Discarica di Bussi: la pronuncia della Corte d'Assise di Chieti
Sul n. 5 della rivista Ambiente e Sicurezza sul Lavoro - Editore EPC è stato pubblicato il contributo Discarica dei veleni di Bussi: il disastro ambientale “senza colpevoli” nel quale viene illustrato il ragionamento che ha portato la Corte di Assise di Chieti a pronunciare la sentenza di assoluzione degli imputati per uno dei due reati contestati (avvelenamento delle acque), “perché il fatto non sussiste”, e dichiarare il “non doversi procedere” per il secondo (disastro ambientale, derubricato a delitto colposo di danno) per intervenuta prescrizione.
Torniamo indietro e facciamo mente locale su questa annosa vicenda: in Abruzzo, in prossimità della confluenza di due fiumi, il Tirino e il Pescara, in una zona ricca d’acqua superficiale e profonda, nei primi anni del secolo scorso veniva insediato un polo chimico gestito, nel corso del tempo, da diverse società, senza che nessun ente locale sollevasse alcuna questione sul forte impatto ambientale delle attività industriali praticate nel sito; soltanto nel 2005 l’ARTA Abruzzo inviava una relazione tecnica nella quale si segnalava la “presenza anomala” di sostanze chimiche (stiamo parlando di tricloroetilene, tetracloroetilene, tetraclorometano, cloroformio e altri prodotti tossici e nocivi) riscontrate nelle acque superficiali dell’asta fluviale del Pescara nella zona a valle della confluenza con il Fiume Tirino e, quindi, immediatamente a valle del sito industriale di Bussi. Di qui le indagini, concentratesi soprattutto nella zona delle opere di captazione, finalizzate a fornire acqua potabile, miscelata con quella proveniente dall’acquedotto, all’intera popolazione dei comuni ubicati lungo la valle del Pescara.
Secondo la Corte d'Assise, le fonti documentali “consentivano di acquisire elementi di conoscenza che, confrontati con quanto emerso in occasione dell’analisi chimica svolta sui siti inquinanti, fornivano una quadro probatorio pienamente collimante, consentendo così di poter affermare, in termini di assoluta certezza, che l’attività di sversamento di residui della produzione era iniziata decenni addietro e, soprattutto, si era svolta in carenza di adeguate misure di prevenzione dell’inquinamento”.
Tuttavia, nella parte in fatto della sentenza si evidenzia che “l’apporto di inquinanti fornito dallo stabilimento industriale è rimasto un dato ipotizzato in termini di mera probabilità e rispetto al quale non è stato neppure possibile fornire un’indicazione generica del dato quantitativo, sicché non si può affermare – in termini di certezza come richiesto nel giudizio penale – la sua rilevanza causale rispetto al presunto avvelenamento dell’acqua emunta del campo pozzi”, e che “l’avvelenamento non è determinato dalla mera presenza di sostanze inquinanti, essendo richiesto il superamento di determinati parametri di concentrazione tali da far insorgere un concreto rischio per i potenziali assuntori dell’acqua. Ne consegue che non è ipotizzabile un rapporto lineare tra la presenza di inquinanti e la determinazione dell’effetto nocivo tipico dell’avvelenamento, sicché l’astratta possibilità che sostanze provenienti dall’area dello stabilimento – in quantità in alcun modo determinabile – possano aver raggiunto il campo pozzi è un dato di per sé neutro, atteso che solo ove fosse stato possibile accertare il grado di concentrazione con cui tali sostanze si sono trasferite dallo stabilimento all’acqua emunta, si sarebbe potuto apprezzare l’eventuale contributo causale offerto all’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione”.
Queste le premesse di fatto: ma quali erano i due capi di imputazione?Sul n. 5 della rivista Ambiente e Sicurezza sul Lavoro - Editore EPC è stato pubblicato il contributo Discarica dei veleni di Bussi: il disastro ambientale “senza colpevoli” nel quale viene illustrato il ragionamento che ha portato la Corte di Assise di Chieti a pronunciare la sentenza di assoluzione degli imputati per uno dei due reati contestati (avvelenamento delle acque), “perché il fatto non sussiste”, e dichiarare il “non doversi procedere” per il secondo (disastro ambientale, derubricato a delitto colposo di danno) per intervenuta prescrizione.
Torniamo indietro e facciamo mente locale su questa annosa vicenda: in Abruzzo, in prossimità della confluenza di due fiumi, il Tirino e il Pescara, in una zona ricca d’acqua superficiale e profonda, nei primi anni del secolo scorso veniva insediato un polo chimico gestito, nel corso del tempo, da diverse società, senza che nessun ente locale sollevasse alcuna questione sul forte impatto ambientale delle attività industriali praticate nel sito; soltanto nel 2005 l’ARTA Abruzzo inviava una relazione tecnica nella quale si segnalava la “presenza anomala” di sostanze chimiche (stiamo parlando di tricloroetilene, tetracloroetilene, tetraclorometano, cloroformio e altri prodotti tossici e nocivi) riscontrate nelle acque superficiali dell’asta fluviale del Pescara nella zona a valle della confluenza con il Fiume Tirino e, quindi, immediatamente a valle del sito industriale di Bussi. Di qui le indagini, concentratesi soprattutto nella zona delle opere di captazione, finalizzate a fornire acqua potabile, miscelata con quella proveniente dall’acquedotto, all’intera popolazione dei comuni ubicati lungo la valle del Pescara.
Secondo la Corte d'Assise, le fonti documentali “consentivano di acquisire elementi di conoscenza che, confrontati con quanto emerso in occasione dell’analisi chimica svolta sui siti inquinanti, fornivano una quadro probatorio pienamente collimante, consentendo così di poter affermare, in termini di assoluta certezza, che l’attività di sversamento di residui della produzione era iniziata decenni addietro e, soprattutto, si era svolta in carenza di adeguate misure di prevenzione dell’inquinamento”.
Tuttavia, nella parte in fatto della sentenza si evidenzia che “l’apporto di inquinanti fornito dallo stabilimento industriale è rimasto un dato ipotizzato in termini di mera probabilità e rispetto al quale non è stato neppure possibile fornire un’indicazione generica del dato quantitativo, sicché non si può affermare – in termini di certezza come richiesto nel giudizio penale – la sua rilevanza causale rispetto al presunto avvelenamento dell’acqua emunta del campo pozzi”, e che “l’avvelenamento non è determinato dalla mera presenza di sostanze inquinanti, essendo richiesto il superamento di determinati parametri di concentrazione tali da far insorgere un concreto rischio per i potenziali assuntori dell’acqua. Ne consegue che non è ipotizzabile un rapporto lineare tra la presenza di inquinanti e la determinazione dell’effetto nocivo tipico dell’avvelenamento, sicché l’astratta possibilità che sostanze provenienti dall’area dello stabilimento – in quantità in alcun modo determinabile – possano aver raggiunto il campo pozzi è un dato di per sé neutro, atteso che solo ove fosse stato possibile accertare il grado di concentrazione con cui tali sostanze si sono trasferite dallo stabilimento all’acqua emunta, si sarebbe potuto apprezzare l’eventuale contributo causale offerto all’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione”.
1. Delitto di avvelenamento delle acque destinate all'alimentazione umana mediante la realizzazione, nel corso degli anni di ben 4 discariche abusive di cui una di dimensioni gigantesche, la dispersione nel suolo sottostante l'area di sedime degli impianti di piombo nonché l'attuazione di una vera e propria strategia d'impresa finalizzata ad eludere gli obblighi derivanti dalla necessità di eliminare le conseguenze di tali condotte.
2. Delitto di cui all’art. 434 del c.p., dal momento che gli imputati avrebbero concorso a cagionare un “disastro ambientale di immani proporzioni che riguardava l’intero suolo e sottosuolo delle aree interne ed esterne al polo chimico-industriale di Bussi.
Dopo una sintetica trattazione degli elementi costitutivi del reato di avvelenamento delle acque, l'articolo dà conto di quanto ritenuto dalla Corte: "’area sulla quale si è insediato lo stabilimento chimico di Bussi e quella immediatamente circostante “proprio perché storicamente interessata da produzioni industriali potenzialmente pericolose ed in grado di alterare la composizione delle acque di falda, hanno fin dall’origine costituito un limite logico, prima ancora che normativamente previsto, affinché l’acqua di falda fosse effettivamente attinta per essere impiegata in usi alimentari", come a dire, l’inquinamento storico realizzatosi in assenza di una specifica disciplina volta ad impedire l’attingimento della falda acquifera da parte delle sostanze tossiche non potrà dar luogo al reato di avvelenamento per il semplice fatto che l’azione dell’uomo ha privato l’acqua di falda del requisito della potenziale utilizzabilità ai fini alimentari e, quindi, viene meno uno dei requisiti del fatto tipico previsto dall’art. 439 c.p.
Per quanto concerne invece il disastro ambientale, la Corte ritiene ampiamente accertato che l'area occupata dallo stabilimento industriale presenta un’elevata contaminazione, determinata dalla storica produzione di sostanze chimiche ivi svolte per oltre un secolo e che ha determinato la dispersione e l’interramento di plurime sostanze tossiche, alcune delle quali anche cancerogene.
Per quanto concerne invece il disastro ambientale, la Corte ritiene ampiamente accertato che l'area occupata dallo stabilimento industriale presenta un’elevata contaminazione, determinata dalla storica produzione di sostanze chimiche ivi svolte per oltre un secolo e che ha determinato la dispersione e l’interramento di plurime sostanze tossiche, alcune delle quali anche cancerogene.
In sostanza, “l’intera zona in questione non solo è gravemente inquinata, ma vi è anche una obiettiva diffusività delle sostanze pericolose principalmente mediante le falde acquifere; se tale circostanza non ha in concreto determinato l’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione umana, ciò non esclude affatto che vi sia stata una compromissione rilevante e difficilmente reversibile delle matrici costituenti un presupposto della salubrità ambientale, in modo da determinare che terreni ed acque collocate in prossimità degli impianti ed in corrispondenza delle discariche sono divenuti sicuramente insuscettibili di qualsivoglia impiego, se non a rischio di esporre i frequentatori ed utilizzatori delle suddette aree ad un concreto pericolo per la salute pubblica”, ha affermato la Corte. Tuttavia, dopo una disamina della nozione di disastro ambientale, in particolare relativa ai commi 1 e 2 dell'Art. 434 (aspetti controversi, giurisprudenza e funzione selettiva dell'elemento soggettivo), la Corte ha concluso che la conoscenza parziale del reale stato di contaminazione e delle cause che lo determinavano sia di per sé un elemento difficilmente sormontabile nell'ottica della tesi d'accusa volta a sostenere la commissione dolosa del reato di disastro ambientale; pertanto il reato è stato derubricato a disastro colposo ex art. 449 c.p. e ciò ha determinato la prescrizione.