A pochi giorni dalla tragedia umana e dal pontenziale disastro ambientale causato dallo schianto della nave da crociera Concordia su uno scoglio davanti all'Isola del Giglio, vorrei soffermarmi, in questo articolo, sul concetto giuridico di disastro ambientale.
L'incidente verificatosi sulla nave comandata dal chiacchierato Schettino potrebbe infatti provocare, in seguito alla fuoriuscita incontrollata di carburante sulla costa antistante l'isola, danni incalcolabili all'ecosistema circostante. In queste ore si sta tentando con ogni mezzo di impedire una tale catastrofica eventualità, che potrebbe verificarsi a causa dell'inabissamento della nave.
Cos'è, dal punto di vista giuridico, un disastro ambientale? E, soprattutto, per configurare il reato di disastro è necessario che l'evento abbia luogo oppure è sufficiente che una condotta avventata o un dolo ne provochino un rischio potenziale?
Il punto di partenza è costituito dall'articolo 434 del c.p. (crollo di costruzioni o altri disastri dolosi), in base al quale “chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti – fra i quali rientrano gli attentati alla sicurezza dei trasporti e degli impianti di energia elettrica e del gas, disastro ferroviario e altri disastri – commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”.
In più occasioni la Cassazione ha avuto modo di sottolineare che per configurare il reato di “disastro” è sufficiente che il nocumento metta in pericolo, anche solo potenzialmente, un numero indeterminato di persone: infatti, il requisito che connota la nozione di "disastro" ambientale, delitto previsto dall'art.434 c.p., è la "potenza espansiva del nocumento" anche se non irreversibile, e l'"attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità".
Il termine “disastro” (nella specie ambientale) implica che esso sia cagione di un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità "straordinariamente grave e complesso", ma non "eccezionalmente immane" (Cassazione Sez. V, n. 40330/2006): pertanto,"è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone".
Il termine “disastro” (nella specie ambientale) implica che esso sia cagione di un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità "straordinariamente grave e complesso", ma non "eccezionalmente immane" (Cassazione Sez. V, n. 40330/2006): pertanto,"è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone".
Strettamente connessa alla nozione disastro ambientale è la problematica relativa alle conseguenze risarcitorie/patrimoniali dello stesso: di recente, la Cassazione (11059/09, relativa al disastro ambientale di Seveso; sentenza che potete scaricare sul sito di Natura Giuridica, dopo esservi registrati gratuitamente; per cercare la sentenza utilizzate il motore di ricerca interno del sito) ha affermato che anche il “semplice” - si fa per dire – “patema d'animo” sofferto dai cittadini, preoccupati per le ripercussioni sulla salute, causate dal disastro ambientale, deve essere risarcito come danno morale.
È giuridicamente corretto, infatti, inferire l’esistenza di un danno non patrimoniale, ravvisato nel patema d’animo indotto dalla preoccupazione per il proprio stato di salute e per quello dei propri cari, ove tale turbamento psichico sia provato in via documentale.
Il danno non patrimoniale può essere provato anche per presunzioni, e la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza dell’altro, secondo criteri di regolarità causale.
Anche in passato la Cassazione si è erta a difesa degli interessi dei danneggiati da disastri ambientali (la maggior parte causati dall'inadeguatezza di coloro che erano preposti a prevenirli, e dall'assenza di un'autorevole e cogente normativa pronta a rendere obbligatorio e credibile un sistema giuridico di prevenzione), i cui danni gli inquinatori tendevano a minimizzare, quando non a deridere: nel caso del verificarsi di un delitto di pericolo presunto a carattere plurioffensivo, ad esempio, la Cassazione ha sottolineato che alla lesione dell’interesse adespota all’ambiente ed alla pubblica incolumità, si affianca il pregiudizio causato alla sfera individuale dei singoli soggetti che si trovano in concreta relazione con i luoghi interessati dall’evento dannoso, in ragione della loro residenza o frequentazione abituale. Ove sia dimostrato che tale relazione è stata causa di uno stato di preoccupazione è configurato il danno non patrimoniale in capo a detti soggetti, danno risarcibile in quanto derivato da reato.
In alte pronunce, la stessa Cassazione (n. 26972/08) ha stabilito che va esclusa l’autonomia del c.d. danno esistenziale, il quale non rappresenta altro che una delle voci del danno non patrimoniale.
Come si poteva (e può) essere più chiari di così?
Anche in passato la Cassazione si è erta a difesa degli interessi dei danneggiati da disastri ambientali (la maggior parte causati dall'inadeguatezza di coloro che erano preposti a prevenirli, e dall'assenza di un'autorevole e cogente normativa pronta a rendere obbligatorio e credibile un sistema giuridico di prevenzione), i cui danni gli inquinatori tendevano a minimizzare, quando non a deridere: nel caso del verificarsi di un delitto di pericolo presunto a carattere plurioffensivo, ad esempio, la Cassazione ha sottolineato che alla lesione dell’interesse adespota all’ambiente ed alla pubblica incolumità, si affianca il pregiudizio causato alla sfera individuale dei singoli soggetti che si trovano in concreta relazione con i luoghi interessati dall’evento dannoso, in ragione della loro residenza o frequentazione abituale. Ove sia dimostrato che tale relazione è stata causa di uno stato di preoccupazione è configurato il danno non patrimoniale in capo a detti soggetti, danno risarcibile in quanto derivato da reato.
In alte pronunce, la stessa Cassazione (n. 26972/08) ha stabilito che va esclusa l’autonomia del c.d. danno esistenziale, il quale non rappresenta altro che una delle voci del danno non patrimoniale.
Come si poteva (e può) essere più chiari di così?
Di fronte a tale chiarezza e sostenibilità giuridica, il nostro legislatore, cosa ha fatto?
Dopo anni di discussioni sulla necessità/validità dell’adozione di strumenti anche penali nel settore del diritto dell’ambiente - considerati dalla maggior parte degli operatori giuridici meno incisivi delle sanzioni amministrative-pecuniarie, più “efficaci” nel tutelare l’ambiente, perché in grado di colpire gli imprenditori nel cuore dei loro interessi economici - di fronte alla necessità di recepire la direttiva 2008/99/CE, il nostro legislatore ha deciso che non eravamo ancora pronti, a dieci anni dall'entrata in vigore del D.Lgs n. 231/01 sulla responsabilità d'impresa, a riformare completamente il diritto penale dell'ambiente, introducendo reati ambientali come si deve: cioè in modo adeguato.
Ha scelto la classica via all'italiana dell'impossibilità tecnica, infarcita con scuse più o meno sempre uguali a se stesse: il recepimento della normativa comunitaria non può essere assicurato attraverso un completo ripensamento del sistema dei reati contro l’ambiente (costituirebbe un “problema di quotidiana amministrazione della giustizia”, è stato detto, pensate un po'...), il quale “potrà costituire oggetto di un successivo intervento normativo”.
Sempre poi, mai ora.
Dieci anni fa il Legislatore sosteneva che “l'introduzione della responsabilità sanzionatoria degli enti assume carattere di forte innovazione nell'ordinamento e, quindi, sembra opportuno contenerne, perlomeno nella fase iniziale, la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento”.
Il risultato finale di questo inadeguato modo di fare politica e normativa ha condotto a questo splendido risultato: il legislatore si è limitato ad inserire nel d.lgs 231/01 soltanto quelle disposizioni strettamente necessarie a garantire l’adempimento agli obblighi comunitari scaturenti dalla direttiva 2008/99/CE, senza riordinare, ancora una volta, l’intera materia dei reati ambientali. I pochi reati previsti sono tutti di natura formale, e hanno a che vedere con fattispecie di pericolo astratto. Fra le numerose fattispecie lasciate fuori dalla 231 rientra, indovinate un po', quella relativa al disastro ambientale...
Insomma, il nostro legislatore si è comportato come il comandante Schettino: in modo inadeguato..
Dopo anni di discussioni sulla necessità/validità dell’adozione di strumenti anche penali nel settore del diritto dell’ambiente - considerati dalla maggior parte degli operatori giuridici meno incisivi delle sanzioni amministrative-pecuniarie, più “efficaci” nel tutelare l’ambiente, perché in grado di colpire gli imprenditori nel cuore dei loro interessi economici - di fronte alla necessità di recepire la direttiva 2008/99/CE, il nostro legislatore ha deciso che non eravamo ancora pronti, a dieci anni dall'entrata in vigore del D.Lgs n. 231/01 sulla responsabilità d'impresa, a riformare completamente il diritto penale dell'ambiente, introducendo reati ambientali come si deve: cioè in modo adeguato.
Ha scelto la classica via all'italiana dell'impossibilità tecnica, infarcita con scuse più o meno sempre uguali a se stesse: il recepimento della normativa comunitaria non può essere assicurato attraverso un completo ripensamento del sistema dei reati contro l’ambiente (costituirebbe un “problema di quotidiana amministrazione della giustizia”, è stato detto, pensate un po'...), il quale “potrà costituire oggetto di un successivo intervento normativo”.
Sempre poi, mai ora.
Dieci anni fa il Legislatore sosteneva che “l'introduzione della responsabilità sanzionatoria degli enti assume carattere di forte innovazione nell'ordinamento e, quindi, sembra opportuno contenerne, perlomeno nella fase iniziale, la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento”.
Il risultato finale di questo inadeguato modo di fare politica e normativa ha condotto a questo splendido risultato: il legislatore si è limitato ad inserire nel d.lgs 231/01 soltanto quelle disposizioni strettamente necessarie a garantire l’adempimento agli obblighi comunitari scaturenti dalla direttiva 2008/99/CE, senza riordinare, ancora una volta, l’intera materia dei reati ambientali. I pochi reati previsti sono tutti di natura formale, e hanno a che vedere con fattispecie di pericolo astratto. Fra le numerose fattispecie lasciate fuori dalla 231 rientra, indovinate un po', quella relativa al disastro ambientale...
Insomma, il nostro legislatore si è comportato come il comandante Schettino: in modo inadeguato..
Sul disastro umano e ambientale provocato dall'inadeguatezza del comandante della Concordia (Costa Crocere) Schettino si è molto detto, in questi giorni, e si sono sprecati i paragoni con la “nave Italia”, alla deriva eppur guidata, fino a poco tempo fa, da personaggi sempliciotti ed irresponsabili, nella loro tracotante faciloneria e superficialità. Massimo Gramellini, come al solito, ha tinteggiato in poche parole quello che anch'io, al riguardo, penso .
Per ulteriori approfondimenti in materia di responsabilità d'impresa ex D. lgs 231/2001 si rinvia agli articoli già pubblicati in materia su questo blog.