Con questo post intendo aprire una lunga e analitica riflessione sulle politiche ambientali intraprese nel nostro BelPaese, al fine di evidenziarne il pericoloso immobilismo, a fronte dell’esigenza crescente di risposte concrete agli innumerevoli problemi creati dalla miope gestione dell’ambiente e dell’economia quando i principi teorici, generali ed astratti – declamati con forza all’unanimità – devono essere tradotti in azioni concrete…
Intendo iniziare questo “viaggio” dal concetto di sviluppo sostenibile, per cercare di evidenziare le criticità nascoste nelle maglie stesse della definizione, e di intuire (o constatare…) i negativi effetti pratici della politica che ad esso dice di ispirarsi.
Ma che, in realtà, continuando a giocare con le parole, non ha ancora dato le risposte concrete che ci attendiamo…
Sviluppo sostenibile è la traduzione letterale italiana di susteinable development: la definizione "ufficiale" – Development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs - Sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro propri bisogni – proviene dal famoso rapporto Brundtland (World Commission on environment and Development's - the Brundtland Commission - report Our Common future, Oxford University Press, 1987).
Come è stato osservato (A. Muratori, Sviluppo Sostenibile: tra il dire e il fare, sulla rivista Ambiente, n. 10/96) “quando risulta assolutamente indispensabile far mostra di avere raggiunto un'intesa tra parti arroccate su punti di vista molto distanti, o portatrici di interessi contrapposti, avviene non di rado che si trovi il "comune denominatore" in assunti di principio sui quali sia impossibile "non essere d'accordo", e in proposizioni sostanzialmente anodine, in grado di significare tutto e il contrario di tutto”.
Si tratta di un’analisi senz’altro impietosa ma che descrive, in modo puntuale, un certo modo di legiferare, che dietro lo schermo di affermazioni di principio tanto late quanto incontestabili, nasconde una nebulosa propensione a mantenere lo status quo.
Grazie alla sua lata formulazione, prosegue l’autore, con il modello dello sviluppo sostenibile (che propone, contemporaneamente, orizzonti mondiali e locali), “i paesi avanzati possono così trovare una giustificazione "etica" del proprio benessere; quelli poveri sono sottratti - o possono illudersi di essere sottratti - all'ulteriore impoverimento - centrale essendo infatti il tema della tutela e della ridistribuzione delle risorse nell'ottica dello sviluppo sostenibile - e allo sfruttamento; l'ambientalismo trova un vessillo "credibile", e al tempo stesso si libera della scomoda qualifica di laudator temporis acti, e dell'accusa di non saper cogliere, per "estraneità genetica", le esigenze della società contemporanea; e chi orienta i consumi, e produce i beni, può essere soddisfatto da un compromesso che gli propone, sì, inevitabilmente, limiti e impegni cui far fronte, ma, viste poi le scadenze, tutto sommato, con moderazione”.
Per comprendere meglio le dinamiche sottese alla globalizzazione, ai suoi effetti sull’ambiente, e alle politiche che ne regolamentano lo sviluppo è opportuno, oltre che necessario ed importante, prendere coscienza di tali problematiche, che non sono oziose, ma che, al contrario, se comprese, smascherano la gravi carenze dell’attuale modello di politica ambientale (fatto di proclami seguiti dal nulla, di sterili, quanto dannose, contrapposizioni ideologiche e di una normativa sostanzialmente immobile nel suo altalenante oscillare politico…)
Capire come (non) funziona il meccanismo rappresenta la base da cui partire, per tentare la costruzione di un modello che di sostenibile non abbia soltanto il nome.