L'evoluzione del danno ambientale nella politica europea (4)

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Nel precedente post l’analisi dell’evoluzione della politica della Comunità europea in materia di danno ambientale si è soffermata sulla prima fase della “terza tappa”, quella che va dall’Atto Unico Europeo fino al Trattato di Maastricht.

Oggi ci soffermeremo sulla seconda parte, che comincia nel 1991, allorquando la Commissione presentò al Consiglio un nuovo testo dell'originaria proposta, con la quale si introdussero alcune novità, senza che peraltro si allargasse, nel complesso, il campo di applicazione.

In estrema sintesi, le maggiori novità introdotte riguardarono:
a) il produttore di rifiuti, che venne qualificato in riferimento all'esercizio di attività commerciale o industriale;
b) la ricognizione del bene su cui deve incidere l'attività illecita.
Si preferì lasciare cadere il riferimento testuale all'acqua, all'aria e al suolo, mentre il deterioramento rilevante fu riferito puramente e semplicemente all'ambiente, di cui, peraltro, non si fornì una definizione.


La c.d. Convenzione di Lugano del 1993 intervenne in un trend internazionale in evoluzione, e apparve subito come la regolamentazione più organica della responsabilità civile per danni alle cose, alle persone e all'ambiente.
Innanzitutto venne introdotta, per la prima volta, una definizione giuridica espressa di ambiente, le cui componenti fondamentali comprendevano non solo le risorse naturali (biotiche, abiotiche e paesaggistiche) suscettibili di danno, ma anche l'interazione fra le medesime, nonché il paesaggio e il patrimonio culturale.
La Convenzione prese in considerazione le attività pericolose, esercitate professionalmente, che ponevano in essere un rischio significativo per l'uomo, l'ambiente e la proprietà: si assistette, così, ad un allargamento della garanzia dei beni protetti, e l'ambito di applicazione delle prescrizioni sulla responsabilità civile ebbe un'estensione notevolmente più rilevante di quella definita di volta in volta dagli accordi internazionali.

La responsabilità, gravante su chi esercita il controllo (effettivo) dell'attività, si fondava sul nesso causale fra attività e danno.
Il bene-ambiente era riparabile attraverso misure preventive di salvaguardia e di rimessa in ripristino, anche per equivalente, nel caso in cui fosse impossibile la restitutio in integrum.
Venne, però, esclusa la risarcibilità monetaria, quando le indicate misure fossero tecnicamente impossibili.


Venne riconosciuta la legittimazione al giudizio alle associazioni ambientaliste, che potevano chiedere al giudice, oltre alle misure di prevenzione o ripristino, anche l'interdizione di un'attività economica esercitata illegittimamente che costituisse una minaccia grave di danno all'ambiente.

Infine, venne rimessa alla legislazione nazionale degli stati sia la determinazione di un tetto o limite massimo della responsabilità per tipologia di danno, sia la previsione di un obbligo di assicurazione, o di garanzia finanziaria, come requisito necessario per ottenere autorizzazioni all'esercizio delle attività.

Nello stesso anno la Commissione CEE pubblicò un Libro Verde sulla responsabilità civile per danno all'ambiente, che esaminò l'utilità della responsabilità civile quale mezzo adatto per imputare la responsabilità per costi legati al risanamento ambientale.

La Comunità, partendo dalla constatazione della diversità delle varie legislazioni nazionali, sentì l'esigenza di procedere nel senso di uniformare le disposizioni esistenti in materia nei vari Stati membri, al fine di perseguire l'uniformità di tutela e di comportamenti all'interno della Comunità.

La Commissione riconobbe la responsabilità civile quale strumento per imporre standard di comportamento - in sostanza, come strumento preventivo nella disciplina del danno all'ambiente, per la realizzazione del principio "chi inquina paga" - e come mezzo per obbligare coloro che causano l'inquinamento a sostenere i costi del danno conseguente.

Le tre linee fondamentali sulle quali si radicava la proposta furono individuate:
a) in un regime generale fondato sulla colpa,
b) in un regime speciale (per le attività a rischio aggravato) ancorato sulla responsabilità oggettiva e
c) in un fondo di indennizzo per danni non imputabili a soggetti individuati, alimentato con i contributi dei settori economici interessati e gestito nel rispetto del principio di sussidiarietà.

Nel complesso, tuttavia, il Libro Verde apparve "datato" rispetto alle soluzioni codificate dal Consiglio d'Europa sulla responsabilità per danno all'ambiente da attività pericolose che svolse un ruolo di salvagente rispetto alle indicazioni assai timide della Commissione.

(continua)