La politica ambientale nel paese del Gattopardo (4): un esempio concreto in tema di inquinamento atmosferico

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Dopo aver delineato i tratti salienti della nozione di sviluppo sostenibile (sulla quale tornerò, in futuro, considerata l’estrema attualità dell’argomento) e sulle sue concrete applicazioni pratiche, vorrei cominciare a scendere nel dettaglio delle politiche ambientali nel nostro paese, per sottolinearne la complessità e l’immobilismo nel quale continuano a barcamenarsi…

Un primo esempio, in materia di inquinamento atmosferico.

L'art. 674 del c.p. ha sempre rappresentato un valido strumento per la lotta all’inquinamento atmosferico, anche in seguito all’emanazione del D.P.R. n. 203/88; all’indomani dell’entrata in vigore del c.p., l’art. 674 veniva applicato solo in caso di trasgressione delle prescrizioni imposte dalla legge o dalla P.A., ma con il passare degli anni i giudici ne hanno ampliato la portata applicativa, sottolineando la primaria importanza di tale contravvenzione, posta come baluardo della tutela della tranquillità dei cittadini e del loro interesse a non essere sottoposti a preoccupazione o allarme in relazione alla salute.
In sostanza, il reato di getto pericoloso di cose ha assunto un vero e proprio ruolo di supplenza nella tutela dell'ambiente rispetto all'inquinamento atmosferico.

Questa tesi sembra confermata dall’articolata sentenza del Tribunale di Rovigo-Sezione di Adria del 31 marzo 2006, che rappresenta un’occasione per mettere a confronto le diverse teorie giurisprudenziali succedutesi, in materia, nell’arco degli ultimi anni e per aprire prospettive sulle possibili evoluzioni della normativa in materia di inquinamento atmosferico, nonostante la recente emanazione del T.U.A. (per una ricostruzione della vicenda, nelle sue linee essenziali, clicca qui)

In breve, l’art. 674 c.p. prevede due distinte ipotesi ivi previste, che puniscono chiunque:
  1. getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero,
  2. nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti
Questa distinzione ha fornito lo spunto per prospettare differenti soluzioni del rapporto intercorrente fra la norma del codice penale, quella civilistica di cui all’art 844 cod. civ. e quelle previste dalle discipline speciali di settore, le quali prevedono norme sanzionatorie di tipo formale, che prescindono dai reali effetti dell’inquinamento atmosferico, e perseguono il (solo) mancato rispetto burocratico dei parametri, fissato per legge.

Un primo orientamento giurisprudenziale ha evidenziato che le normative antinquinamento non hanno, di fatto, legittimato qualsiasi emissione inferiore ai limiti tabellari, anche nell’ipotesi in cui non siano attuate le opere di prevenzione e contenimento adeguate al processo tecnologico.

Un altro filone giurisprudenziale, sviluppatosi a partire dal 2000, ha sostenuto, invece, che l’espressione «nei casi non consentiti dalla legge» costituisce una «precisa indicazione circa la necessità che tale emissione avvenga in violazione delle norme che regolano l’inquinamento atmosferico »: pertanto sussiste una sorta di presunzione di legittimità delle emissioni di fumi, vapori o gas che non superino la soglia fissata dalle leggi speciali in materia.

Di recente, sembra esserci stato un «recupero» dell’originaria impostazione giurisprudenziale, volto ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 674, cod. pen., al semplice superamento del limite della normale tollerabilità (quindi, anche nei casi in cui esista un’autorizzazione amministrativa): tuttavia non mancano pronunce di segno opposto .

Comunque sia, i motivi per i quali, nel corso degli ultimi anni, si è assistito ad una progressiva estensione del campo di applicazione dell’art. 674 del c.p., che ha assunto un vero e proprio ruolo di supplenza nella tutela dell’ambiente rispetto all’inquinamento atmosferico, sono da rinvenire, essenzialmente, nella cronica mancanza di una normativa capace di indirizzare in modo univoco gli operatori del settore, e nella deficitaria azione di controllo, puntuale e continua, volta a rendere effettivo e credibile il ruolo della P.A. a tutela dell’ambiente e della salute dell’uomo.

Nonostante lo “sforzo”, e al di là dei proclami, il c.d. “Testo unico Ambientale” non è riuscito a rendere concrete le aspettative di semplificazione, razionalizzazione e coordinamento del coacervo di norme – prive di un disegno unitario – succedutesi negli ultimi quarant’anni (anche) in materia di inquinamento atmosferico.

In particolare, nulla è cambiato nell’apparato sanzionatorio, che non solo non è stato coordinato né integrato, ma continua a non essere improntato al principio della dissuasività.

Le violazioni (di carattere formale) sono sanzionate con contravvenzioni oblazionabili (l’arresto, infatti, è sempre considerato alternativo all’ammenda…) identiche a quelle previste, quasi vent’anni fa, dal DPR 203/88…: la loro irrisorietà conferma l’inadeguatezza del sistema a garantire un’efficace tutela.

La scoordinata frammentarietà della disciplina, lasciata irrisolta dal T.U.A., fa sì che la gestione integrata delle differenziate fonti di inquinamento atmosferico continui ad essere…tramandata al futuro legislatore.

In questa situazione la tutela dell’aria (e della salute dell’uomo) è stata spesso “delegata” alla decretazione d’urgenza – inidonea, in quanto tale, a risolvere il problema alla radice – o “affidata”, appunto, al solo art. 674 c.p., che la giurisprudenza ha utilizzato come passepartout per cercare di “tappare le falle” dell’impianto normativo, tanto da arrivare ad affermare, come nella sentenza in esame, che la sola presenza attiva della centrale, che emette fumi visibili e di notevoli dimensioni, è sufficiente a creare allarme, e a giustificare l’applicazione dell’art. 674 del c.p.

Ma al di là di quest’ultima affermazione – che desta qualche perplessità di natura giuridica (in merito all’affermazione della penale responsabilità), e non sembra risolvere i problemi alla radice, se solo si considera l’esiguità delle pene comminate – tale sentenza ha il pregio di porre l’accento sugli aspetti problematici sopra evidenziati, e di sottolineare, con forza, l’incapacità del sistema di far fronte alla drammatica complessità dei problemi, derivanti dall’inquinamento atmosferico, inerenti la tutela della salute dell’uomo e dell’ambiente.

Un sistema che è reso ancora più complicato dalle “grandi distanze” fra gli interessi delle rilevanti entità economiche e politiche, da un lato, e quelli dei singoli cittadini dall’altro che, in un processo di così grandi dimensioni, rendono ancora più evidente l’incomunicabilità fra le posizioni contrapposte e “la sproporzione fra le capacità di attività degli uni e degli altri, che si muovono secondo logiche e in contesti diversi e – appunto – incomunicabili”.

Tale mancanza di dialogo è suggellata dall’amara constatazione “di come la perdurante accettazione sociale, politica ed economica di grandi siti inquinati in ragione della salvaguardia del posto di lavoro sia stata ingannevole e si sia svelata, nel tempo, come un compromesso sbagliato […] ed abbia distorto la realtà creando una situazione di grave connivenza tra controllore e controllato, quasi una perversa simbiosi, tale da allentare qualsiasi forma efficiente di monitoraggio ambientale”.

Il perdurante caos normativo e l’obsolescenza dei suoi strumenti, l’assoluta incomunicabilità fra posizioni contrapposte, unite alla mancanza di una seria politica energetica, hanno, quindi, creato un clima di assoluta incertezza, cui il Giudice tenta di porre rimedio “come può”, con gli strumenti a sua disposizione.
Nelle conclusioni – dopo aver sottolineato l’”inaccettabile stortura” del nostro sistema, che pretende di “far passare per un processo penale un periodo così vasto di inefficienze amministrative, omissioni legislative, ambiguità politiche e industriali, […] peso quasi insostenibile per un giudice solo” – è lo stesso Giudice che riconosce di aver cercato “l’impossibile sintesi di eventi troppo grandi e complessi”.

Ciò che, in conclusione, si vuole sottolineare è che, in mancanza di una responsabile politica preventiva, la tutela della salute dell’uomo e dell’ambiente contro i fenomeni di inquinamento atmosferico continua ad essere demandata a (e ad essere perseguita con) uno strumento che, utilizzato in modo così lato, rischia di svuotarsi di significato, e di rendere ancora più flebile la risposta ai gravi problemi relativi all’inquinamento atmosferico, il cui incremento esponenziale (e le conseguenti, gravi, ripercussioni sul clima del pianeta, connesse all’aumento dell’effetto serra, nei confronti del quale la politica mondiale si mostra riottosa ed incapace a trovare una soluzione adeguata e condivisa) impone l’adozione di una serie di misure incisive, capaci di dare una svolta alla stasi che, di fatto, al di là dei proclami, continua a dominare l’attuale scenario normativo.

L’unica azione credibile, dopo anni di velleitarie politiche settoriali, consiste in interventi coordinati e razionali, strutturali e strutturati, sia in campo giuridico che in campo economico: una politica dell’ambiente integrata e di ampio respiro, dinamica, che sia al tempo stesso incentivante e dissuasiva, adeguata e, soprattutto, effettivamente operativa, capace di dare, finalmente, una seria e concreta risposta all’esigenza di tutela, troppo a lungo disattesa.


La politica ambientale nel paese del Gattopardo (3)

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Nei precedenti post ho cominciato a porre le basi per intraprendere un “viaggio” attraverso le politiche ambientali adottate nel nostro paese, delineando, dapprima, i tratti salienti della nozione di sviluppo sostenibile e, quindi, le indicazioni contenute nel Piano Nazionale per lo sviluppo sostenibile, adottato dal CIPE nel 1993 in attuazione dell’Agenda XXI.

Ora, sempre facendo riferimento al prezioso articolo di A. Muratori (“datato” ma sempre attuale…) intendo soffermarmi sulle “azioni locali di sviluppo”.


È importante sottolineare, a scanso di equivoci, che – nonostante i numerosi elementi di contraddittorietà che si ravvisano nell’atto di tradurre in pratica l’estesa definizione di sviluppo sostenibile – "non per questo si deve pensare che dietro a tutto il tema dello s
viluppo sostenibile ci sia solo aria fritta".

Se, infatti, si “scende” verso il gradino (apparentemente) più basso dei livelli d'intervento – vale a dire quello delle azioni locali – si possono notare le concrete applicazioni pratiche di quello che, come s’
è visto, finché rimane a livello “istituzionale”, non è che un contenitore “vuoto”...

Vale la pena, sottolinea l’Autore, sviluppare qualche considerazione sul più organico tentativo di estrapolare strategie comuni di governo delle città secondo indirizzi orientati alla sostenibilità dello sviluppo urbano, rappresentato dalla Carta di Aalborg, un documento articolato in tre parti, relative:

1. alle "Dichiarazioni di principio", attraverso i quali – ribaditi il concetto ed i principi già noti dello sviluppo sostenibile – vengono evidenziati la
pluralità delle "vie alla sostenibilità" da percorrere a livello locale e i connotati di creatività e dinamicità che devono informare i processi decisionali locali ai fini di uno sviluppo urbano equilibrato e attento agli interessi delle generazioni future:
  • un'economia urbana orientata alla sostenibilità (investimenti per la conservazione del capitale naturale, razionalizzazione nell'uso delle risorse e l'efficienza dei "prodotti" della gestione urbana);
  • l'adozione di modelli sostenibili di uso del territorio e di mobilità urbana;
  • l'impegno ad un contributo locale ai problemi di livello planetario;
  • il riconoscimento del ruolo fondamentale del coinvolgimento della collettività civile nei processi di formazione delle scelte;
  • l'impegno ad adottare strumenti amministrativi.
2. alla promozione della "Campagna delle città europee sostenibili" e
3. all'"Impegno nel processo d'attuazione dell'Agenda XXI a livello locale".

In definitiva, “equità sociale, soluzione negoziata dei problemi, ampiezza dell'autogoverno locale, disponibilità allo scambio di informazioni ed esperienze, vengono riconosciute come altrettanti prerequisiti per l'efficacia dell'azione di livello locale indirizzata al decollo di un modello urbano sostenibile”.

Viene, dunque, prefigurato un procedimento "dal basso" di approccio ai temi della sostenibilità che, oltre a “consentire risultati tangibili nei singoli contesti, relativamente ai parametri governabili a livello locale - si pensi ai modelli innovativi di trasporto pubblico urbano, o di approccio alla pianificazione urbanistica - può concorrere alla progressiva diffusione di una "cultura" dello sviluppo sostenibile […] e, inoltre, rappresentare riferimento metodologico per le stesse - e più complesse - azioni di scala più estesa, al cui livello si riscontrano finora i più evidenti conflitti tra propositi e strategie effettivamente concretizzate”.


"Tornado Like": innovazioni nel campo dell'energia eolica

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Il Presidente del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, Massimo Marcaccio, ha presentato, nei giorni scorsi, il “Tornado Like”, un impianto energetico a vortice, alimentato dal vento, basato su principi altamente innovativi rispetto ai tradizionali aerogeneratori eolici.

"In base alla legge quadro sulle aree protette e alle finalità statutarie del Parco – ha sottolineato il Presidente nella conferenza stampa – abbiamo voluto lanciare in anteprima, nel nostro territorio, questo innovativo progetto. Con questo piccolo gesto vogliamo che il parco e il mondo ambientalista si comincino a muovere in positivo, proponendo modelli di sviluppo innovativi, anche nel campo della produzione energetica, come quello che stiamo presentando oggi".

Il Tornado Like, in sostanza, è un impianto di microgenerazione eolica, di circa 5 metri di altezza e circa 2,5 metri di diametro di base, che può essere addirittura interrato, riducendo ulteriormente l'impatto ambientale.

Il principio fondamentale di questa tecnologia innovativa, si legge sulle pagine di Ambientenergia, “sta nella sua composizione interna a vortice: questo permette di sfruttare la forza del vento anche minima, dal momento che i getti a vortice riescono a loro volta a formare una nuova classe di correnti in maniera continua consentendo dunque il funzionamento anche in assenza di vento. Questo comporta una serie di vantaggi non trascurabili, a partire dalla collocazione dell'impianto che non dovrebbe più essere posto su posizione di crinale, come invece avviene per gli aerogeneratori tradizionali”.

I vantaggi fondamentali del sistema Tornado Like, oltre ad una maggiore efficienza, possono identificarsi:
- nei minori costi d'impianto e d'installazione a parità di potenza,
- nelle dimensioni ridotte a parità di potenza,
- nella maggiore producibilità a parità di regime eolico e producibilità anche in regimi eolici che precludono l'impiego di apparati tradizionali,
- nel minore impatto paesaggistico in virtù sia delle minori dimensioni, sia dell'applicabilità in regimi eolici caratteristici di siti non di crinale (per un approfondimento, clicca qui)

“Tornado like” sarà installato entro la fine del 2008, con un monitoraggio del suo funzionamento, che coinvolgerà le università di Pisa e Camerino.

Giovanni Cimini, legale rappresentante della Western Co, azienda di San Benedetto che sperimenterà il generatore, sottolinea l’obiettivo di “produrre energia da consumare sul posto a costi contenuti, riducendo l’attuale di 3500 euro per 1 Kw prodotto di energia eolica.
L’invenzione proposta è finalizzata alla soluzione di questo problema tecnico, consentendo di raggiungere il risultato desiderato aumentando l’efficienza energetica dell’impianto a vento vorticoso e permettendo il suo funzionamento a partire da venti deboli e da sorgenti di flussi termici”.

Per approfondimenti:
AWEA
ANEV
British wind energy
EWEA
GWEC
Risoe
Rinnovabili





Report, puntata del 16 marzo 2008: un altro modello di sviluppo (III). E' ancora possibile...

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“Cosa vuol dire rivoltare il mondo? Passare da un sistema basato sull’energia fossile, ad uno basato sulle rinnovabili.
Invertendo le proporzioni.
Ma non si può fare dall’oggi al domani riempiendo tutti gli spazi di pale e pannelli. Bisogna modificare l’intero sistema.
Oggi la rete elettrica è organizzata prevalentemente per distribuire e non per ricevere da tutte le fonti rinnovabili, perché sole e vento sono discontinui. Significa che anche producendo più fotovoltaico o eolico o termodinamico, il sistema non è in grado di accogliere un aumento di questo tipo di energia e va in tilt. Bisognerebbe programmarle le rinnovabili, ma come fai a programmare la distribuzione di energia discontinua in un intero paese?”.

Questo è l’interrogativo con il quale inizia l’ultima parte della puntata di Report di domenica 16 marzo 2008, nella quale la Gabanelli e i suoi hanno dato spazio a quelli che ci stanno provando, partendo dal ripensamento dell’architettura della rete elettrica, che, adesso come adesso, disperde un’enorme quantità di energia.
Occorre, in sostanza, “accorciare la catena”, e fare in modo che questa architettura sia in grado di accogliere e controllare, contemporaneamente, sia i grandi impianti fossili che quelli piccoli rinnovabili.

Alla Cesi ricerca, ad esempio, si prova a immaginare un mondo pensato per isole autosufficienti: quartieri, città in cui le centrali sono piccole e si trovano vicino alle persone, in modo da non sprecare nulla.
Nel caso in cui un utente connesso alla rete non sfrutti direttamente l’energia prodotta dal suo impianto, l’energia e il calore vengono continuamente riutilizzati, attraverso l’utilizzo di cellule combustibile di tipo Pem, da 5 kilowatt, di generatori solari termodinamici (in grado di produrre energia elettrica attraverso la concentrazione della radiazione solare senza emettere nulla in atmosfera), accumulatori, sistemi “intelligenti” in grado di monitorare la rete, di regolare il traffico energetico e di assicurare che il livello di tensione rimanga costante (l’energiebutler, la chiave della rete intelligente, un apparecchio che renderebbe inutile la costruzione di nuove centrali regolando semplicemente la domanda).

Da noi, però, mancano i finanziamenti e si fa fatica a coinvolgere l’industria che sarebbe il punto focale di una ricerca concreta.
Accade, quindi, che, ad esempio, i tedeschi siano, nel campo del fotovoltico, molto più avanti del paese del sole…

E’ ancora possibile riportare indietro il mondo?
A quest’ultima domanda, l’economista Jorgen Randers (l’autore di “I limiti allo sviluppo”) risponde che “sì, è possibile, ma non facilmente. Sarebbe stato più facile se si fosse iniziato prima. Per prima cosa bisogna organizzare l’economia mondiale in modo sostenibile, cioè che possa operare ancora per molto tempo senza arrivare al collasso. La capacità di carico del pianeta è la capacità di sostenere gli esseri umani, le società. Se il mondo ci deve sostenere, deve essere messo in condizione di sostenere la capacità di carico per molto tempo. Le combustioni prodotte dall’uomo sul pianeta devono essere sufficientemente ridotte perché il mondo possa andare avanti. L’impronta ecologica deve essere più bassa della capacità di carico”.

Se aumentiamo gradualmente il carico di una nave, conclude "ironico" Michele Buono, "possiamo anche cercare di distribuirlo in modo ottimale ma a un certo punto la nave affonderà, anche se avremo la consolazione di un affondamento ottimale".


Report, puntata del 16 marzo 2008: un altro modello di sviluppo (II). Il necessario “disaccoppiamento" del concetto di merce e di quello di bene

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(continua…)
Pietro Lorusso, imprenditore di Bari, sottolinea – nell’intervista a Michele Buono – che la cultura dell’incremento del PIL significa aumento smisurato di produzione di merci, che sono inutili al benessere dell’uomo, consumano un’enorme quantità i risorse e devono essere prodotte in grandissima quantità…

La Gabanelli, dal canto suo, evidenzia le contraddittorietà del modello basato sul PIL: “sentire degli imprenditori dire che si producono troppe merci inutili sembra una roba da matti, ma non lo è: cercano un modello che permetta di non impoverirsi e vivere meglio utilizzando meno risorse.
Che nel nostro schema di sviluppo c’è qualcosa che non va lo dimostra il fatto che abbiamo paura che Cina e India arrivino a consumare quanto noi, perché si arriverebbe al collasso del sistema. Allora bisognerebbe ripensare tutto”.

Lo diceva, già nel 1972, Aurelio Peccei, dirigente FIAT e fondatore del Club di Roma quando, insieme ad un gruppo di imprenditori, economisti e scienziati, finanziò una ricerca al MIT di Boston volta a (cercare di) sapere dove ci avrebbe portato il nostro tipo di “crescita” economica: “il risultato della proiezione – proiezione, sottolinea in studio la Gabanelli, e non previsione – fu che il sistema sarebbe collassato, anche facendo finta di avere a disposizione risorse illimitate. E la risorsa numero uno per produrre qualunque cosa è l’energia”. Stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità, consumando e sprecando troppo, e ad un ritmo vertiginoso. Di qui l’estrema attualità e l’importanza dell’argomento, che comincia a spingere molti imprenditori (e non solo: basti pensare alle sempre più diffuse “metodologie” di consumo individuale) verso la ricerca di modelli alternativi, capaci di invertire la rotta.

Come nel caso del trasporto a Parma, dove è stato adottato un piano della mobilità
con un progetto e dei soldi per far camminare persone e merci risparmiando carburante e non inquinando (un sistema efficiente ed integrato di trasporto pubblico che disincentiva il massiccio ricorso alle autovetture private; piste ciclabili sicure; biciclette comunali che si possono prendere a piacimento con una semplice carta magnetica; il bus a chiamata; il car sharing; l’introduzione di figure specializzate di mobility manager).

O in quello previsto per il trasporto delle merci sulla tratta La Spezia-Padova, dove l’utilizzo della ferrovia e la raziona
lizzazione dei viaggi abbattono drasticamente il livello di inquinamento dovuto all’inutile trasporto su gomma. In definitiva, adottare un piano generale trasporti, in cui i movimenti di merci e le persone interagiscono, e tengono conto dell’ambiente: una visione globale, che porta ad investire sulla TAV ma anche sui trasporti regionali, tanto per fare un esempio.
La notizia è che tale piano es
iste già: purtroppo, però, come troppo sovente accade, al di là della facciata e delle parole da perenne propaganda elettorale, si nascondono gli interessi, neanche tanto occulti, di bottega, che ne modificano continuamente il contenuto, o ne ostacolano la realizzazione.
A questo, per completezza, occorre aggiungere che esiste ancora una radicata abitudine a utilizzare l’aut personale, anche per brevi spostamenti, e molto spesso per una sola persona.

O, ancora, come nel caso della monorotaia di Wuppertal, classico esempio di come si può utilizzare al meglio ciò che già esiste, invece di continuare a ricostruire, e sprecare materie ed energia.

O in quello del riutilizzo di pc e di materiale informatico per il riuso presso scuole o altre strutture che hanno bisogno di questo tipo di materiali; dell’utilizzo “perpetuo” che dei contenitori fanno coloro che comprano alla spina; del recupero di energia grigia da parte di una sessantina di imprenditori pugliesi, associatisi per fare in modo che gli scarti, i rifiuti, le esternalità di una impresa diventino materia prima per un’altra.Icastica, a questo riguardo, l’affermazione di Roberto Lorusso, imprenditore di Bari: “io posso decidere di concordare con un mio cliente l’erogazione di un prodotto/servizio in determinate ore del giorno dicendo che arriverò da lui non prima delle 10 e 30 ed andrò via alle 18 perché il mio personale viaggia solo con treno. Se io nella relazione spiego lui che il mancato utilizzo dell’automobile, il fatto di utilizzare un mezzo pubblico questo produce, in realtà è una dimensione delle risorse, che fa bene a me e fa bene anche a lui e se lui comincia a percepire questa cosa, nella catena di valore della relazione tra cliente e fornitore, può darsi che cambi qualche cosa nel modo in cui il mio cliente modifichi la relazione o con altri fornitori o con i suoi clienti”.

Vito Mannari, un
 altro imprenditore di Bari, afferma, dal canto suo, che “sono a disposizione studi attrezzati, sale riunione, in questo momento ci sono 3 offerte, uffici, depositi di magazzini spazi verdi. L’inutilizzo di uno spazio è spreco, l’inutilizzo di alcuni spazi in auto è spreco, l’inutilizzo dei miei scarti di produzione è spreco, l’inutilizzo della mia banda internet è spreco. Allora il fatto che la mia banda internet sia a disposizione di studenti, di persone deboli gratuitamente, il tutto sono scambi, sono doni, non mercificati, produce ricchezza, ricchezza culturale ricchezza sociale, automaticamente riduce l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente”.

Il risultato finale, sottolinea Michele Buono, è che sono avvenuti degli scambi gratuiti, non c’è stato passaggio di danaro, ma tutti hanno potuto godere di beni, compreso la comunità nella quale si svolgono questi scambi.

E’ un esempio di crescita senza spreco di risorse.
Eppure tutto questo sfugge al calcolo del PIL…


"Maggiore è la crescita delle merci che si scambiano col denaro, maggiore è il benessere. In realtà il concetto di merce non corrisponde al concetto di bene, per cui noi possiamo avere delle merci che fanno crescere il prodotto interno lordo che quindi richiedono denaro e così via, che non sono effettivamente dei beni. Tutta l’energia in più che si consuma in una casa mal costruita, tutta la benzina in più che si consuma in una coda, sono delle merci che fanno crescere il PIL e, quindi, il giro di denaro, ma che fanno diminuire il benessere. Noi dobbiamo disaccoppiare il concetto di merce dal concetto di bene. E a questo punto abbiamo bisogno di indicatori diversi per misurare il benessere di una nazione e dei suoi abitanti”
(Maurizio Pallante, economista dell’ambiente).


Report, puntata del 16 marzo 2008: un altro modello di sviluppo (I). Il discorso di Robert Kennedy e i "ribelli dell'energia"

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La puntata di Report di domenica 16 marzo 2008, intitolata “L’altro modello” è stata così importante e densa di contenuti che merita un’analisi approfondita.

Posto che le risorse del pianeta non sono infinite, l’indagine della Gabanelli e del suo prezioso staff si è incentrata su una serie di questioni non più rinviabili:

- quali sono le conseguenze di una crescita incontrollata su un pianeta dalle risorse non infinite?
- qual è il senso di un modello di sviluppo
basato sulla crescita illimitata, in cui anche traffico, rifiuti e malattie fanno crescere il P.I.L.?
- è possibile "riorientare" l’economia e pensare a un nuovo modello di
sviluppo che impieghi meno risorse e produca più benessere?
- è possibile far camminare diversamente le merci e le persone, consumando meno energia?


È possibile, in definitiva, un mondo alla rovescia, in cui il consumatore,
consapevole ed organizzato, può porsi al centro dello scenario energetico (e non solo…) e prendere in mano le redini del proprio futuro?

La puntata ha preso le mosse dal discorso che Robert Kennedy pronunciò all’Università del Kansas il 18 marzo 1968:
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo
(PIL).
Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.
Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini.

Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.


Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago.
Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese".


Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo esse
re orgogliosi di essere americani”.

L’Altro modello è quello messo in pratica dai “ribelli dell’energia” a Schonau, nel sud
della Germania; quello che cerca un modo per utilizzare meglio meno risorse; quello che mette in discussione il sistema dei trasporti.
Quello che, sostanzialmente, combatte contro l’inutile spreco di risorse di un modello che, se continua ad basarsi sul PIL (produrre, buttare e produrre all’infinito…), ci porterà dritto dritto al collasso del sistema


A Schonau, nel sud ovest della Germania, dopo la catastrofe di Chernobyl gli abitanti dissero NO al nucleare, e si misero in testa di dimostrare che era possibile crescere consumando meno risorse.
Con “piccoli” gesti alternativi, condivisi, consapevoli, convergenti: installare un microgeneratore, ad esempio, cioè un motore che genera corrente e recupera tutto il calore prodotto (attraverso l’utilizzo diretto e l’immissione in rete di quello in eccesso).
O incentivare le fonti rinnovabili: vento sole e acqua, attraverso una politica di decentralizzazione dei picc
oli impianti, in grado di non sprecare energia (si è calcolato che i due terzi dell’energia prodotta dalle grandi centrali elettriche semplicemente si disperde nell’ambiente…).

I risultati, oggi sono sotto gli occhi di tutti: è possibile costruire una democrazia energetica: attraverso la decentralizzazione è possibile sfuggire alla “logica” imposta dalle grandi centrali.
Con un enerme risparmio sia in termini economici, sia in termini ambientali.


La differenza sostanziale, spiega M. Sladek, A.D. della EWS Schonau, è questa: il nucleare è una produzione di corrente elettrica basata sull’offerta, e le persone vengono sempre più stimolate a consumare elettricità.
L’utilizzo di fonti rinnovabili e di regolatori di energia (tecnologia basata sulla necessità del consumo e non sullo stimolo della domanda), invece, è in grado di far risparmiare energia e di rendere inutile la costruzione di nuove centrali elettriche, che inquinano.


La politica ambientale nel paese del Gattopardo (2)

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Nel post del 12 marzo 2008 ho cominciato a porre le basi per intraprendere un “viaggio” attraverso le politiche ambientali adottate nel nostro paese, delineando i tratti salienti della nozione di sviluppo sostenibile: concetto che, al di là dei proclami generali, finora non sembra aver avuto ripercussioni pratiche rilevanti…

Il Piano Nazionale per lo sviluppo sostenibile, adottato dal CIPE nel 1993 in attuazione dell’Agenda XXI, evidenziava, nelle sue premesse, che “perseguire lo sviluppo sostenibile significa ricercare un miglioramento della qualità della vita pur rimanendo nei limiti della ricettività ambientale.
Sviluppo sostenibile non vuol dire bloccare la crescita economica, anche perché persino in alcune aree del nostro Paese, l'ambiente stesso è vittima della povertà e della spirale di degrado da essa provocata.
Un Piano di azione per lo sviluppo sostenibile non deve solo promuovere la conservazione delle risorse, ma anche sollecitare attività produttive compatibili con gli usi futuri: ne deriva che l'applicazione del concetto di sviluppo sostenibile è, da un lato dinamica, ovvero legata alle conoscenze e all'effettivo stato dell'ambiente e degli ecosistemi; da un altro, consiglia un approccio cautelativo riguardo alle situazioni e alle azioni che possono compromettere gli equilibri ambientali, attivando un processo continuo di correzione degli errori ...".

Sono numerosi i precetti che si possono ricavare da queste premesse, sui quali si può informare il modello di sviluppo a principi di sostenibilità, tutt’altro discorso vale, invece, per le possibili “sfumature” della nozione di sviluppo sostenibile, o per le modalità attraverso le quali cui i concetti ad essa sottesi possono tradursi in piani, strategie d'intervento e…fatti concreti.

Sfumature che derivano dal gran numero di declaratorie, o di specificazioni del concetto che si possono evincere dalla lettura dei documenti che affrontano il tema: per rimanere al livello europeo, è stata sottolineata (A. Muratori, Sviluppo Sostenibile: tra il dire e il fare, sulla rivista Ambiente, n. 10/96, già citato nel precedente post) la scarsa chiarezza delle “idee”: “i principi di globalizzazione e di competitività delle economie sottesi dai parametri di Maastricht sembrano infatti presentare ontologici elementi di contraddittorietà, se non proprio di antiteticità, con quel concetto di sostenibilità, attorno al quale la stessa Comunità europea ha tuttavia costruito il proprio "Programma politico e di azione a favore dell'ambiente e di uno sviluppo sostenibile", che identifica nell'industria manifatturiera, nel settore energetico, nell'agricoltura, nel turismo e nei trasporti, le aree chiave destinatarie degli interventi comunitari volti al ri-ordinamento del modello di sviluppo”.

In Italia, oltre all’abituale ritardo nel dotarsi degli "strumentari" in grado di integrare le politiche ambientali con le regole di mercato, (spesso…) scontiamo i disastrosi effetti dell’approccio secondo il quale le grandi concessionarie di opere pubbliche hanno affrontato il tema della compatibilità ambientale dei propri progetti, “affidata a ponderosi studi effettuati in chiave giustificatoria di una soluzione preconfezionata”, in assenza (o quasi) di una seria comparazione fra le possibili alternative, tale da “consentire una trasparente scelta dell'opzione a minore impatto”.

Sono passati più di dieci anni da quando sono stati scritte queste considerazioni ma, stando alle riflessioni effettuate sul P.I.L. (e sul perverso modello di sviluppo imperante ad esso sotteso), questa sera, nella puntata di Report (alla quale dedicherò numerosi post, nei prossimi giorni, vista l’estrema importanza degli argomenti affrontati), non sembra che siano stati fatti grandi passi in avanti.
Anzi…


Nozione di rifiuto: le conclusioni dell’Avv. Generale della Corte di Giustizia della Comunità europea sulla vicenda Erika-Total (II)

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(segue da)


Nel post pubblicato all'interno di questo blog il 13 marzo 2008, dopo un’introduzione generale, si è visto che, nelle sue conclusioni nella causa C-188/07, l’Avv. generale Kokott ha proposto, in relazione alla prima delle questioni sottoposte alla Corte di Giustizia, nel seguente modo: “l’olio pesante, prodotto derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche dell’utilizzatore, destinato dal produttore a essere venduto come combustibile […] non può essere considerato, di per sé, un rifiuto".


Ora affrontiamo le restanti due questioni:


Con la seconda, la Cour de Cassation chiedeva se un carico di olio pesante, trasportato da una nave e accidentalmente sversato in mare, costituisce, di per sé o miscelato ad acqua e sedimenti, un rifiuto.
La Total ha sostenuto che il miscuglio di olio pesante, acqua e sedimenti che ha inquinato il litorale dovesse essere considerato quale rifiuto soltanto in presenza di un obbligo a disfarsi dell’olio pesante, che può sorgere solo se esso sia divenuto un rifiuto già prima di essersi mescolato…
Dal canto suo, invece, l’Avv. Generale, attraverso un richiamo ad una precedente sentenza (Van de Walle, in cui la Corte ha sottolineato che un prodotto non voluto in quanto tale ai fini di un utilizzo ulteriore e che il detentore non possa riutilizzare a condizioni economicamente vantaggiose senza prima sottoporlo a trasformazione deve considerarsi come un onere del quale il detentore si disfa), ha concluso che l’olio pesante accidentalmente sversato e mescolato con acqua e sedimenti deve essere considerato un rifiuto.


Con la terza, infine, la Cour de Cassation chiedeva se la Total, in qualità di produttore dell’olio pesante e/o venditore ovvero spedizioniere del medesimo potesse essere considerata come il produttore e/o il detentore del rifiuto, anche qualora il prodotto, al momento dell’incidente che l’ha trasformato in rifiuto, fosse trasportato da terzi.
Ebbene, dopo un lungo excursus della normativa vigente, l’Avv. Generale ha concluso nel senso che il produttore dell’olio pesante e/o il venditore o spedizioniere possono essere chiamati a rispondere dei costi dello smaltimento di residui di olio prodotti a seguito dell’incidente di una nave, qualora ad essi sia imputabile di aver personalmente contribuito a causare lo sversamento dell’olio pesante.
È, tuttavia, altresì compatibile con tale disposizione la limitazione della responsabilità del produttore dell’olio pesante e/o del venditore o noleggiatore in conformità alla Convenzione internazionale del 1969 sulla responsabilità civile per i danni dovuti a inquinamento da idrocarburi, e alla Convenzione internazionale del 1971 sull’istituzione di un fondo internazionale per il risarcimento dei danni causati dall’inquinamento da idrocarburi.

Le conclusioni dell’Avv. Generale che, con molta probabilità, saranno fatte proprie dalla Corte di Giustizia, seguono di due mesi l’ormai famosa sentenza del Tribunal de grande instance di Parigi dello scorso 16 gennaio 2008, con la quale sono stati condannati diversi soggetti, tra i quali alcune società del gruppo Total, al pagamento di una pena pecuniaria per l’avaria della Erika (circa 192 milioni di euro).

Conclusioni dell'Avvocato generale Juliane Kokott nella Casua C-188/07
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Nozione di rifiuto: le conclusioni dell’Avv. Generale della Corte di Giustizia della Comunità europea sulla vicenda Erika-Total (I)

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Oggi l’Avv. Generale della Corte di Giustizia della Comunità europea, Juliane Kokott, ha presentato le conclusioni sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Cour de Cassation francese.


La causa prende le mosse dal contratto di fornitura di olio pesante stipulato dall’ENEL con la Total international Ltd.: l’olio era destinato alla produzione di energia elettrica mediante combustione in una centrale.
Ai fini dell’esecuzione del contratto, la società Total Raffinage Distribution ha venduto un certo quantitativo di olio pesante alla società Total International Ltd, la quale ha noleggiato la nave Erika al fine di trasportarlo al porto di Milazzo, in Sicilia.
Durante il viaggio, com’è noto, la nave è naufragata (11 settembre 1999), causando lo sversamento parziale del carico e l’inquinamento delle coste francesi del litorale atlantico, tra le quali quelle del comune di Mesquer, che ha convenuto in giudizio le società Total France e Total international Ltd. per ottenere la condanna al risarcimento di tali spese.


Nell’ambito del procedimento la Cour de Cassation ha sottoposto alla Corte di Giustizia le seguenti questioni:

1. l’olio pesante, prodotto derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche dell’utilizzatore, destinato dal produttore a essere venduto come combustibile può essere considerato un rifiuto?

2. un carico di olio pesante, trasportato da una nave e accidentalmente sversato in mare, costituisce, di per sé o miscelato ad acqua e sedimenti, un rifiuto?


3. in caso di soluzione negativa della prima questione e di soluzione affermativa della seconda: il produttore dell’olio pesante e/o il venditore e spedizioniere possono essere considerati come il produttore e/o il detentore del rifiuto, anche se il prodotto, al momento dell’incidente che l’ha trasformato in rifiuto, era trasportato da terzi?


La prima questione, in sostanza, era volta ad accertare se il detentore:

  • si fosse disfatto dell’olio pesante, o
  • avesse deciso o
  • avesse l’obbligo di disfarsene,
quando l’olio si trovava ancora nella nave.


I passi principali delle conclusioni dell’Avv. Generale possono riassumersi così:

1. il trasporto di una sostanza all’interno di una nave non costituisce, in quanto tale, parte di un’operazione volta a disfarsi di tale sostanza, né ne rappresenta un indizio: occorre, pertanto, escludere che il detentore si sia disfatto dell’olio.


2. in merito all’intenzione del detentore di disfarsi dell’olio pesante, la direttiva quadro sui rifiuti non offre alcun criterio per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una sostanza o di un determinato oggetto: la Corte, più volte interrogata sulla qualificazione di rifiuto da attribuire o meno a diverse sostanze, ha fornito alcune indicazioni che consentono di individuare la volontà del detentore, che va accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l’efficacia.


3. in relazione, invece, alla tesi, sostenuta dal comune di Mesquier, secondo la quale l’olio pesante costituirebbe un residuo di produzione (un prodotto, cioè, che non è stato voluto in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore, e che, se non può essere riutilizzato a condizioni economicamente vantaggiose senza prima essere sottoposto a trasformazione, costituisce un onere del quale il detentore ha deciso di disfarsi e, quindi, in via di principio, un rifiuto), l’Avv. Generale esposto le proprie perplessità, evidenziando come sia più corretta la sua qualificazione come prodotto.
Si tratta di una distinzione che ai non addetti può sembrare di lana caprina, ma che, al contrario, invece segna giuridico fra ciò che è rifiuto e ciò che, invece, non lo è.
La tesi dell’Avv. Kokott si fonda sui dati forniti dal Regno Unito (nei quali si evidenzia che, nell’ambito del processo di raffinazione dell’olio greggio l’olio pesante si produce inevitabilmente), nonché sul documento di riferimento sulle migliori tecniche disponibili nelle raffinerie di oli minerali e di gas (che non qualifica l’olio pesante come tipico rifiuto da raffineria, e non menziona la riduzione della produzione di olio pesante tra gli obiettivi delle migliori tecniche disponibili).


4. in considerazione della natura di un combustibile, non è possibile considerare la prevista combustione come un’operazione volta a disfarsi del combustibile, dalla quale discenderebbe l’intendimento di disfarsene: si tratta piuttosto dello stesso tipo di uso di quello di altre sostanze che vengono pacificamente considerate prodotti.


5. Pertanto, un combustibile come l’olio pesante non costituisce, in via di principio, un residuo di produzione della raffinazione, bensì un prodotto voluto.


(segue)


La politica ambientale nel paese del Gattopardo (1)

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Con questo post intendo aprire una lunga e analitica riflessione sulle politiche ambientali intraprese nel nostro BelPaese, al fine di evidenziarne il pericoloso immobilismo, a fronte dell’esigenza crescente di risposte concrete agli innumerevoli problemi creati dalla miope gestione dell’ambiente e dell’economia quando i principi teorici, generali ed astratti – declamati con forza all’unanimità – devono essere tradotti in azioni concrete…

Intendo iniziare questo “viaggio” dal concetto di
sviluppo sostenibile, per cercare di evidenziare le criticità nascoste nelle maglie stesse della definizione, e di intuire (o constatare…) i negativi effetti pratici della politica che ad esso dice di ispirarsi.
Ma che, in realtà, continuando a giocare con le parole, non ha ancora dato le risposte concrete che ci attendiamo…
Sviluppo sostenibile è la traduzione letterale italiana di susteinable development: la definizione "ufficiale" – Development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs - Sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro propri bisogni – proviene dal famoso rapporto Brundtland (World Commission on environment and Development's - the Brundtland Commission - report Our Common future, Oxford University Press, 1987).

Come è stato osservato (A. Muratori, Sviluppo Sostenibile: tra il dire e il fare, sulla rivista Ambiente, n. 10/96) “quando risulta assolutamente indispensabile far mostra di avere raggiunto un'intesa tra parti arroccate su punti di vista molto distanti, o portatrici di interessi contrapposti, avviene non di rado che si trovi il "comune denominatore" in assunti di principio sui quali sia impossibile "non essere d'accordo", e in proposizioni sostanzialmente anodine, in grado di significare tutto e il contrario di tutto”.

Si tratta di un’analisi senz’altro impietosa ma che descrive, in modo puntuale, un certo modo di legiferare, che dietro lo schermo di affermazioni di principio tanto late quanto incontestabili, nasconde una nebulosa propensione a mantenere lo
status quo.

Grazie alla sua lata formulazione, prosegue l’autore, con il modello dello sviluppo sostenibile (che propone, contemporaneamente, orizzonti mondiali e locali),
“i paesi avanzati possono così trovare una giustificazione "etica" del proprio benessere; quelli poveri sono sottratti - o possono illudersi di essere sottratti - all'ulteriore impoverimento - centrale essendo infatti il tema della tutela e della ridistribuzione delle risorse nell'ottica dello sviluppo sostenibile - e allo sfruttamento; l'ambientalismo trova un vessillo "credibile", e al tempo stesso si libera della scomoda qualifica di laudator temporis acti, e dell'accusa di non saper cogliere, per "estraneità genetica", le esigenze della società contemporanea; e chi orienta i consumi, e produce i beni, può essere soddisfatto da un compromesso che gli propone, sì, inevitabilmente, limiti e impegni cui far fronte, ma, viste poi le scadenze, tutto sommato, con moderazione”.

Per comprendere meglio le dinamiche sottese alla
globalizzazione, ai suoi effetti sull’ambiente, e alle politiche che ne regolamentano lo sviluppo è opportuno, oltre che necessario ed importante, prendere coscienza di tali problematiche, che non sono oziose, ma che, al contrario, se comprese, smascherano la gravi carenze dell’attuale modello di politica ambientale (fatto di proclami seguiti dal nulla, di sterili, quanto dannose, contrapposizioni ideologiche e di una normativa sostanzialmente immobile nel suo altalenante oscillare politico…)

Capire come (non) funziona il meccanismo rappresenta la base da cui partire, per tentare la costruzione di un modello che di sostenibile non abbia soltanto il nome.


Report, puntata del 09 marzo 2008: le emergenze ambientali come ammortizzatori sociali

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“Lei ritiene che in Italia tutto quello che si può fare si fa?”

Questa è una fra le sterili “risposte” date dal sub-commissario alle
bonifiche della regione Campania ad una precisa domanda formulata da Bernardo Iovine, giornalista di Report, nella puntata intitolata “Terra bruciata”, andata in onda domenica 09 marzo 2008…
Ancora una volta, messo alle strette da domande “imbarazzanti”, il (l’ir)responsabile di turno non risponde, nascondendosi dietro il sempreverde “così (non) fan tutti”.

“Non so…”
Questa, invece, è la “chiara” presa di posizione di molti cittadini ai quali è stato chiesto, dallo stesso Iovine, se fossero a conoscenza delle nefandezze che si perpetrano dietro casa loro, della gravità dello status quo, dell’assurdità rappresentata dal fatto di coltivare frutta e verdura a pochi metri di distanza da
discariche abusive incontrollate, dalle quali si riversano nell’ambiente circostante (falde acquifere, aria, sottosuoli……) ogni tipo di sostanze tossiche.
Ancora una volta, il silenzio, l’omertà, la paura (e, a volte, gli illusori tornaconti?) di una parte della popolazione la dice lunga sulle difficoltà che si incontrano anche solo a parlare di una problematica così complessa, e dai risvolti drammatici, come quella legata alla
tutela ambientale.
Figuriamoci ad affrontarla, o a cercare di risolverla…


Questi sono i due leit motiv intorno ai quali si è sviluppata la puntata di Report del 09 marzo 2008, incentrata – come sottolineato da Milena
Gabanelli – sulla “reale efficacia di bonifiche eventualmente effettuate” in un territorio in cui, dati alla mano, le zone da bonificare sono 2551 (il doppio rispetto alla Lombardia che ne ha 1300), la maggior parte delle quali concentrate tra Napoli e Caserta.

Sullo sfondo, il perverso meccanismo che ha portato a utilizzare come ammortizzatori sociali le
emergenze ambientali, come ha evidenziato, con parole che pesano come un macigno, Paolo Russo, ex presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti.

In sostanza, dall’inchiesta condotta è emerso che
“per otto anni c’è stato un commissario straordinario alle bonifiche che non si è occupato di bonifiche”.
Esiste una struttura, arrivano i soldi (e non si tratta di spiccioli): ma dei 300 milioni di euro specifici per bonifiche, 150 vengono dirottati sulla
“perenne emergenza rifiuti”.
Nel 2001, si apprende dall’inchiesta, una società pubblica, la Sogin, viene incaricata di mettere in sicurezza alcune zone, di analizzare i terreni, le acque. Di bonificare.
Ma, a fronte di un buco di 10 milioni di euro, che il commissariato non paga, la Sogin
“prende e se ne va”.
La successiva convenzione stipulata dal Ministero del Lavoro con una società privata, la Jacorossi, prevedeva che, per l’occasione, venissero assunti 380 lavoratori socialmente utili…

Insomma, sembra che la finalità, più che di bonificare, fosse quella di dare un lavoro a 380 persone.
Già, ma quale?
L’ex presidente della
Commissione d’inchiesta sui rifiuti, infatti, sottolinea che “queste società – fra le quali la J. – non hanno una filiera tecnologicamente avanzata che consente quello che normalmente si fa nell’attività di bonifica. Nell’attività di bonifica c’è un pool della società che va a verificare di cosa si tratta, un altro settore che analizza specificamente le fonti inquinanti, un altro settore che dopo averle caratterizzate, individua strategicamente le modalità di esercizio della bonifica. E poi c’è la raccolta, lo smaltimento: un percorso articolato di sistemi industriali moderni, mentre quello proposto assomiglia più a una sorta di forme tardive di cooperative sociali. La pressione occupazionale in Campania è forte ci sono manifestazioni quotidiane da 30 anni, e così hanno pensato di dirottare i soldi delle bonifiche in assunzioni a fondo perduto”.
Per farla breve, la Jacorossi, prima non ha mai fatto lavorare (motivo per il quale la società ha chiesto, dopo cinque anni, il risarcimento dei danni, per un ammontare di 21 milioni 800.000 euro…) e poi ha messo in cassa integrazione i lavoratori socialmente utili che adesso – dopo che la società ha strappato un’altra convenzione per la rimozione di rifiuti speciali – forse potranno (tornare a) “lavorare”.

L’intreccio delle
responsabilità, più o meno gravi, che emerge dall’inchiesta, è sconcertante, e le prospettive, allo stato, desolanti: Giacomo Campanile, medico di Casaluce, nell’Agro Aversano, constata, con amarezza, che “non abbiamo le industrie che potrebbero togliere un poco di disoccupazione, però abbiamo gli scarti delle industrie […] Bisognerebbe fare qualcosa per questa terra, oppure dobbiamo tenerci il detto di Totò che diceva “fuìte”.

Più che fuggire, conclude la Gabanelli, “è ora di cambiare i comportamenti”, di tutti.

Perché oltre alle grandi responsabilità delle istituzioni – incapaci di far fronte alla drammatica complessità dei problemi connessi alla gestione dell’ambiente – è lo stillicidio delle piccole illegalità tollerate che alimenta l’incultura ambientale, terreno fertile per chi è intenzionato a speculare sulla salute dell’uomo.

E perché continuare a confondere le diverse esigenze (lavorative e ambientali), tamponando le une (che dovrebbero essere affrontate e risolte in altre sedi, e con altri mezzi) con le risorse destinate a risolvere le altre, non fa altro che diminuire il livello di consapevolezza.

Si può fare, e gli esempi virtuosi, per fortuna, anche se isolati, non mancano.