L’art. 674 del c.p. (getto pericoloso di cose) ha sempre rappresentato un valido strumento per la lotta all’inquinamento atmosferico, anche in seguito all’emanazione del D.P.R. n. 203/88.
All’indomani dell’entrata in vigore del c.p., l’art. 674 veniva applicato solo in caso di trasgressione delle prescrizioni imposte dalla legge o dalla P.A. – al fine di non turbare le prospettive di crescita economiche di allora – ma, con il passare degli anni, i giudici ne hanno ampliato la portata applicativa, sottolineando la primaria importanza di tale contravvenzione contro la pubblica incolumità, posta come baluardo della tutela della tranquillità dei cittadini e del loro interesse a non essere sottoposti a preoccupazione o allarme in relazione alla salute.
In sostanza, il reato di getto pericoloso di cose ha assunto un vero e proprio ruolo di supplenza nella tutela dell'ambiente rispetto all'inquinamento atmosferico.
I motivi per i quali, nel corso degli anni, si è assistito ad una progressiva estensione del campo di applicazione dell’art. 674 del c.p., sono da rinvenire, essenzialmente:
- nella cronica mancanza di una normativa capace di indirizzare in modo univoco gli operatori del settore, e
- nella deficitaria azione di controllo, puntuale e continua, volta a rendere effettivo e credibile il ruolo della P.A. a tutela dell’ambiente e della salute dell’uomo
Anche oggi, nonostante l’entrata in vigore del c.d. Testo Unico Ambientale – con il quale si sarebbe dovuto, inter alia, riordinare la normativa in materia di tutela dell'aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera – l’art. 674 del c.p. pare rimanere la norma di più immediata ed efficace applicazione nella lotta contro tutte le forme di attività industriali inquinanti.
Con il Testo Unico Ambientale, in particolare, nulla è cambiato nell’apparato sanzionatorio, che non solo non è stato coordinato né integrato, ma continua a non essere improntato al principio della dissuasività.
Le violazioni (di carattere formale) sono sanzionate con contravvenzioni oblazionabili (l’arresto, infatti, è sempre considerato alternativo all’ammenda…) identiche a quelle previste, quasi vent’anni fa, dal DPR 203/88…: la loro irrisorietà conferma l’inadeguatezza del sistema a garantire un’efficace tutela.
Di recente, questa tesi è stata avvalorata dall’articolata sentenza del Tribunale di Rovigo-Sezione di Adria del 31 marzo 2006 (ben 322 pagine, depositata in data 22 settembre 2006), con la quale sono stati condannati i vertici dell’Enel – e due direttori della centrale di Porto Tolle – in relazione ai reati di getto pericoloso di cose (art. 674 c.p.), danneggiamento aggravato (art. 635 c.p.) e peggioramento temporaneo delle emissioni (artt. 13, comma 5 e 25, comma 7, del D.P.R. n. 203/88).
La scoordinata frammentarietà della disciplina, lasciata irrisolta dal T.U.A., fa sì che la gestione integrata delle differenziate fonti di inquinamento atmosferico continui ad essere…tramandata al futuro legislatore!
E, in questa situazione la tutela dell’aria (e della salute dell’uomo) è stata spesso:
- “delegata” alla decretazione d’urgenza, inidonea, in quanto tale, a risolvere il problema alla radice, o
- “affidata”, appunto, al solo art. 674 c.p., che la giurisprudenza ha utilizzato come passepartout per cercare di “tappare le falle” dell’impianto normativo, tanto da arrivare ad affermare, come nella cit. sentenza, che la sola presenza attiva della centrale, che emette fumi visibili e di notevoli dimensioni, è sufficiente a creare allarme, e a giustificare l’applicazione dell’art. 674 del c.p.
Ma al di là delle perplessità suscitate da quest’ultima affermazione, tale sentenza ha avuto il pregio di porre l’accento sugli aspetti problematici sopra evidenziati, e di sottolineare, con forza, l’incapacità del sistema di far fronte alla drammatica complessità dei problemi, derivanti dall’inquinamento atmosferico, inerenti la tutela della salute dell’uomo e dell’ambiente.
Un sistema che è reso ancora più complicato dalle “grandi distanze” fra gli interessi delle rilevanti entità economiche e politiche, da un lato, e quelli dei singoli cittadini dall’altro che, in un processo delle dimensioni di quello di Porto Tolle, rendono ancora più evidente l’incomunicabilità fra le posizioni contrapposte e “la sproporzione fra le capacità di attività degli uni e degli altri, che si muovono secondo logiche e in contesti diversi e – appunto – incomunicabili”.
Tale mancanza di dialogo è suggellata dall’amara constatazione “di come la perdurante accettazione sociale, politica ed economica di grandi siti inquinati in ragione della salvaguardia del posto di lavoro sia stata ingannevole e si sia svelata, nel tempo, come un compromesso sbagliato […] ed abbia distorto la realtà creando una situazione di grave connivenza tra controllore e controllato, quasi una perversa simbiosi, tale da allentare qualsiasi forma efficiente di monitoraggio ambientale”.
Il perdurante caos normativo e l’obsolescenza dei suoi strumenti, l’assoluta incomunicabilità fra posizioni contrapposte, unite alla mancanza di una seria politica energetica, hanno, quindi, creato un clima di assoluta incertezza, cui il Giudice tenta di porre rimedio “come può”, con gli strumenti a sua disposizione.
>Nelle conclusioni – dopo aver sottolineato l’“inaccettabile stortura” del nostro sistema, che pretende di “far passare per un processo penale un periodo così vasto di inefficienze amministrative, omissioni legislative, ambiguità politiche e industriali, […] peso quasi insostenibile per un giudice solo” – è lo stesso Giudice che riconosce di aver cercato “l’impossibile sintesi di eventi troppo grandi e complessi”…
(continua con Il ruolo della Regione nel Testo Unico Ambientale)