Vi ricordate della pubblicità in cui, una mattina, dopo una notte di festa in casa di chissà chi, Camilla si alza e rumorosamente si appresta a preparare la colazione, svegliando un impaurito ragazzo che, dopo i bagordi della sera prima, era rimasto a dormire sul divano? I due non si conoscono, ma erano entrambi alla festa, ma poco importa, tant'è che lui, con una studiata ingenuità, fa la battuta finale, quella che da più di dieci anni ancora ricordiamo: "ma poi, 'sta festa, di chi era?"
Allo stesso modo, ci domandiamo un po' tutti, da qualche mese a questa parte, "Ma poi, 'sto Moody's, (di) chi è?", aggiungendo alla mia innata curiosità: "ma che vole?" e, soprattutto, "chi gli ha concesso tutto questo potere?". Lì per lì, infatti, rimuginavo fra me e me, sentendo per la prima volta nomi come Moody's, e delle altre agenzie di rating, frasi come "non mi importa", "chi saranno mai!".
E invece no, importa eccome, se nel tempo hanno determinato le sorti di Paesi, società, aziende, borse, banche, e via discorrendo, in un crescendo rossiniano in cui hanno messo bocca su tutto, ma proprio su tutto, prendendosi la libertà (o il lusso?) di effettuare downgrade (questo uso eccessivo di anglismi mi ricorda invece la pubblicità dove un erede di Tognazzi si mette a fare un improvvisato rapper de noatri) di ciò che ritengono "pericoloso". Pericoloso per chi? E per quali motivi?
Perché una società privata può avere così tanta importanza nel mondo moderno?
Di recente Moody's è intervenuta in materia di rinnovabili, il cui boom negli ultimi mesi ha cominciato a mostrare qualche segno della loro intrinseca (e contingente) debolezza, connessa alla mancata programmazione politico-normativa: oltre alle problematiche giuridiche, il punctum dolens ha riguardato i diversi sistemi di incentivazione, le carenze infrastrutturali e la naturale non programmabilità delle rinnovabili. In ogni caso, le rinnovabili hanno costretto i produttori di energia da fonti convenzionali a reagire alla loro concorrenza, in parte positiva, al netto delle speculazioni che ci sono state. Prova ne è il recente declassamento di ENEL effettuato da MOODY'S...
Qualche giorno fa è stato pubblicato un articolo a mia firma, sull'argomento, sul sito di IPSOA, che vi invito a leggere ("Moody's e il downgrade delle oligarchie energetiche convenzionali"). Qui mi limito a qualche breve riflessione. MOODY’S, in estrema sintesi, vuol evidenziare una parte del cambiamento del paradigma energetico: ENEL fa parte di quelle imprese che, un tempo, erano considerate “stabili”, ma che ora stanno progressivamente perdendo certezze e si vedono costrette a modificare i propri business-plans, specie in quei settori dove, per “scarsa lungimiranza” si sono investiti negli ultimi anni qualcosa come 25 miliardi di euro (cicli combinati a gas).
Come se la “stabilità” – si può leggere fra le righe – di per se stessa fosse, da sola, in grado di garantire il migliore interesse generale, e non, al contrario, soltanto quello dell’oligarchia energetica che ha dominato incontrastata nei decenni passati.
Il rapporto dell'agenzia di rating sul settore energetico, in sostanza, si limita a “scoprire l’acqua calda” della crisi del settore termoelettrico, "messa alla prova" da un settore che, sia pure con i suoi limiti (che è necessario e doveroso “aggiustare”):
- sta contribuendo (e potrà farlo ancora di più in futuro, se opportunamente “gestito”) alla crescita pro quota sostenibile del nostro Paese,
- oltre ad essere stato (e continuare ad esserlo) uno dei pochi traini dell’economia asfittica degli ultimi anni.
Per “limitare i danni”, i produttori di “energia convenzionale” hanno agito sui prezzi.
Per porre un freno alla concorrenza, invece, gli stessi si stanno opponendo allo sviluppo dei sistemi di accumulo dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, che potrebbero penalizzare ulteriormente i prezzi di picco, incrementando la competitività delle rinnovabili ed emarginando ancor più la produzione termoelettrica.
Una mano ai produttori di energia da fonti convenzionali – come ha sottolineato anche MOODY’S nella sua relazione – arriva, inoltre, da molti Stati europei, che stanno “prendendo in considerazione l’introduzione di sistemi di capacity payments” per consentire ai produttori di energia termoelettrica di rimanere “online”, grazie alla remunerazione di certi impianti per la potenza messa a disposizione, anziché solamente per l’energia prodotta: il fulcro del discorso ruota attorno alla non programmabilità delle rinnovabili, che rende i meccanismi di capacity payments “essenziali per affrontare la sicurezza del sistema di trasmissione dell’energia, anche se i politici saranno cauti nell’addossare ai consumatori costi aggiuntivi in bolletta”.
Il problema, in sostanza, si sposta sempre, da qualunque angolo visuale lo si voglia vedere, sul consumatore finale: tant’è che, neanche fra le righe, ma scritto nero su bianco, si legge che, secondo MOODY’S (non: secondo i malpensanti) il meccanismo di capacity payment “would be credit positive for MOODY’S rated utilities, although their timing and structure remains uncertain”.
Non si parla, cioè di “benefici collettivi”: infatti, ci sarebbe soltanto
- un’ulteriore “privatizzazione degli utili” (intesi nell’accezione di benefici) e
- una “socializzazione delle perdite” (non solo in termini di costi sui consumatori – la cautela dei politici è più paventata che reale – ma anche in termini di dissoluzione di parte dei benèfici effetti della concorrenza),
Continuando ad ammantare (e a permettere di farlo) di sostenibilità concetti ed azioni decontestualizzati e volti alla (parziale) risoluzione di problemi specifici, invece che cominciare a porre le basi per il raggiungimento – per il tramite di una politica coordinata, integrata, lungimirante ed autorevole – delle molteplici sostenibilità e degli interessi generali, non si fa altro che rimandare la soluzione ad un futuro più o meno lontano, facendo finta, nel frattempo, di aver ottenuto chissà quale risultato per “il rilancio dell’economia”.
Le problematiche, senza girarci tanto intorno, si conoscono, così come si conoscono le (sempre indigeste, per qualcuno) medicine, con le quali risolverle: rimandare la decisione di prenderle (le “medicine”), significa, in ultima analisi, perpetrare lo status quo conservatore di chi ha tutto da guadagnarci (o,comunque, tutto da non perderci).
Così facendo, però, si fanno (male) i conti senza l’oste: oste che un domani, neanche troppo lontano, potrebbe avere le sembianze non del nostro (autonomo ed autorevole) legislatore, e neanche della “solita” emergenza (comoda scusa per giustificare terapie d’urto di ogni sorta), ma di qualche altro Stato, non necessariamente della vecchia Europa.