre, ora, mettere in evidenza l’importanza del biologico

L’IMPORTANZA DEL BIOLOGICO

"Produrre una varietà antica di mele non è un vezzo o una nostalgia, significa contare su una varietà più resistente alle malattie di quel posto, significa poter non usare pesticidi e insetticidi chimici, insomma fare un’agricoltura più pulita".

Riguardo alla qualità dei frutti, uno studio dell’Università di California Davis del 2006 lascia pochi dubbi.
La ricerca, durata 10 anni, dimostra la superiorità del biologico.

Anche Maria Teresa Russo, chimica degli alimenti dell’Università di Reggio Calabria – Università dotata di un laboratorio integrato, uno dei pochissimi esempi esistenti qua in Italia, dove si fanno misurazioni di qualità e si estraggono sostanze naturali dai vegetali da usare nella lotta biologica alle malattie – sottolinea che "la concimazione su un prodotto alimentare […] ha un riflesso immediato sulla composizione chimica del prodotto. Diciamo che comunque prodotti alimentari ottenuti con metodo biologico hanno delle caratteristiche edonistiche e anche delle sostanze che definiscono l’aspetto nutrizionale per alcuni versi migliore".

Biologico, tuttavia, ricorda Piero Riccardi, non è solo assenza di pesticidi e fertilizzanti chimici.
Base dell’agricoltura biologica, infatti, è lasciare inerbiti i campi con le erbe spontanee per produrre quella sostanza organica nel terreno che permette di non usare i fertilizzanti chimici e questa è proprio quella pratica indicata dalla Fao per contenere la produzione di gas serra.

GLI EFFETTI DANNOSI DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE…

Cercando qualche dato – dice la Gabanelli"abbiamo trovato che l’Istituto nazionale per la nutrizione delle piante ha calcolato il rapporto fra perdita di sostanza organica nei terreni, dovuta a continui cicli di arature e concimazioni chimiche, e la produzione di anidride carbonica".
In che modo?
"Sappiamo che l’erba e le foglie metabolizzano tramite fotosintesi l’anidride carbonica, liberano l’ossigeno nell’aria e trattengono il carbonio che si fissa nel terreno e si combina con le sostanze organiche. I continui cicli di aratura e di concimazione chimica distruggono le sostanze organiche, si libera il carbonio nell’aria che combinandosi con l’ossigeno diventa anidride carbonica.
In sostanza ogni volta che viene arato un campo iperconcimato, contribuisci all’emissione di gas serra tanto quanto una colonna di tir.
I dati ahimè sono impressionanti".

Il protocollo di Kyoto, dice che – a partire da gennaio e per i prossimi 4 anni – dobbiamo ridurre l’emissione di gas serra del 6,5%, pena una multa salatissima.
Siccome non abbiamo ancora fatto nulla, sul sito del Kyoto club c’è un contatore che misura in tempo reale il debito che l’Italia sta accumulando: 47 euro al secondo, più di 4 milioni di euro al giorno. Ma pare che la cosa non ci interessi granché.

"Eppure secondo l’istituto nazionale per la nutrizione delle piante, per rientrare nei parametri, basterebbe imprigionare dentro i nostri 13 milioni di terreni agricoli lo 0,1% di carbonio. Quel carbonio che viene liberato dalle continue arature di terreni iperconcimati chimicamente. Quindi bisognerebbe fare quello che già fa l’agricoltura biologica già fa.
Ma c’è chi sostiene che questo metodo provocherebbe una carenza di cibo".

“Un gruppo di ricercatori dell’Università del Michigan negli Stati Uniti – dice Maria Fonte, economista agraria dell’Università Federico II di Napoli – rispondendo a questa preoccupazione hanno portato avanti un grande lavoro di ricerca passando in rassegna circa trecento lavori, i quali mettevano a confronto le rese del biologico e le rese dell’agricoltura convenzionale”.

Il risultato svela che se tutti i paesi sviluppati coltivassero con metodi di agricoltura biologica, in media le rese sarebbero inferiori di un 10%, mentre aumenterebbe la disponibilità per i paesi in via di sviluppo.

…E QUELLI DELL’INUTILE SPRECO

Il problema del cibo, e dell’agricoltura, non è, da noi, un problema di carenza: anzi nei paesi ricchi di cibo ce n’è fin troppo, tanto da dover essere gettato via…

I prodotti che scadono, ad esempio, devono essere buttati via: in termini tecnici si dice che questi prodotti vengono valorizzati.
Sono gli scarti, i rifiuti dei supermercati.
Ma non di tutti

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (VI)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!


Il post precedente si concludeva con una considerazione di Piero Riccardi sulla perdita della sostanza organica nei terreni, partita attorno la quale si gioca il futuro dell’agricoltura sostenibile.

Ci avviciniamo pian piano alla conclusione del riassunto di questa importantissima puntata di Report

SLOW FOOD E LA SCELTA DEL CIBO RESPONSABILE

A Bra, fra il Roero e le Langhe, c’è la sede storica di Slow Food, un’associazione che nasce negli anni ’80 come risposta al Fast Food, e che fa della scelta del cibo un atto responsabile.
Carlo Petrini, l’ideatore di Slow Food, è stato da poco inserito dal quotidiano inglese The Guardian tra le 50 personalità (unico italiano…) che potrebbero salvare il pianeta dai danni dell’effetto serra.

Al microfono di Piero Riccardi spiega che “nel momento in cui facciamo le scelte tutti siamo dei gastronomi; e siccome ognuno di noi fa delle scelte, nel momento in cui fa delle scelte sul proprio cibo, in qualche misura, non solo è gastronomo ma è anche contadino, sceglie che tipo di agricoltura aiutare, sceglie che tipo di agricoltura sostenere.
E allora da questo punto di vista le opzioni e le scelte devono essere responsabili"
.

Un’agricoltura rispettosa dell’ambiente, di piccola scala, continua Petrini, è assolutamente più produttiva e più sostenibile che un’agricoltura massiva, di larga scala, nel senso che produce di più, perché consente anche in piccole realtà territoriali la rotazione delle coltivazioni e consente un utilizzo dei terreni in modo più intelligente.
È questa la nuova forma della modernità: avere la cultura, la conoscenza e la saggezza per tornare a ritmi che rispettino la stagionalità e la produzione locale.

PROGETTI AGRICOLI SOSTENIBILI PER COMBATTERE LA MENTALITA’ DEL VINTO

I Presidi nati attorno a Slow Food, 200 in Italia e altri 100 nel mondo, sono un esempio di sostenibilità, di lotta contro i troppo compromessi cui dovevano sottostare gli allevatori…

"Vedevo proprio che i più bravi volevano smettere – dice Sergio Capaldo, l’ispiratore e motore di una associazione di allevatori nel cuneese – i figli lasciavano l’attività perché dicevano tanto non c’è niente da fare, è proprio la mentalità del vinto, veramente, se tu non entravi nella grande distribuzione, se non facevi così, se non usavi quell’integratore, se non facevi tutto quello che noi non volevamo che a volte avvenisse, sembrava che tu fossi un perdente.

Sempre questa mentalità di dire, no vince il furbo, non vince chi è onesto, questo è stata una sfida che io ho voluto lanciare”

La ricetta?
Semplice.
E sostenibile.
Non è stato inventato niente.
“L’allevamento sostenibile è quello dove il numero di capi è proporzionato ai terreni dell’azienda dove l’allevatore produce da sé il foraggio e gli alimenti necessari, fertilizzati con lo stesso letame dei suoi animali, che è sano perché non contiene medicinali e altri chimici, perché se il cibo è buono l’animale sta bene e non servono i medicinali. Per tutti gli allevatori del presidio prodursi l’alimentazione in azienda è fondamentale, anche perché non si dipende dagli acquisti esterni e se il costo del mais e dei mangimi a livello mondiale aumenta all’azienda non importa, il costo di allevamento rimane certo”.

UNA NUOVA LOGICA
Non è la logica di chi vende che deve decidere come noi dobbiamo produrre, ma è il contrario.
Si riporta al primo posto il consumatore……che vuole mantenere l’ambiente e curarsi con la qualità del cibo.

Per allevare occorre garantirsi il prezzo giusto.
E per garantirsi il prezzo giusto gli allevatori del Presidio hanno deciso di controllare anche il resto della filiera: la distribuzione.
Come?
Attraverso un moderno, efficiente, computerizzato sistema di controllo: la tracciabilità e le forniture sono gestite direttamente, senza intermediari.
Con importanti e positive ricadute sui prezzi….

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (V)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!
Il post precedente
ci ha proiettato verso i risultati della ricerca condotta dal centro di scienze dell’invecchiamento dell’Università di Chieti al fine di quantificare la presenza in frutta e ortaggi di polifenoli e flavonoidi.
Ricerca che – senza entrare nei dettagli – ha mostrato l’enorme differenza esistente nei livelli di licopene fra i pomodori “artificiali” (raccolti verdi, e maturati successivamente) e i pomodori….pomodori!

LA ROTTURA DELLE SICUREZZE DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE
Altro argomento, altra interconnessione….

Adesso Piero Riccardi intervista Claudio Caramadre, agricoltore da più generazioni, diventato agricoltore industriale per “necessità”, e riconvertitosi all’agricoltura tradizionale, non appena si è accorto degli effetti sulla biodiversità dell’uso indiscriminato dei diserbanti, e le sue sue sicurezze, al riguardo, avevano cominciato a vacillare…

Caramadre ci tiene a far notare la differenza fra il suo terreno, riconvertito a coltura tradizionale, e quello del vicino, ostinatamente succube della chimica
“Guarda la differenza tra questi due terreni – dice Carama
dre – quando ho cominciato la conversione al bio avevo un terreno tutto come questo, sostanza organica media intorno allo 0,3, 0,4%; adesso mi sono avvicinato all’1%.
È un terreno vivo, mentre questo è più simile al polistirolo che non alla terra: questo è l’elemento che fa la differenza tra agricoltura biologica e agricoltura convenzionale.

La chimica, presupponendo il fatto che tutto quello che serve alla vita della pianta può essere prodotto da un’altra parte, trasportato lì e immesso nel terreno, praticamente ha ridotto il terreno a non essere più vitale, perché tanto non gli serve la propria vita, basta che gli metti i fertilizzanti.

Questo significa che nel momento in cui l’industria smetterà, per un qualsiasi motivo, di produrre i fertilizzanti, avremo distrutto la vita in tutti i terreni…
"

I PARADOSSI CAPITALI DELL’AGRICOLTURA INDUSTRIALE
Il professor Piero Bevilacqua, storico dell’Università “La Sapienza” di Roma, ha elaborato la teoria dei paradossi capitali dell’agricoltura industriale chimica, quella che lui stesso ha definito una partita di giro truccata.

"I concimi chimici – spiega il Professore – diversamente da quanto era accaduto in tutta la precedente storia dell’umanità, non fertilizzano più la terra ma fertilizzano direttamente la pianta.
La concimazione chimica ripetuta nel corso di decenni finisce con l’impoverire la sostanza organica nel terreno, finisce con il favorire l’accumulo di metalli pesanti, il terreno si isterilisce, diventa pesante e naturalmente la pianta vive in un habitat artificiale, questa pianta può sopravvivere solo se costantemente medicalizzata".

Piero Riccardi fa il punto della situazione: “questa della sostanza organica è la partita attorno la quale si gioca il futuro dell’agricoltura sostenibile.
La perdita di sostanza organica nei terreni è una delle più grandi fonti di produzione di gas serra perché è proprio la sostanza organica a trattenere il carbonio prodotto dalla fotosintesi delle piante.
Arare, diserbare, fertilizzare chimicamente, significa liberare di nuovo nell’aria quel carbonio. Un grammo di carbonio liberato ne produce 3,6 di CO2.
Prima dell’avvento dell’agricoltura industriale il suolo agricolo italiano conteneva in media 130 tonnellate per ettaro di carbonio, oggi meno di 70, significa che negli ultimi 50-100 anni, l’agricoltura intensiva ha prodotto 80 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, un quinto di quanta se ne produce in Italia in un anno”.

(continua)


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Report, 13 aprile 2008: buon appetito! (II)

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Prosegue l’analisi dell’approfondita puntata di Report di domenica 13 aprile 2008, intitolata “Buon appetito!

I LUNGHI VIAGGI DELLA VERDURA e i “PREZZI DI MERCATO”

Pietro Riccardi fa una “breve”, ma significativa, analisi
1- degli incredibili “viaggi dei prodotti agricoli”: i
I pomodorini che arrivano dalla Sicilia (nel caso specifico, si è presa in considerazione la situazione della Auchan S.p.A. di Rozzano Milano), ad esempio, sono stati prodotti a Vittoria (Ragusa), sono andati a finire a Faenza, in Emilia Romagna, a Ravenna e li abbiamo comprati a Roma.

2 - dei prezzi, che lievitano ad ogni passaggio…il caso più eclatante è quello del prezzemolo: “i 50 grammi del caro vecchio prezzemolo di questa busta, ci sono costati 1 euro e 49, detto così, forse, non appare neppure tanto, anzi si perché intanto ci potrei comperare 2 etti di caffè, ma se ne ricavo il prezzo al chilo scopro che ho pagato il prezzemolo 29 euro e 80 al chilo".

"Sono sicuro di aver comperato del prezzemolo?
Cosa abbiamo pagato comprando questa confezione? Forse questo prezzemolo non è lo stesso che quando andiamo al mercato comunale sotto casa, a fare la spesa, e chiediamo al fruttivendolo un mazzetto di odori, lui mette insieme una costa di sedano, una carota, un ciuffetto di prezzemolo appunto e veloce ce li aggiunge nella busta, gratis. Quale sarà il valore reale del prezzemolo? Quello omaggio del fruttivendolo, o quello che ho pagato al prezzo di un filetto di manzo?”

IL DOCUMENTO “MILLENNIUM ECOSYSTEM ASSESSMENT” – IL RISCALDAMENTO GLOBALE

Nel documento, frutto di una laboriosa ricerca della FAO (il documento integrale si può scaricare cliccando qui) si conclude che, la principale causa del riscaldamento della terra è legata al cibo.
O meglio, al modello di produzione, distribuzione e consumo che il mondo occidentale ha adottato.

Ma perché un pomodoro dovrebbe far aumentare il riscaldamento globale?
Come si fa a calcolare l’emissione di gas serra da quello che ho nel piatto?

A questa domanda risponde Wulf Killmann, direttore del Dipartimento forestale della FAO.

“Allora, ho una bistecca sulla mia tavola, quanto ha contribuito esattamente alla formazione di gas serra questa bistecca prima che io me la mangi?
Qui alla Fao abbiamo cercato di capire tutto il ciclo di vita di questa bistecca dall’inizio alla fine, e la conclusione è che il 18% del gas serra è prodotto dagli allevamenti nel loro complesso e questo include la deforestazione, i foraggi coltivati per alimentare i bovini (mais, soia e così via), la digestione interna (il metano che viene prodotto), i fertilizzanti usati per fertilizzare i pascoli, i processi di trasformazione in carne, la macellazione, i trasporti, la refrigerazione e cosi via…”

Questo è l’intero ciclo di vita da analizzare, e così ognuno di noi, sapendolo, può decidere di comportarsi di conseguenza…

Perché non si tratta solo di cibo, ma di un sistema fatto di infinite interconnessioni…

INTERCONNESSIONI: RISCALDAMENTO GLOBALE E PESO DEGLI IMBALLAGGI

Fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, carburanti per i trattori, trasformazioni, refrigerazioni, trasporti.
Quanto contribuisce al riscaldamento globale il trasporto della frutta e verdura da una parte all’altra del pianeta?
E la busta di plastica che racchiude 50 grammi di prezzemolo che a occhio e croce costa di più del prezzemolo stesso?
Sono domande cui non si pensa quando si va a fare la spesa, ma che “nascondono” un universo assolutamente da scoprire.

Francesco Gesualdi, del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, intervistato da Pietro Riccardi, sottolinea, rispetto alla prima domanda, che “un chilo di ciliegie che produce qualcosa come 360 chilocalorie di fatto ne assorbe 20.000 per quanto riguarda i combustibili fossili, perché? Perché ci vogliono 2 litri e mezzo di cherosene per far arrivare un chilo di ciliegie dall’Argentina fino a qua il che significa 6 chili e mezzo di anidride carbonica prodotta, ecco e questo poi se lo moltiplichiamo per le tonnellate e tonnellate di merci che viaggiano in giro per il mondo, poi alla fine ci rendiamo conto quanto siamo assurdi e schizofrenici”.

Rispetto alla seconda, cita uno studio statunitense, fatto rispetto ad un barattolo di mais del peso di 455 grammi, al fine di capire qual è l’energia utilizzata per ogni singolo componente.
I risultati hanno messo in luce che il mais, in quanto tale, ha assorbito 450 chilocalorie nella fase agricola, 316 nella fase industriale, mentre l’imballaggio incide per 1006 chilocalorie.

In sostanza, un terzo di tutta l’energia impiegata è “destinata” agli imballaggi: la più chiara dimostrazione che, “spesso”, il prodotto è soltanto un pretesto per venderti un imballaggio.

(continua)


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