Il nuovo incenerimento dei rifiuti alla luce delle modifiche introdotte dallo #SbloccaItalia: aguzzate la vista...

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Sul n. 1/2015 della rivista "Ambiente & Sviluppo", edita da IPSOA, è stato pubblicato un articolo in materia di incenerimento dei rifiuti: un tema molto importante, ma trattato con forse un po' troppa superficialità dal nostro legislatore. 
Quella che segue è un a sintesi del contenuto: per comodità si riportano soprattutto alcune riflessioni finali. 
Per un approfondimento del tema, e delle novità normative, e per leggere tutte le numerose note di rinvio, occorre leggere l'intero articolo sulla rivista "Ambiente & Sviluppo", IPSOA editore, n. 1/2015.


La saggezza dei vecchi 
C’è un vecchio proverbio marchigiano che, tradotto in italiano, suona così: “se l’arte dei matti non vuoi fare devi dire che il fare e il rifare è tutto un lavorare”. 
Come a dire: “quando si fa qualcosa, bisogna farla bene”, specie se questo qualcosa deve durare nel tempo. 
Specie se questo qualcosa è importante. 
Non sembra che il nostro legislatore sia aduso a far tesoro dell’esperienza (propria o altrui), e anche in questa occasione, in relazione ad un tema “caldo” – l’incenerimento dei rifiuti o, come va di moda dire: termovalorizzazione dei rifiuti: un tema importante per la salute, l’ambiente e lo sviluppo, complesso e reso complicato anche da certe semplificazioni partisan – è riuscito a sfornare nel solo 2014 ben tre modifiche. 
Tali modifiche avrebbero dovuto in qualche modo razionalizzare questa forma di smaltimento (spacciato per recupero) dei rifiuti, per renderlo effettivamente integrato nel sistema globale della loro gestione. 
Ma nella realtà, tali modifiche rischiano di stravolgere la gerarchia nella gestione dei rifiuti e, di conseguenza, la sua sostenibilità. 
Gli interventi del legislatore danno, in definitiva, la sensazione di un (ri)tornare su concetti che ormai sembravano chiariti (la questione relativa alla termocombustione negli inceneritori come forma di smaltimento) per rimetterli in discussione e cercare, in questo modo, di dare al nostro Paese finalmente una strategica, moderna ed integrata gestione dei rifiuti, così come ci é richiesto dall’Europa. 
Una sensazione, detto in altri termini, che richiama quel “fare e rifare, che è tutto un lavorare”. 
Il nostro legislatore, in sostanza, continua a discutere degli stessi problemi, non prende decisioni definitive né coerenti e, dunque, non efficienti, e sembra comunicare un messaggio di novità, ad uso dei cittadini-elettori-consumatori, più che muoversi realmente nella direzione della sostenibilità (che rappresenterebbe la vera, e unica, novità). Vediamo perché. 

Il nuovo incenerimento: il decreto “emissioni industriali” 
Tabella 1: l’incenerimento nel decreto “emissioni industriali” [...]

Il nuovissimo incenerimento: lo #SbloccaItalia 
Con il decreto legge #SbloccaItalia il Governo ha introdotto una nuova normativa (art. 35) che, pur non modificando il testo della nuova disciplina introdotta dal decreto “emissioni industriali”, nel dettare “misure urgenti per l’individuazione e la realizzazione di impianti di recupero di energia, dai rifiuti urbani e speciali, costituenti infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale”, interviene sul concetto di incenerimento e, di conseguenza, sul relativo meccanismo autorizzatorio.
Disciplina integrata e modificata in sede di conversione in legge del DL (L. n. 164/2014). La disciplina dettata dal decreto legge prevedeva, in estrema sintesi, che: [...] 

L’incenerimento for dummies
Nell’ambito della gestione dei rifiuti, il nostro legislatore, sulla scia di quanto previsto a livello comunitario, ha dettato i criteri di priorità. 
La gerarchia prevede innanzitutto la prevenzione nella produzione dei rifiuti, quindi la preparazione per il riutilizzo, seguita nell’ordine dal riciclaggio, dal recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia e, quindi, come extrema ratio, lo smaltimento. 
La combustione dei rifiuti è una modalità di gestione border line, nel senso che dal punto di vista tecnico-giuridico può essere considerata come operazione di recupero o di smaltimento a seconda delle modalità prese in considerazione e degli impianti che vengono utilizzati per “valorizzare” il contenuto calorifico dei rifiuti stessi. 
A tale proposto, la Corte di Giustizia ha avuto modo di affermare, in estrema sintesi, che la combustione di rifiuti costituisce un’operazione di recupero quando il suo obiettivo principale è che gli stessi possano svolgere una funzione utile, come mezzo per produrre energia, sostituendosi all’uso di una fonte primaria che avrebbe dovuto essere altrimenti usata per svolgere tale funzione, mentre non possono essere presi in considerazione criteri ulteriori quali il potere calorifico, la percentuale delle sostanze nocive dei rifiuti inceneriti o il fatto che gli stessi abbiano, o meno, bisogno di una mescolanza o di un condizionamento con rifiuti altamente infiammabili.
In definitiva, la questione decisiva per la Corte è se i rifiuti vengano utilizzati o riutilizzati per un’autentica finalità. 
Nel caso di impiego di rifiuti misti in un cementificio, ad esempio, l’operazione costituisce recupero: in loro assenza, infatti, verrebbe comunque utilizzato del combustibile convenzionale. 
 Lo scopo primario di un inceneritore di rifiuti urbani, invece, consiste nel “trattamento termico ai fini della mineralizzazione degli stessi”, e non può essere considerato nel senso di avere come obiettivo principale il recupero dei rifiuti, anche se durante l’incenerimento di questi si procede al recupero di tutto o di parte del calore prodotto dalla combustione. Questo costituisce solo un effetto secondario di un’operazione la cui finalità principale è quella dello smaltimento dei rifiuti, e non può rimettere in discussione la sua corretta qualificazione come operazione di smaltimento. 
Come a dire: tutti gli inceneritori sono impianti di smaltimento, quindi sono all’ultimo gradino della citata gerarchia. 
Il nostro legislatore ha tenuto conto di questi saggi principî, tanto che già nel D.Lgs n. 133/05 ha definito:
  • impianto di incenerimento “qualsiasi unità e attrezzatura tecnica, fissa o mobile, destinata al trattamento termico di rifiuti con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione [...]”, e 
  • impianto di coincenerimento “qualsiasi unità tecnica, fissa o mobile, la cui funzione principale consiste nella produzione di energia o di materiali e che utilizza rifiuti come combustibile normale o accessorio [...]”. 
Definizione, quest’ultima, ulteriormente integrata dal decreto “emissioni industriali”, che evidenzia che “se il coincenerimento dei rifiuti avviene in modo che la funzione principale dell’impianto non consista nella produzione di energia o di materiali, bensì nel trattamento termico ai fini dello smaltimento dei rifiuti, l’impianto è considerato un impianto di incenerimento dei rifiuti”. Anche dal punto di vista terminologico, il linguaggio utilizzato finora dal legislatore è sempre stato nei limiti del “politically correct”: trattamento, è un termine giuridicamente “asettico”, che non implica alcun valore (termovalorizzazione) o disvalore (incenerimento).

L’arte dei matti 
Se analizziamo la normativa sull’incenerimento emanata negli ultimi mesi non possiamo non cogliere qualche segnale positivo nella razionalizzazione compiuta dal decreto emissioni industriali, specie con riferimento all’inserimento della normativa sull’incenerimento ed il coincenerimento all’interno del corpus del testo unico ambientale, all’eliminazione della disposizione sul danno ambientale e, soprattutto, alle precisazioni sostenibili relative alla definizione di coincenerimento. 
Ma non si può rimanere (non solo) giuridicamente impassibili di fronte alla sterzata operata dallo #SbloccaItalia soltanto pochi mesi più tardi, anche se già in qualche modo annunciata dal Governo Letta, che nel collegato ambientale dello scorso anno aveva ipotizzato l’inserimento di un nuovo art. 199-bis all’interno del TUA, con lo scopo “di far sì che i rifiuti non possano diventare fonte di pericolo per la salute dell’uomo e di pregiudizio per le risorse naturali e per l’ambiente”.
Nella relazione illustrativa si evidenziava – all’epoca – che 
“ricorrente e particolarmente attuale è la discussione apertasi, sia tra i policy makers che tra la pubblica opinione, circa le scelte da compiersi, nel rispetto dei criteri di priorità [...] maggiormente idonee a delineare un ciclo integrato e conchiuso dei rifiuti, in modo tale che lo smaltimento in discarica venga ad essere effettivamente l’opzione finale e residuale, destinata cioè ai soli rifiuti che non si è riusciti a gestire in altro modo o agli scarti derivanti da altre forme di trattamento degli stessi”. 
La relazione proseguiva con generici riferimenti:
  • agli “atteggiamenti variegati” relativi alla “questione incenerimento” e alla necessità di “operare un momento di riflessione generale”, per “verificare, tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti [...] quale sia l’attuale disponibilità di impianti di incenerimento e coincenerimento dei rifiuti esistente nel territorio nazionale e quali siano le effettive necessità che debbano essere soddisfatte ricorrendo a nuovi impianti da realizzare”; 
  • alla necessità di ottemperare alla procedura di infrazione n. 2011/4021, con la quale la Commissione europea ha contestato all’Italia la violazione dell’art. 16 della direttiva 2008/98/UE per quanto riguarda la mancata creazione nel Lazio di una rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento di rifiuti urbani non differenziati.
Della norma non s’è poi fatto nulla, fino allo #SbloccaItalia.

Ma qual è l’impatto complessivo di questa nuova normativa? 

Al di là della considerazione circa le tempistiche da osservare – comunque confusionarie – occorre partire dalle contraddizioni intrinseche alla “costruzione giuridica” effettuata dal nostro legislatore, che: 
  • da un lato richiama il concetto di smaltimento (“è l’Europa che ci chiede di adottare una integrata ed adeguata rete di impianti di smaltimento dei rifiuti”), salvo farlo in modo non completo, 
  • dall’altro sancisce (invece) di trattare la termocombustione dei rifiuti negli inceneritori alla stregua di operazioni di recupero, sia pure con qualche formale distinguo. 
Verosimilmente sembra non possa trattarsi di un “lapsus” (parlare di smaltimento e di recupero ha due significati molto diversi, non solo dal punto di vista sociologico-comunicativo, ma anche e soprattutto da quello giuridico); più prosaicamente, sotto traccia sembra leggersi il tentativo di (confondere le idee) comunicare che finalmente con lo #SbloccaItalia il nuovo Governo non solo ha concretamente ottemperato a quanto chiesto da Bruxelles, ma ha addirittura migliorato quanto “ci è stato chiesto”, dal momento che con le operazioni prospettate non si compie una semplice attività di smaltimento ma quella più virtuosa di recupero (pardon: di termovalorizzazione).

Rimane (molto) vago il riferimento alla necessità di realizzare il “progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale”. Di “sociale”, al di là dell’enfasi con la quale viene effettuata, non c’è neanche la comunicazione – che spaccia per recupero ciò che in realtà è smaltimento – mentre di economico c’è soltanto il fatto che le regioni, con la novità introdotta dal nuovo comma 7, potranno monetizzare l’utilizzo “in impianti di recupero energetico” dei rifiuti urbani provenienti da altre regioni, chiedendo ai gestori fino ad un massimo di 20 €/t che, in periodi di “scarsa liquidità”, come quello attuale, é difficile immaginare che verranno utilizzati per gli scopi virtuosi, ma “meno impellenti”, ipotizzati dal legislatore nazionale. 
Come a dire che viene fatta sostanzialmente salva, forse incentivata, la possibilità di far circolare liberamente l’immondizia da una regione all’altra. 

Anche il concetto di “saturazione del carico termico” – e quello correlato di effettiva necessità di impianti di incenerimento/recupero – appare contraddittorio e confusionario. A parte il fatto che il richiamato art. 237-sexies sancisce che l’autorizzazione deve contenere esplicitamente anche “la capacità nominale e il carico termico nominale autorizzato” e non che “l’impianto deve essere autorizzato a saturazione del carico termico”, occorre piuttosto chiedersi sulla base di quali dati verrà calcolata la presunta “necessità effettiva” di nuovi “impianti di recupero”. 
Innanzitutto, occorre considerare che, se gli impianti, vecchi e nuovi, saranno autorizzati a “saturazione del carico termico”, ovviamente l’effettiva necessità di ulteriori impianti dovrebbe essere minima, a parità di rifiuti da (incenerire) “recuperare energeticamente”. 
Quindi, partendo dalla considerazione che, nell’ambito della più volte richiamata gerarchia, la termocombustione di rifiuti in impianti di incenerimento (che costituisce un’operazione di smaltimento, nonostante il make-up giuridico) dovrebbe stare giusto un gradino sopra lo smaltimento in discarica, e in ogni caso sotto il coincenerimento, l’incenerimento dei rifiuti, anche con valorizzazione del potere calorifico degli stessi, dovrebbe comunque costituire una forma di gestione dei rifiuti residuale. 
Infine, occorre chiedersi se la quantità (enorme) di rifiuti che si vorrebbero (incenerire) “recuperare energeticamente” sia dovuta all’impossibilità tecnica di “gestire in altro modo” i rifiuti, all’incapacità logistico-normativa di implementare una reale gestione integrata dei rifiuti o, ancora, e piuttosto, alla necessità di comunicare un problema (recuperare rifiuti che invece l’Europa ci chiede si smaltire) che, non potendo essere altrimenti risolto, si è ideato di gestire in questo modo. 
Senza dimenticare il fatto che la presunta necessità di ulteriori inceneritori – la cui ragione di esistere è soltanto quella di continuare a bruciare (sempre più) rifiuti – è antitetica al perseguimento della gerarchia nella gestione dei rifiuti.... 
Ma sembra che il Governo ritenga sufficiente limitarsi ad un make-up normativo (un banale quanto semplice giro di parole) per risolvere il problema, senza immaginare che, così facendo:
  • rischia seriamente di perseguire obiettivi “altri” rispetto a quelli dichiarati (e quindi mancherebbe di legittimità/credibilità/consenso), 
  • non affronta l’annoso problema della gestione integrata e sostenibile dei rifiuti, ma lo continua a rimandare. Alla faccia della vagheggiata modernità.
Ma il più bello deve ancora venire, e riguarda l’adeguamento degli inceneritori esistenti, laddove le autorità competenti dovranno valutare, in tempi molto ristretti, l’eventualità di “promuovere” i vecchi inceneritori ad impianti di recupero energetico R1, revisionando, negli stessi tempi stretti, le relative AIA: una fretta che non si spiega altrimenti se non con la necessità di non dover trovare troppo a lungo giustificazioni per un’operazione retroattiva dalla dubbia legittimità (quantomeno politica).

Una fretta che si accompagna a quella – sia pur “ridimensionata” – relativa al “dimezzamento dei termini”.

Quanto agli impianti nuovi, invece, il legislatore dà per scontato che saranno tutti impianti di recupero... 

In conclusione, la sensazione è, appunto, quella che richiama quel “fare e rifare, che è tutto un lavorare”. 
Un “darsi da fare” – come al solito giustificato dalla necessità di fare (che è reale) senza tuttavia curarsi di come fare – che sembra aver prodotto più che altro un nuovo “scollegato ambientale”: insomma, l’arte dei matti. 

Non si tratta – chi scrive ci tiene ad evidenziarlo – di una posizione para/anti-incenerimento dei rifiuti, ma (molto più prosaicamente) di considerare lo smaltimento mediante incenerimento per quello che è: un semplice strumento. 
Utile e necessario nei limiti in cui viene: 
  • usato – in modo corretto, adeguato, integrato, contestualizzato – per realizzare una gestione dei rifiuti integrata, efficiente, efficace, “moderna” e di prospettiva, perché deve durare nel tempo in quanto essenziale per il perseguimento (e il mantenimento) delle sostenibilità; 
  • comunicato senza giri di parole, senza ricercare continuamente scusanti per poter (nella sostanza) giustificare il suo ab-uso, attraverso banali campagne comunicative di “serie B” che, tuttavia, sono efficaci nei confronti dei non addetti ai lavori. Che però sono tanti...


Analisi delle più recenti normative e sentenze in materia di siti contaminati

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"Un’idea, finché resta un’idea è soltanto un’astrazione", cantava Giorgio Gaber una quarantina di anni fa.
Un'astrazione.

Ecco, il diritto ambientale italiano assomiglia ad un'astrazione: tanti bei principi, un profluvio di leggi che, nelle intenzioni di chi le concepisce, dovrebbero garantire certezza e stabilità, ma che all'atto pratico - quando, da idea, la normativa deve produrre fatti concreti. In altri termini: business - si dimostrano inutili, tutt'altro che semplici, per nulla semplificatorie, oltre a comportare costi per gli operatori del settore.
Insomma, quello dell'operatore del settore bonifiche è un compito difficile, a livello interpretativo, operativo, di responsabilità.

Nel nostro Bel Paese, martoriato da continue emergenze (non solo) ambientali, esistono ben 57 siti di interesse nazionale da bonificare: spesso si tratta di siti che hanno visto succedersi, negli anni, diversi proprietari (e diversi soggetti inquinatori), e nei quali sono compresenti, ad oggi, numerose industrie altamente impattanti sul territorio e sull’ambiente. 
Parlare di responsabilità per l’attuale inquinamento non è un compito semplice, e non può essere semplificato (nel senso di schematizzato, decontestualizzandolo) né reso giornalisticamente magari in termini semplicistici (ovvero di contrapposizione): per questi motivi la giurisprudenza, in particolare quella amministrativa, lo ha (quasi) sempre affrontato in punta di (piedi) diritto, cercando delle soluzioni in grado di contemperare la tutela della salubrità dell’ambiente, da un lato, e gli interessi sociotecnico- economici, dall’altro. 
In sostanza, con lo spirito proprio di chi cerca di perseguire le molteplici sostenibilità. 

Non è semplice neanche districarsi fra le normative che il legislatore continua ad emanare in materia: le recenti modifiche al TUA che il Legislatore/Governo ha introdotto nel nostro ordinamento, nel dichiarato intento di semplificare l’iter delle bonifiche, costituiscono un’ulteriore conferma dell’incapacità di progettare un sistema strutturato che riesca, oltre che a proclamare, a raggiungere le sostenibilità.

Proprio in considerazione delle difficoltà, cui si è appena fatto cenno, Natura Giuridica ha deciso di realizzare un vademecum sulle ultime e più significative novità normative in materia di bonifica, nonché sulle principali sentenze concernenti i più significativi aspetti presi in considerazione dai giudici, nell'analizzare i casi concreti sottoposti al loro esame.
Il vademecum è utile per avvocati, consulenti ambientali, operatori del settore, per aggiornarsi e strutturare in modo adeguato le strategie difensive e/o d'impresa: il rispettivo business.

Si tratta di un lungo articolo che Natura Giuridica ha pubblicato sul suo sito: l'articolo è a pagamento.
Per scaricarlo occorre innanzitutto registrarsi gratuitamente sul sito, quindi collegarsi a questo link e seguire le istruzioni che compariranno a video e che verranno inviate tramite e-mail.

Il lungo articolo (dodici pagine) contiene un’analisi delle più recenti novità in materia di bonifica dei siti contaminati (contenute nello #SbloccaItalia, che ha introdotte alcune semplificazioni procedurali) e della più significativa giurisprudenza amministrativa e penale, con particolare riferimento al regime delle responsabilità, alla gestione delle acque emunte dalla falda durante operazioni di bonifica, alla discrezionalità tecnica dell’amministrazione, all’omessa bonifica, all’inquinamento storico, al potere del Sindaco. 

Il costo per il download è di 20 € + iva (15 + iva per utenti premium).

Nella richiesta inserire i dati per la fatturazione. 




Bruciare i residui agricoli/vegetali: è reato oppure no? Quando il buon senso non basta...

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Dallo scorso mese di dicembre, Natura Giuridica ha avviato una collaborazione con il quotidiano online CuneoCronaca.
Nelle pagine del quotidiano NG affronterà ovviamente tutte le più spinose tematiche ambientali che riguardano la "Provincia Granda", ma non mancheranno anche approfondimenti delle principali normative nazionali.
Quello che segue è un articolo pubblicato il 22 dicembre 2014, in tema di incenerimento di rifiuti agricoli: è un reato oppure no?!

L’antica e tradizionale pratica agricola di bruciare nei campi sterpaglie, ramaglie, avanzi di potature, residui provenienti da attività agricole e assimilate (disboscamento, raccolta, pulizia di boschi, campi, giardini, aree verdi ecc.), è sempre stata comunque circondata da alcune cautele per il timore che, sfuggendo al controllo, potesse divenire causa d’incendi.

Tuttavia, sia pure con le dovute cautele, tale attività è sempre stata lecita, fino a quando il nostro legislatore, nell’intento di venire incontro alle esigenze degli agricoltori ha:

  • dapprima deciso di introdurre alcune modifiche al “codice dell’ambiente” (filosofeggiando sulle nozioni di rifiuti, sottoprodotti, materia prima secondaria), che invece di risolvere i problemi ne hanno creati di ulteriori;
  • quindi, per fronteggiare una delle tante emergenze ambientali di turno, ha introdotto con il “decreto terra dei fuochi” il reato di “Combustione illecita di rifiuti”. Si tratta di un reato che, nella sua ipotesi base (sono previste aggravanti e sono sanzionate altre attività connesse), ha punito con la reclusione da due a cinque anni “chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate”, e con la “sola” sanzione pecuniaria amministrativa la combustione dei rifiuti vegetali “urbani”, provenienti cioè da giardini, aree verdi, ... 
In questa delicata situazione giuridica, gli enti locali hanno nel tempo cercato di porre un qualche rimedio.
Così, la regione Lombardia ha previsto che la combustione all’aperto di materiale di origine vegetale è vietata soltanto fra il 15 ottobre e il 15 aprile (periodo di maggiore criticità per l’inquinamento atmosferico), ammettendola implicitamente negli altri periodi.
In Liguria si è addirittura affermato che i residui vegetali non devono essere classificati come rifiuti: via libera, dunque, all’“abbruciamento controllato, nel rispetto delle norme per la prevenzione degli incendi”.
In Sicilia e nel Veneto è stato affidato ai Comuni il compito di disciplinare con i propri regolamenti di polizia rurale “la combustione controllata sul luogo di produzione dei residui vegetali”.

Quest’estate con il “decreto competitività” è stata introdotta un’ennesima modifica al Codice dell’ambiente, che ha stabilito che:

  • le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli
  • in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali 
  • effettuate nel luogo di produzione, 
costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali é sempre vietata.

I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione di tali materiali all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attivita' possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumita' e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)".

All’indomani dell’entrata in vigore del “decreto competitività”, in Piemonte molti comuni hanno emanato alcune ordinanze in merito, stabilendo, “con decorrenza immediata e sino a nuove disposizioni”, che:
  • é consentita la combustione controllata direttamente sul luogo di produzione dei soli residui vegetali derivanti dall’attività agricola di coltivazione del fondo, nel rispetto di alcune specifiche condizioni (a quelle dettate dal “decreto competitività” se ne aggiungono generalmente alcune, dettate dal buon senso); 
  • dovranno essere in ogni caso rispettate le limitazioni imposte dalla Regione Piemonte qualora venga determinato lo stato di massima pericolosità per gli incendi boschivi; 
  • la combustione non potrà essere effettuata in ogni caso al ricorrere di specifiche circostanze (ad esempio, nel centro abitato; in aree definite “residenziali” dal vigente Piano Regolatore Comunale; in terreni boscati o cespugliati, all’interno di aree destinate all’arboricoltura, alla frutticoltura e simili; ...)
Ma cosa accade, se non si rispettano quelle condizioni?

In due recenti sentenze, la Corte di Cassazione ha detto che “è reato”, evidenziando che:
  • bruciare scarti vegetali mediante incenerimento a terra rimane reato, “il cui elemento oggettivo sussiste indipendentemente dalla quantità del materiale vegetale bruciato. In sostanza, se non è provato l’inserimento anche mediante trasformazione in un circuito produttivo delle ceneri prodotte dalla combustione, rimane l’offensività della condotta”. In questo caso gli scarti sono rifiuto, e bruciarli senza autorizzazione integra il reato di smaltimento senza autorizzazione di rifiuti speciali non pericolosi; 
  • la nuova norma introdotta dal “decreto competitività”, “dovendosi interpretare nel suo complesso, senza isolare artificialmente il primo periodo dai seguenti, alla luce degli ordinari canoni ermeneutici, non depenalizza tout court l'abbruciamento in terra di scarti vegetali come rifiuti, ma prevede un margine di irrilevanza della condotta, specificamente determinato a livello quantitativo e temporale, anche a mezzo dell'individuazione amministrativa di parte di tali modalità scriminanti mediante appunto una ordinanza sindacale ad hoc, e fatto salvo il limite imposto dalle regioni per tutelare dal rischio degli incendi boschivi”.
In sostanza, neanche la Cassazione sembra aver le idee chiare, se da un lato dice che anche il rispetto delle condizioni quantitative non esclude il reato e, dall’altro, invece, afferma che il rispetto di quelle stesse condizioni costituisce una scriminante...

Finanziamenti europei: gli strumenti per finanziare l’attività di ricerca e innovazione delle PMI

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Come fare per poter accedere ai finanziamenti stanziati per sostenere le attività di ricerca e di innovazione delle PMI? Un breve vademecum su cosa rappresenta le SME instrument e su cosa occorre fare.

Cos’è lo SME instrument 
Le PMI (SME in inglese: micro, small and medium-sized enterprises) rappresentano una significativa fonte di innovazione, crescita ed occupazione in Europa. 
Nell’ambito di “Horizon 2020” lo SME Instrument è specificamente destinato alle piccole e medie imprese, con lo scopo di sostenere le attività di ricerca e di innovazione e le capacità delle PMI nel corso delle varie fasi del ciclo di innovazione. 

Chi può partecipare e cosa può fare 
Possono partecipare alle calls soltanto le PMI, che possono cooperare con altre imprese e con organizzazioni di ricerca o università. 
Lo SME Instrument si rivolge a tutte le PMI innovative che vogliono svilupparsi, crescere ed internazionalizzarsi, e fornisce il supporto che copre l’intero ciclo di innovazione, suddivise nelle seguenti tre fasi: 
  1. lo sviluppo di uno studio di fattibilità tecnologica, pratica ed economica di una idea innovativa per il settore industriale in cui viene presentato (nuovi prodotti, processi, progettazione, servizi e tecnologie o nuove applicazioni di mercato delle tecnologie esistenti). Vengono finanziati tutti i costi eleggibili (costi diretti e indiretti) che possono essere ricondotti alle attività per il Feasibility study dell’idea progettuale (se propriamente implementate) e che corrispondono alla somma forfettaria stabilita come importo finanziabile dalla Commissione Europea. L’ammontare del finanziamento è stabilito in 50.000 €: al beneficiario andrà un prefinanziamento (40% della somma forfettaria, entro 30 giorni dalla data di inizio dell’azione o dalla data di entrata in vigore della convenzione, a seconda di quale è l’ultima data) ed un pagamento a saldo (che sarà pagato entro 90 giorni dal ricevimento del report finale); 
  2. lo sviluppo di progetti di innovazione che dimostrano un elevato potenziale in termini di competitività e di crescita sostenuta da un business plan strategico. In questo caso viene rimborsato il 70% dei costi eleggibili per l’azione: i costi ammissibili devono essere dichiarati in specifiche forme di costo (costi di personale diretti, costi diretti di subappalto, costi diretti di fornitura supporto finanziario a terze parti, altri costi diretti; costi indiretti sulla base di una flat-rate del 25% dei costi diretti ammissibili). Il contributo nella forma di concessione si prevede essere dell’ordine di €500.000 fino a €2,5 milioni. Al beneficiario andrà un prefinanziamento (entro 30 giorni dalla data di inizio dell’azione o dalla data di entrata in vigore della convenzione, a seconda di quale è l’ultima data), uno o più pagamenti intermedi (rimborsano i costi eleggibili sostenuti per l’implementazione dell’azione durante i corrispondenti reporting periods ) ed il pagamento del saldo (che sono pagati entro 90 giorni dal ricevimento del report periodico). La durata prevista è di 1-2 anni, salva la possibilità di richiedere un periodo maggiore di tempo;
  3. il sostegno alla commercializzazione, per il quale non sono previste sovvenzioni ma finanziamenti indiretti. 

Modalità operative
Le domande di finanziamento possono essere presentate esclusivamente mediante procedura telematica sul Portale del Partecipante di Horizon2020: si tratta di una procedura guidata che guida l’utente step by step nella preparazione della proposta, in due parti:
  • il form amministrativo 
  • l’allegato tecnico (la descrizione dettagliata del progetto di ricerca e innovazione previsto). Gli altri allegati (obbligatori o facoltativi) possono essere richiesti dalla call e dal topic specifico, come indicato nel sistema di sottomissione. 

Occorre creare un account, quindi registrarsi ed ottenere un PIC (Participant Identification Code a nove cifre, che sarà inserito nella proposta ed in ogni corrispondenza con la Commissione), designare un rappresentante in caso di validazione della proposta ed effettuare il c.d. “self-check” sulla vitalità finanziaria (financial viability) della propria organizzazione. 

Le attività finanziate possono comprendere:
  • valutazione dei rischi; 
  • studi di mercato; 
  • coinvolgimento degli utenti; 
  • gestione della proprietà intellettuale;
  • sviluppo delle strategie di innovazione;
  • ricerca partner; 
  • fattibilità di concetti 

Costi eligibili 
Le PMI possono accedere ai finanziamenti singolarmente o consorziate; altri partner (provider di ricerca o imprese di maggiori dimensioni) - possono essere coinvolti come soci terzi, ma non sono ammessi al finanziamento. Analogo discorso per le PMI aventi sede in altri paesi: possono partecipare a progetti come collaboratori terzi (ad esempio come subappaltatori), ma non sono ammessi al finanziamento. 

Sul portale del partecipante è possibile ottenere risposta (in inglese) alle più frequenti domande 
http://ec.europa.eu/research/participants/portal/desktop/en/support/faq.html#f16 

Il manuale dettagliato in inglese è disponibile al seguente indirizzo internet:
http://ec.europa.eu/research/participants/docs/h2020-funding-guide/cross-cutting-issues/sme_en.htm


Responsabilità delle imprese: più informazioni ambientali nei bilanci societari

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Dal 2017 nei bilanci societari dovranno essere presenti maggiori informazioni ambientali 


Il Parlamento europeo ha integrato la disciplina relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, con l’obiettivo di portare la trasparenza delle informazioni sociali e ambientali fornite dalle imprese di tutti i settori ad un livello elevato comparabile in tutti gli Stati membri. 

L’obiettivo 
La comunicazione, da parte delle imprese, di informazioni sui fattori sociali ed ambientali è essenziale – sottolinea il Parlamento europeo – per individuare i rischi per la sostenibilità e accrescere la fiducia degli investitori e dei consumatori. 
Inoltre, la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario è fondamentale per gestire la transizione verso un’economia globale sostenibile coniugando redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell’ambiente. 
Le due più importanti novità concernono l’introduzione delle dichiarazioni (consolidata e non) di carattere non finanziario. 

La dichiarazione di carattere non finanziario: le modalità 
Chi riguarda: le imprese di grandi dimensioni che costituiscono enti di interesse pubblico e che, alla data di chiusura del bilancio, presentano un numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 500. 
Cosa devono fare: includere nella relazione sulla gestione una dichiarazione di carattere non finanziario. 
Contenuto della dichiarazione: 
  • “almeno” le informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale e al rispetto dei diritti umani;
  • una descrizione del modello aziendale; delle politiche applicate dall’impresa, comprese le procedure di due diligence applicate; dei risultati conseguiti; dei principali rischi; delle modalità di gestione adottate; degli indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario pertinenti per l’attività specifica dell’impresa. 
Per quanto concerne gli aspetti ambientali, è previsto un obbligo. La dichiarazione, infatti, deve contenere informazioni dettagliate riguardanti:
  • l’impatto attuale e prevedibile delle attività dell’impresa sull’ambiente nonché, ove opportuno, sulla salute e la sicurezza;
  • l’utilizzo delle risorse energetiche rinnovabili e/o non rinnovabili;
  • le emissioni di gas a effetto serra; • l’impiego di risorse idriche;
  • l’inquinamento atmosferico. 
Per quanto concerne gli aspetti sociali e attinenti al personale, invece, l’elenco stilato dalla direttiva è facoltativo; infatti le informazioni fornite nella dichiarazione possono riguardare:
  • le azioni intraprese per garantire l’uguaglianza di genere;
  • l’attuazione delle convenzioni fondamentali dell’OIL (organizzazione internazionale del lavoro);
  • le condizioni lavorative;
  • il dialogo sociale;
  • il rispetto del diritto dei lavoratori di essere informati e consultati;
  • il rispetto dei diritti sindacali;
  • la salute e la sicurezza sul lavoro;
  • il dialogo con le comunità locali, e/o le azioni intraprese per garantire la tutela e lo sviluppo di tali comunità.
Imprese “senza politiche”: le imprese che non applicano politiche in relazione a uno o più di tali aspetti, devono fornire nella dichiarazione di carattere non finanziario una spiegazione chiara e articolata del perché di questa scelta.

Facoltà degli Stati membri: consentire l’omissione di informazioni concernenti gli sviluppi imminenti o le questioni oggetto di negoziazione in casi eccezionali. 

La dichiarazione consolidata di carattere non finanziario 
Chi riguarda: “gli enti di interesse pubblico che sono imprese madri di un gruppo di grandi dimensioni e che, alla data di chiusura del bilancio, presentano, su base consolidata, un numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 500”. 
Cosa devono fare: includere nella relazione consolidata sulla gestione una dichiarazione consolidata di carattere non finanziario. 
Contenuto: il medesimo previsto per la dichiarazione non consolidata. 

I doveri e le responsabilità nell’elaborazione e nella pubblicazione del bilancio e della relazione della gestione 
Gli Stati membri dovranno assicurare che i membri degli organi di amministrazione, di gestione e di controllo di un’impresa, che operano nell’ambito delle competenze a essi attribuite dal diritto nazionale, garantiscano:
  1. i bilanci di esercizio, la relazione sulla gestione, la dichiarazione sul governo societario, ove fornita separatamente;
  2. i bilanci consolidati, le relazioni consolidate sulla gestione, la dichiarazione consolidata sul governo societario, ove fornita separatamente
siano redatti e pubblicati in osservanza degli obblighi previsti dalla direttiva e, se del caso, dei principi contabili internazionali.

Le tempistiche 
Gli Stati membri dovranno recepire la direttiva entro il 6 dicembre 2016. Entro la medesima data la Commissione dovrà elaborare degli orientamenti non vincolanti sulla metodologia di comunicazione delle informazioni di carattere non finanziario, compresi gli indicatori fondamentali di prestazione generali e settoriali. Lo scopo è quello di agevolare la divulgazione pertinente, utile e comparabile di informazioni di carattere non finanziario da parte delle imprese.

Le prospettive 
Il MEF ha dichiarato che
“le aziende, specialmente le più grandi, svolgono un ruolo fondamentale nell'economia europea che va ben oltre la semplice produzione di beni e servizi. Approvando questa direttiva, i legislatori dell’Unione hanno riconosciuto tale ruolo e potenziato il quadro sulla responsabilità sociale d’impresa. Livelli di trasparenza più elevati saranno garantiti attraverso la divulgazione di informazioni non finanziarie; questo migliorerà la responsabilità delle grandi imprese verso i cittadini europei e permetterà agli investitori di ricompensare le aziende socialmente responsabili promuovendo così una crescita sostenibile”.
In definitiva, il restyling della normativa costituisce uno snodo fondamentale per lo sviluppo e il riconoscimento della responsabilità sociale d’impresa come modalità gestionale volta a coniugare gli obiettivi di crescita e sviluppo sostenibile, da un lato, e come volano per permettere l’introduzione di importanti novità anche in relazione ad altre normative, strettamente connesse a quella oggetto di questo contributo (si pensi al Piano d’azione nazionale sulla Responsabilità sociale d’impresa o il Rating della legalità).