Commento alle modifiche sulla tassazione dei rifiuti

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Sul sito ilquotidiano.ipsoa.it è stato pubblicato un commento al Decreto enti territoriali decreto-legge n. 78 del 19 giugno 2015 con il quale il Governo ha introdotto delle modifiche sulla tassazione dei rifiuti adottando alcune disposizioni urgenti in materia di enti locali. Fra i principali scopi del decreto quello di:

 1. definire gli obiettivi del patto di stabilità interno degli enti locali per l’anno 2015, in modo da consentire agli stessi di programmare la propria attività finanziaria e predisporre in tempi rapidi il bilancio di esercizio 2015;
2. attribuire spazi finanziari, anticipazioni di cassa e minori vincoli ai Comuni anche al fine di consentire spese per specifiche finalità; incrementare ulteriormente la liquidità per il pagamento dei debiti certi, liquidi ed esigibili. 

I Comuni potranno, in deroga alla loro potestà regolamentare, affidare ai soggetti ai quali risulta attribuito nell’anno 2013 il servizio di gestione dei rifiuti, non più soltanto l’accertamento e la riscossione della TARI e della tariffa di natura corrispettiva (che i Comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico possono prevedere, in luogo della TARI), ma anche della TARES. Tale affidamento potrà essere effettuato fino alla scadenza del relativo contratto. Si tratta di una disposizione – evidenzia l’ANCI – che “rappresenta l’accoglimento di una richiesta che l’ANCI ha proposto in tutti i provvedimenti legislativi a partire dall’entrata in vigore del nuovo prelievo sui rifiuti TARI”: secondo l’associazione dei Comuni, in seguito all’abrogazione della norma che dava la possibilità ai Comuni di affidare “fino al 31 dicembre 2013” la gestione del tributo ai soggetti che alla data del 31 dicembre, svolgevano, anche disgiuntamente, il servizio di gestione dei rifiuti e di accertamento e riscossione della TARSU, della TIA 1 e della TIA 2, si era venuto a creare un vuoto normativo in relazione all’attività di accertamento TARES 2013, che i Comuni dovrebbero effettuare direttamente o affidare ad un soggetto terzo, iscritto all’albo dei concessionari, “con evidente ed inutile dispendio di risorse. Il gestore dei rifiuti può infatti effettuare attività di accertamento per la TIA 1 e TIA 2 ed anche per la TARI, ma non per la TARES, con evidenti problemi applicativi e rischi di inefficienza, perché le informazioni necessarie all’attività di accertamento (riscossioni e dichiarazioni) sono in possesso del gestore, il quale le dovrebbe trasferire ad altro soggetto per l’emissione di atti di accertamento per un solo anno. Quest’ultimo soggetto poi dovrebbe ritrasferire le informazioni relative agli accertamenti emessi al gestore TARI”, dal momento che la legge mantiene ferma ai fini TARI l’efficacia degli accertamenti emessi per la TARES. 

Per favorire il riordino della disciplina delle attività di gestione e riscossione delle entrate dei Comuni, anche mediante istituzione di un Consorzio, che si avvale delle società del Gruppo Equitalia per le attività di supporto all’esercizio delle funzioni relative alla riscossione, il Governo ha prorogato al 31 dicembre 2015 i termini in precedenza dichiarati inderogabili dal decreto legge che, nel maggio del 2011, ha dettato le prime disposizioni urgenti per l’economia per il successivo semestre europeo. In sostanza, il Governo ha prorogato: • il termine entro cui le società agenti della riscossione cessano di effettuare le attività di accertamento, liquidazione e riscossione, spontanea e coattiva, delle entrate, tributarie o patrimoniali, dei comuni e delle società da essi partecipate; • il termine a decorrere dal quale le suddette società possono svolgere l’attività di riscossione, spontanea o coattiva, delle entrate degli enti pubblici territoriali, nonché le altre attività strumentali, soltanto a seguito di affidamento mediante procedure ad evidenza pubblica. In tal modo si prolunga dal 30 giugno 2015 al 31 dicembre 2015 l’operatività delle disposizioni in materia di gestione delle entrate locali, superando la scadenza del 30 giugno 2014, a decorrere dalla quale la società Equitalia e le società dalla stessa partecipate avrebbero dovuto cessare di effettuare le attività di accertamento, liquidazione e riscossione, spontanea e coattiva, delle entrate dei Comuni e delle società da questi ultimi partecipate. 

Infine, il decreto contiene per quanto concerne la TARI una specificazione in relazione alle componenti di costo:  nella legge di stabilità per il 2014 si stabiliva che in materia di TARI “in ogni caso deve essere assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio, ricomprendendo anche i costi dello smaltimento dei rifiuti nelle discariche, ad esclusione dei costi relativi ai rifiuti speciali al cui smaltimento provvedono a proprie spese i relativi produttori comprovandone l’avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente. Con il “decreto enti territoriali” si specifica che “tra le componenti di costo vanno considerati anche gli eventuali mancati ricavi relativi a crediti risultati inesigibili con riferimento alla tariffa di igiene ambientale, alla tariffa integrata ambientale, nonché al tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES)”. Quest’ultima modifica suscita qualche perplessità, e sarebbe opportuno acquisire informazioni circa la neutralità della disposizione: considerare fra i costi anche gli eventuali mancati ricavi relativi a crediti risultati inesigibili, infatti, significherà necessariamente aumentare la tariffa rifiuti (TARI). 


Discarica di Bussi: la pronuncia della Corte d'Assise di Chieti

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Discarica di Bussi: la pronuncia della Corte d'Assise di Chieti

Sul n. 5 della rivista Ambiente e Sicurezza sul Lavoro -  Editore EPC è stato pubblicato il contributo Discarica dei veleni di Bussi: il disastro ambientale “senza colpevoli” nel quale viene illustrato il ragionamento che ha portato la Corte di Assise di Chieti a pronunciare la sentenza di assoluzione degli imputati per uno dei due reati contestati (avvelenamento delle acque), “perché il fatto non sussiste”, e dichiarare il “non doversi procedere” per il secondo (disastro ambientale, derubricato a delitto colposo di danno) per intervenuta prescrizione.
Torniamo indietro e facciamo mente locale su questa annosa vicenda: in Abruzzo, in prossimità della confluenza di due fiumi, il Tirino e il Pescara, in una zona ricca d’acqua superficiale e profonda, nei primi anni del secolo scorso veniva insediato un polo chimico gestito, nel corso del tempo, da diverse società, senza che nessun ente locale sollevasse alcuna questione sul forte impatto ambientale delle attività industriali praticate nel sito;  soltanto nel 2005 l’ARTA Abruzzo inviava una relazione tecnica nella quale si segnalava la “presenza anomala” di sostanze chimiche (stiamo parlando di tricloroetilene, tetracloroetilene, tetraclorometano, cloroformio e altri prodotti tossici e nocivi) riscontrate nelle acque superficiali dell’asta fluviale del Pescara nella zona a valle della confluenza con il Fiume Tirino e, quindi, immediatamente a valle del sito industriale di Bussi. Di qui le indagini, concentratesi soprattutto nella zona delle opere di captazione, finalizzate a fornire acqua potabile, miscelata con quella proveniente dall’acquedotto, all’intera popolazione dei comuni ubicati lungo la valle del Pescara.
Secondo la Corte d'Assise, le fonti documentali “consentivano di acquisire elementi di conoscenza che, confrontati con quanto emerso in occasione dell’analisi chimica svolta sui siti inquinanti, fornivano una quadro probatorio pienamente collimante, consentendo così di poter affermare, in termini di assoluta certezza, che l’attività di sversamento di residui della produzione era iniziata decenni addietro e, soprattutto, si era svolta in carenza di adeguate misure di prevenzione dell’inquinamento”.
Tuttavia, nella parte in fatto della sentenza si evidenzia che “l’apporto di inquinanti fornito dallo stabilimento industriale è rimasto un dato ipotizzato in termini di mera probabilità e rispetto al quale non è stato neppure possibile fornire un’indicazione generica del dato quantitativo, sicché non si può affermare – in termini di certezza come richiesto nel giudizio penale – la sua rilevanza causale rispetto al presunto avvelenamento dell’acqua emunta del campo pozzi”, e che “l’avvelenamento non è determinato dalla mera presenza di sostanze inquinanti, essendo richiesto il superamento di determinati parametri di concentrazione tali da far insorgere un concreto rischio per i potenziali assuntori dell’acqua. Ne consegue che non è ipotizzabile un rapporto lineare tra la presenza di inquinanti e la determinazione dell’effetto nocivo tipico dell’avvelenamento, sicché l’astratta possibilità che sostanze provenienti dall’area dello stabilimento – in quantità in alcun modo determinabile – possano aver raggiunto il campo pozzi è un dato di per sé neutro, atteso che solo ove fosse stato possibile accertare il grado di concentrazione con cui tali sostanze si sono trasferite dallo stabilimento all’acqua emunta, si sarebbe potuto apprezzare l’eventuale contributo causale offerto all’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione”.

Queste le premesse di fatto: ma quali erano i due capi di imputazione?
1. Delitto di avvelenamento delle acque destinate all'alimentazione umana mediante la realizzazione, nel corso degli anni di ben 4 discariche abusive di cui una di dimensioni gigantesche, la dispersione nel suolo sottostante l'area di sedime degli impianti di piombo nonché l'attuazione di una vera e propria strategia d'impresa finalizzata ad eludere gli obblighi derivanti dalla necessità di eliminare le conseguenze di tali condotte.
2. Delitto di cui all’art. 434 del c.p., dal momento che gli imputati avrebbero concorso a cagionare un “disastro ambientale di immani proporzioni che riguardava l’intero suolo e sottosuolo delle aree interne ed esterne al polo chimico-industriale di Bussi.

Dopo una sintetica trattazione degli elementi costitutivi del reato di avvelenamento delle acque, l'articolo dà conto di quanto ritenuto dalla Corte: "’area sulla quale si è insediato lo stabilimento chimico di Bussi e quella immediatamente circostante “proprio perché storicamente interessata da produzioni industriali potenzialmente pericolose ed in grado di alterare la composizione delle acque di falda, hanno fin dall’origine costituito un limite logico, prima ancora che normativamente previsto, affinché l’acqua di falda fosse effettivamente attinta per essere impiegata in usi alimentari", come a dire, l’inquinamento storico realizzatosi in assenza di una specifica disciplina volta ad impedire l’attingimento della falda acquifera da parte delle sostanze tossiche non potrà dar luogo al reato di avvelenamento per il semplice fatto che l’azione dell’uomo ha privato l’acqua di falda del requisito della potenziale utilizzabilità ai fini alimentari e, quindi, viene meno uno dei requisiti del fatto tipico previsto dall’art. 439 c.p.

Per quanto concerne invece il disastro ambientale, la Corte ritiene ampiamente accertato che l'area occupata dallo stabilimento industriale presenta un’elevata contaminazione, determinata dalla storica produzione di sostanze chimiche ivi svolte per oltre un secolo e che ha determinato la dispersione e l’interramento di plurime sostanze tossiche, alcune delle quali anche cancerogene.
In sostanza, “l’intera zona in questione non solo è gravemente inquinata, ma vi è anche una obiettiva diffusività delle sostanze pericolose principalmente mediante le falde acquifere; se tale circostanza non ha in concreto determinato l’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione umana, ciò non esclude affatto che vi sia stata una compromissione rilevante e difficilmente reversibile delle matrici costituenti un presupposto della salubrità ambientale, in modo da determinare che terreni ed acque collocate in prossimità degli impianti ed in corrispondenza delle discariche sono divenuti sicuramente insuscettibili di qualsivoglia impiego, se non a rischio di esporre i frequentatori ed utilizzatori delle suddette aree ad un concreto pericolo per la salute pubblica”, ha affermato la Corte. Tuttavia, dopo una disamina della nozione di disastro ambientale, in particolare relativa ai commi 1 e 2 dell'Art. 434 (aspetti controversi, giurisprudenza e funzione selettiva dell'elemento soggettivo), la Corte ha concluso che la conoscenza parziale del reale stato di contaminazione e delle cause che lo determinavano sia di per sé un elemento difficilmente sormontabile nell'ottica della tesi d'accusa volta a sostenere la commissione dolosa del reato di disastro ambientale; pertanto il reato è stato derubricato a disastro colposo ex art. 449 c.p. e ciò ha determinato la prescrizione.


Strutture ospedaliere: guida alla gestione dei rifiuti sanitari

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Sul n.6 della rivista Ambiente & Sicurezza sul Lavoro edita da EPC editore, è stato pubblicato in contributo "Strutture ospedaliere: guida alla gestione dei rifiuti sanitari". 
Dopo un avvio piuttosto travagliato - dato che una prima disciplina sulla gestione dei rifiuti ospedalieri era stata adottata nel 2000 per poi essere cambiata a neanche tre anni di distanza - oggi, a dodici anni di distanza dall'emanazione del Testo Unico Ambientale (TUA - D. Lgs 152/06) che ha sistematizzato e in parte sostituito la disciplina precedente, è finalmente possibile fornire un quadro della situazione, che tenga conto sia di alcune significative sentenze, sia di una diffusa prassi applicativa, con lo scopo di fornire una guida alla consultazione del sistema di gestione dei rifiuti sanitari.
Nell'articolo vengono trattati i punti salienti del D.P.R. n. 254/2003 - la disciplina della gestione dei rifiuti sanitari - cui sostanzialmente rimanda il TUA,  con focus sulle definizioni relative alle tipologie di rifiuti oggetto della disciplina; vengono poi trattate le norme regolamentari e tecniche attuative del TUA che si applicano a tali rifiuti in realzione alla loro classificazione (rifiuti urbani, assimililati ai primi, speciali, pericolosi e non pericolosi), con una tabella di sintesi relativa alle norme del D.P.R. n. 254/2003 sui rifiuti pericolosi a rischio infettivo.
Segue la trattazione - sempre in forma tabellare riassuntiva delle principali sentenze pronunciate in questi anni in materia di rifiuti sanitari; infine, un focus sulle criticità connesse alle responsabilità:
"A proposito della responsabilità nella gestione dei rifiuti prodotti dalla aziende sanitarie regionali, occorre evidenziare che una delle maggiori criticità risiede nell’identificazione del produttore del rifiuto, necessaria per la definizione delle relative responsabilità. Il produttore, com’è noto, è il soggetto che determina l’origine del rifiuto generato dalla propria attività e che conserva la responsabilità sulla gestione del rifiuto prodotto per l’intera catena di trattamento, anche nel caso in cui trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare ad altro soggetto, pubblico o privato, addetto alla raccolta ed al trattamento dei rifiuti. La gestione dei rifiuti prodotti dalle aziende sanitarie investe trasversalmente l’intera organizzazione aziendale e richiede, pertanto, l’integrazione fra i diversi settori".