A distanza di un mese esatto dalla “semplice” dichiarazione della non incostituzionalità della legge n. 231/2012 sulla questione ILVA di Taranto, meglio nota come “salva ILVA”, riassunta in uno scarno comunicato pubblicato sul sito della Corte Costituzionale, nella tarda serata di giovedì 9 maggio 2013 è stata pubblicata sul sito della Consulta la sentenza n. 85/2013, nella quale sono contenute le motivazioni della decisione, fondate sulla ricerca costante di un “ragionevole bilanciamento” fra interessi contrapposti, figli di diritti costituzionali fondamentali (salute, ambiente, lavoro) nessuno dei quali può ergersi (o essere eretto) come prevalente rispetto agli altri.
Nel comunicato si leggeva che la decisione era stata deliberata, tra l’altro, “in base alla considerazione che le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull’accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall’inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell’autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento”.
Per un approfondimento, vi rimando all'articolo pubblicato venerdì scorso sul sito de "Il Quotidiano IPSOA - Professionalità quotidiana".
Qui vi voglio riportare la massima relativa al bilanciamento fra diritto alla salute, all'ambiente e al lavoro.
Il bilanciamento fra la tutela della salute, del lavoro e dell’ambiente costituisce il nucleo centrale della sentenza.
La ratio della normativa censurata, sottolinea la Consulta, consiste nella realizzazione di un “ragionevole bilanciamento” tra i diritti evocati, che si trovano – come tutti i diritti fondamentali tutelati in Costituzione, “in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri.
La tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro”, perché se così non fosse “si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”.
Per questi motivi, la Corte Costituzionale non ha condiviso gli assunti del GIP rimettente, in base ai quali:
- l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Infatti, neanche la definizione, elaborata dalla stessa Consulta, dell’ambiente e della salute come valori primari implica una rigida gerarchia tra diritti fondamentali: “la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principî e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come primari dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”;
- la norma censurata “annienterebbe completamente il diritto alla salute e ad un ambiente salubre a favore di quello economico e produttivo”. Il punto di equilibrio che si “condensa” nell’AIA – atto di natura amministrativa, ed in quanto tale sottoposto a tutti i rimedi previsti dall’ordinamento per la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi davanti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa – diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni (i controlli, di cui sopra), deputati a porre rimedio all’eventuale inefficacia delle prescrizioni e delle misure ivi contenute. Nel caso di specie, evidenzia con forza la Consulta, la norma censurata parte proprio dalle criticità della prima AIA, che hanno condotto all’emanazione di una seconda AIA “riesaminata”, che indica un nuovo punto di equilibrio, che consente la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere, anche con investimenti straordinari da parte dell’impresa interessata, le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni. Un equilibrio che “non è necessariamente il migliore in assoluto – essendo ben possibile nutrire altre opinioni sui mezzi più efficaci per conseguire i risultati voluti – ma deve presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale competente; all’individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla pubblicità dell’iter formativo, che mette cittadini e comunità nelle condizioni di far valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche giudiziari, nelle ipotesi di illegittimità, i loro punti di vista”. In ogni caso, non rientra fra le competenze della Corte Costituzionale quella riassumibile nel concetto di “riesame del riesame” sul merito dell’AIA, sul presupposto che “le prescrizioni dettate dall’autorità competente siano insufficienti e sicuramente inefficaci nel futuro”, perché le opinioni del giudice, anche se fondate su particolari interpretazioni dei dati tecnici a sua disposizione, non possono sostituirsi alle valutazioni dell’amministrazione sulla tutela dell’ambiente, rispetto alla futura attività di un’azienda, attribuendo in partenza una qualificazione negativa alle condizioni poste per l’esercizio dell’attività stessa, e neppure ancora verificate nella loro concreta efficacia.
Fatte queste premesse, la Consulta conclude affermando che “la combinazione tra un atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1 del d.l. n. 207 del 2012) determina le condizioni e i limiti della liceità della prosecuzione di un’attività produttiva per un tempo definito, in tutti i casi in cui uno stabilimento – dichiarato, nei modi previsti dalla legge, di interesse strategico nazionale – abbia procurato inquinamento dell’ambiente, al punto da provocare l’intervento cautelare dell’autorità giudiziaria. La normativa censurata non prevede, infatti, la continuazione pura e semplice dell’attività, alle medesime condizioni che avevano reso necessario l’intervento repressivo dell’autorità giudiziaria, ma impone nuove condizioni, la cui osservanza deve essere continuamente controllata, con tutte le conseguenze giuridiche previste in generale dalle leggi vigenti per i comportamenti illecitamente lesivi della salute e dell’ambiente. Essa è pertanto ispirata alla finalità di attuare un non irragionevole bilanciamento tra i principî della tutela della salute e dell’occupazione, e non al totale annientamento del primo”.