Una “sentenza terremoto” che suscita qualche perplessità

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Il 22 ottobre 2012 il giudice del Tribunale de L’Aquila ha letto il dispositivo della sentenza sul terremoto che colpì il capoluogo abruzzese nell’aprile del 2009. Sebbene le motivazioni si conosceranno solo entro il 22 gennaio 2013, si può già parlare prima facie di una sentenza che ha provocato un terremoto politico-istituzionale-sociale, e che è destinata a far discutere sulle regole della prevenzione.

Son passati quasi tre mesi dal dispositivo della sentenza relativa al terremoto de L'Aquila, e fra non molto dovrebbe essere depositata la sentenza.

In attesa di leggere il testo della sentenza,  oggi voglio parlarvi, comunque, di cos'è successo in quel periodo, perchè le cose dette allora valgono anche oggi, visto che nel nostro Paese tutto scorre immobile (tranne i fiumi e i torrenti che ogni anno, verso fine ottobre-primi di novembre, provocano qualche disastro lungo lo stivale, sic!).
Perchè da noi funziona così: tutti a gridare al lupo al lupo quando il danno ormai è fatto, ma con l'accortezza di non dimenticarsene subito dopo, quando dovrebbero far tesoro degli errori per cercare di prevenirli, i danni.
E a volte capita che i giudici, in una sorta di smania di protagonismo (per chi è in mala fede) o di eccesso colposo di giustizia(lismo?) (per chi invece è in buona fede), pronuncino sentenze "un po' originali", come direbbe Fabrizo De Andrè....

Pubblico perciò sulle pagine del blog un articolo che ho scritto all'indomani della lettura del dispositivo, e pubblicato il 24 ottobre 2012 su “Il Quotidiano IPSOA. Professionalità quotidiana”.

Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza sul terremoto de L'Aquila dell’aprile del 2009, di cui il 22 ottobre 2012, dopo cinque ore di camera di consiglio, è stato enunciato in quasi dieci minuti di lettura concitata il “solo” dispositivo: ma si può già parlare prima facie di una sentenza che ha provocato un terremoto politico-istituzionale e sociale forse addirittura peggiore del primo, perché non ha fatto giustizia delle tante, troppe morti di quel giorno d’aprile di tre anni e mezzo fa.
Una sentenza destinata a far discutere sulle regole di pre-venzione, che in un sistema giuridico, degno (o almeno dignitoso) ed autorevole, dovrebbero pre-esistere (specie in quei settori – come quello della protezione civile/terremoti – in cui pre-vedere con pre-cisione un evento è ancora molto difficile, se non impossibile) per pre-venire e pre-cludere il verificarsi di eventi catastrofici, come quello de quo, ma che nel Belpaese sono:
  • annacquate (quando esistono) da pre-giudizi (troppe regole e troppi allarmismi fanno fuggire gli investimenti, e deprimono l’opinione pubblica, si sente dire, con tono sussiegoso, quando le cose vanno bene);
  • frammiste (e confuse) a pre-monizioni (valutate però ex-post, quando quegli stessi eventi, che si escludevano con una malcelata sufficienza, si sono ormai verificati) e, per questi motivi,
  • incapaci di far fronte alle reali emergenze, causate anche da “eventi pre-terintenzionali” (come se il terremoto – visto con gli occhi di chi, dopo non aver adottato, sbertucciandole, le regole minime di prevenzione, si lamenta della loro mancata pre-disposizione – avesse un’intenzione, e fosse dunque pre-vedibile da quegli esperti allora sminuiti e oggi chiamati a rispondere della loro “monumentale negligenza” che portò ad un “difetto di analisi del rischio”.
L’accusa nei confronti degli allora presidenti della Commissione Grandi Rischi e dell’INGV e dell’allora vicecapo della Protezione Civile, dei direttori del servizio sismico del Dipartimento della Protezione Civile, del centro nazionale terremoti e di Eucentre, e del professore di fisica dell’Università di Genova era di omicidio colposo, disastro e lesioni gravi, per aver fornito rassicurazioni alla popolazione aquilana, in una riunione avvenuta solo una settimana prima del sisma. Lo stesso periodo in cui, a onor della cronaca, un tecnico di ricerca, che studiava il radon come precursore sismico, inascoltato aveva lanciato l’allarme per un terremoto che, peraltro, avrebbe dovuto produrre i suoi danni a decine di chilometri di distanza. In attesa delle motivazioni, si può dire che il giudice:
  • ha condiviso le conclusioni della requisitoria del pubblico ministero, che ha parlato di una “monumentale negligenza” che portò ad un “difetto di analisi del rischio […] Una valutazione […] approssimativa, generica e inefficace, sia in relazione all’attività della Commissione sia ai doveri di prevenzione e previsione, che ha portato gli scienziati a fornire, dopo la famosa riunione, informazioni imprecise, incomplete e contraddittorie sulla pericolosità dell’attività sismica, vanificando le attività di tutela della popolazione”,
  • andando oltre alle richieste del PM (sei anni di reclusione, mentre il PM nella requisitoria aveva chiesto una condanna a quattro anni), e
  • condannando gli imputati alla provvisionale nei confronti delle parti civili di complessivi 7,8 milioni di €, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Oltre alle reazioni comprensibili di chi, nella penosa vicenda de qua, ha perso dei familiari; a quelle frettolose di chi afferma che “le cose stanno andando per il verso giusto”; a quelle sconsolate di chi è conscio che, pur mettendo in qualche modo in pre-allerta le istituzioni, non c’è sentenza che possa ripagare qualcuno di quanto accaduto, e a quelle sbalordite dei diretti interessati, ancora una volta destano sconforto quelle divergenti dei politici, che sembrano più impegnati a fare dei distinguo ideologici (pro o contro la magistratura, secondo il consueto modello che vede contrapposti chi considera la sentenza folle o strana e un po’ imbarazzante a chi cerca di minimizzare, banalizzando “che le sentenze vanno sempre rispettate e la giustizia deve fare il suo corso”) piuttosto che interrogarsi – questo dovrebbe essere il loro principale ruolo – su ciò che ha realmente condotto alla catastrofe di quelle dimensioni.
Il risultato di tali affermazioni è quello di sviare l’attenzione dalle reali responsabilità dell’accaduto, al di là di quelle di chi oggi è stato condannato, colpevole forse, ad avviso di chi scrive, di un eccesso di parole troppo rassicuranti, che se possono indurre i cittadini coinvolti a sottovalutare più del dovuto l’emergenza potenziale, difficilmente possono però valere una condanna per omicidio colposo.
Le responsabilità di chi, con pre-ssappochismo ha governato e amministrato negli anni passati, chiudendo un occhio (e guardando altrove con l’altro) nei confronti di comportamenti pre-giudizievoli, quali sicuramente sono stati quelli volti a realizzare fabbricati di ogni genere e fattezza in zone sismiche senza il rispetto delle norme basilari per scongiurare i pericoli e di quelle urbanistiche.
Oltre alla condanna (che chi scrive considera) spropositata, e al di là delle negligenze e della cattiva “comunicazione” dei potenziali pericoli che allora si correvano, la sentenza può avere delle conseguenze particolarmente dannose:
  1. innanzitutto, è possibile (e anche probabile) che l’opinione pubblica possa essere indotta a pensare – da una certa politica – che i terremoti si possono (perché si devono) prevedere, quando invece la letteratura scientifica internazionale da sempre ribadisce che “è impossibile prevedere in maniera deterministica un terremoto. Di conseguenza, chiedere all’INGV di indicare come, quando e dove colpirà il prossimo terremoto non solo è inutile, ma è anche dannoso perché alimenta in modo ingiustificato le aspettative delle popolazioni interessate da una eventuale sequenza sismica in atto” (INGV);
  2. in secondo luogo, si corre il rischio di compromettere il diritto-dovere degli scienziati di partecipare al dialogo pubblico, comunicando i risultati delle proprie ricerche al di fuori delle sedi scientifiche, nel timore di subire una condanna penale. A conferma di tale timore, oggi (23 ottobre 2012) si è dimessa la Commissione grandi rischi. Corollario di tale pericolo, il proliferare di “santoni e divinatori, che nel nostro paese abbondano” (TOZZI), al posto di scienziati che difficilmente appariranno in pubblico, sapendo di poter finire in carcere per omicidio colposo, come nel caso de quo, o per procurato allarme;
  3. il procurato allarme, infatti, costituisce l’altra (opposta) “valvola di sfogo”, per giustificare, al contrario, l’eccessivo ricorso ad evacuazioni che, rebus sic stantibus, si può ipotizzare che aumenteranno nel futuro prossimo (le fantomatiche inondazioni “previste” per Roma solo qualche giorno fa rientrano in questa logica di strisciante, preoccupante ed ingiustificato allarmismo);
  4. infine, la sentenza è in grado di condizionare in modo determinante il rapporto fra esperti scientifici e decisori politici.
In questi termini si tratta di una sentenza (terremoto) politica, anche e soprattutto perché non si sono prese in considerazione le responsabilità politiche nazionali e locali, e il loro ruolo all’indomani della riunione della Commissione: come sottolineato dalla difesa, “la responsabilità degli scienziati era quella e soltanto quella di fornire un quadro chiaro a chi poi doveva decidere e comunicare le decisioni alla popolazione”.
L’unica, reale, concreta e perseguibile strada da percorrere per mitigare il rischio sismico, o quanto meno limitarne i danni, consiste nella costante opera di pre-venzione, di InFormazione, di educazione della popolazione: l’INGV sottolinea che, in questo quadro, “le istituzioni scientifiche, la protezione civile e le amministrazioni locali devono svolgere, in modo coordinato, ognuna il proprio ruolo”.
Nel nostro Paese, invece, in luogo di una consapevole ed accettata pre-venzione, con la PRE maiuscola, esiste una “cultura” fondata, per utilizzare un “gioco di parole”, su altri suffissi:
  • un diffuso pre-ssappochismo ex ante, che ha portato a non pre-venire, a chiudere gli occhi nei confronti di comportamenti pre-giudizievoli, a legiferare alla stregua di un pre-stigiatore che, fra deroghe, condoni, sanatorie e decretazioni d’urgenza ha spianato la strada, la pre-messa
  • dell’attuale, pre-vedibile, schizofrenico, sentimento (ex post) di chi ritiene sufficiente individuare dei capri espiatori “perché giustizia sia fatta” (“sentimento” pre-meditato da quei campioni di “innocenza comportamentale” che all’indomani del terremoto ridevano al telefono, pre-gustando lauti guadagni). 
La sentenza del Tribunale de L’Aquila – “con la quale l’Italia finalmente si allinea con gli altri Paesi del mondo dove gli scienziati vengono condannati da tribunali teocratici e il terremoto considerato un castigo divino” (TOZZI) – appare in linea con tale pre-testuoso modo di ragionare, “assolutamente incomprensibile da un punto di vista scientifico, e profondamente diseducativo”, ma valido quando si vuole perpetrare lo scaricabarile, in uno Stato comatoso di perenne emergenza.
Uno Stato che “si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. L’unica emergenza che bisogna affrontare è quella del cambiamento di paradigma mentale: un terremoto di coscienze, insomma. Ma anche questo terremoto sembra, allo stato, alquanto imprevedibile…