Accanimento interpretativo

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Chi opera nel settore delle bonifiche dei siti contaminati conosce molto bene le problematiche connesse alla gestione delle acque di falda, emunte durante le operazioni di bonifica.

Considerarle alla stregua di rifiuti o di acque di scarico ha la sua bella differenza, in termini di gestione, di costi e di risvolti ambientali.


Spesso la giurisprudenza – che interpreta e attualizza le norme di diritto, (sovente?) scritte in fretta da politici non del tutto addentro alla materia – affrontando questa difficile tematica ha affermato che l’art. 243 del cosiddetto Testo Unico Ambientale, nell’introdurre una normativa nuova rispetto al passato, ha individuato una disciplina speciale per la acque di falda, emunte durante operazioni di bonifica, rispetto a quella dettata per le acque di scarico: disciplina dalla quale, in ogni caso, si evince l’intenzione del legislatore di riferirsi, per la gestione delle acque di falda emunte nelle operazioni di MISE/bonifica, alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti.
Natura Giuridica, considerata l’importanza giuridico-ambientale di questa problematica, ha parlato svariate volte della gestione delle acque emunte, sottolineando le difficoltà gestionali precedenti l’entrata in vigore del Testo Unico Ambientale, con particolare riferimento alla bonifica nei siti di interesse nazionale, ed evidenziando la sostanziale uniformità giurisprudenziale al riguardo.


Con la sentenza che vi propongo oggi, invece, il TAR di Cagliari  (sentenza n. 549/09) ha cambiato rotta, stabilendo che
secondo l’insegnamento tradizionale della giurisprudenza amministrativa e penale, la presenza di uno iato - materiale e temporale - tra la fase di emungimento e quella di trattamento già di per sé depone per la qualificabilità delle acque in termini di “rifiuto liquido”.
Infatti, l’alternativa nozione di “scarico” implica ontologicamente la sussistenza di una continuità tra la fase di “generazione” del refluo e quella della sua “immissione” nel corpo recettore, mentre l’esistenza di una fase intermedia, in cui le acque sono stoccate in attesa della loro destinazione finale, richiama direttamente i noti concetti di “trattamento” e “smaltimento”, tipici della disciplina dei rifiuti.
Ma, anche a prescindere da queste considerazioni di ordine generale, le acque emunte da una falda inquinata rientrano a buon diritto nella nozione comunitaria e nazionale di “rifiuto liquido”, elastica e comprensiva di qualunque sostanza, non più direttamente utilizzabile, idonea ad arrecare un danno all’ambiente.

A sostegno di tali argomentazioni, il Collegio oltre a citare la sentenza della Corte di Giustizia Van de Walle e la definizione di bonifica di cui al d.m. 471/1999 – la quale confermerebbe che i limiti di soglia individuati dal d.m. 471/1999 sono riferibili anche alle acque di falda emunte in sede di bonifica – chiama in gioco anche la stessa nuova disciplina, introdotta dal Testo Unico Ambientale,
la cui lettura complessiva depone per il sostanziale favor del legislatore nazionale ad una notevole estensione del concetto di “rifiuto liquido”, quanto meno laddove sussistano i “requisiti sostanziali” della non riutilizzabilità e della potenzialità inquinante.
Sulla base di queste premesse sistematiche, conclude il Collegio, devono leggersi le disposizioni di cui all’ art. 243 del d.lgs. 152/2006: non è condivisibile, quindi, la tesi secondo cui tale disposizione avrebbe introdotto, per le acque di falda emunte per finalità di disinquinamento, un regime derogatorio rispetto alla normale disciplina dei rifiuti liquidi.
Una simile interpretazione, chiosa il TAR di Cagliari, non tiene conto della particolare natura delle stesse, certamente contaminate e normalmente destinate allo smaltimento senza riutilizzo…

La confusione normativa genera altalenanti interpretazioni giurisprudenziali, che a loro volte creano disparità fra gli operatori del settore.

Quando ci sono troppi galli nel pollaio (in questo caso: normativo...come a dire, troppi interessi di parte da dover difendere politicamente e legislativamente...) è difficile che si riesca ad ottenere qualche utile risultato.

Capita, tuttavia, a volte, che venga qualche buona norma – come quella di cui all’art. 243 del “sedicente” Testo Unico Ambientale – contenente regole condivisibili, e concretamente applicabili.
Che non è poco.

A cosa serve, dunque, questo accanimento interpretativo?
Cosa ci fanno tutti questi "galli nel pollaio" giurisprudenziale (queste diverse interpretazioni, figlie di una delle poche norme chiare scritte ultimamente dal nostro distratto legislatore)?

Foto: “[Roosters]” originally uoploaded by bass_nroll