“Hanno tutti ragione”: chissà qual è l’immagine cui ha pensato Paolo Sorrentino, quando ha scelto il titolo al suo romanzo d’esordio.
“Hanno tutti ragione” è la sensazione che ho provato leggendo, incredulo, i titoli dei giornali il giorno dopo queste elezioni regionali del 2010 Anche se, a pensarci bene, si tratta di una sensazione cui dovremmo essere abituati, grazie al martellamento di Stato cui siamo quotidianamente sottoposti.
Hanno tutti ragione: i vincitori, i vinti (se qualcuno di voi li conosce…), quelli che si sono astenuti, quelli che hanno protestato, quelli che lo hanno fatto a modo loro, quelli che tifano, quelli che non tifano. Quelli che tifavano. Quelli che sono delusi. Quelli che si fregano le mani. Quelli che basta aver la pancia piena. Quelli che…o sei mio amico, o ti "sdrumo". Quelli che…ne vedremo delle belle.
Non voglio fare il verso alla canzone di Iannacci.
Ma sta di fatto che, come al solito, tutti hanno vinto, e nessuno si assume la responsabilità delle proprie azioni, né delle proprie omissioni.
E così i comunisti (sì, dai, quegli snob fighetti un po’, ma solo un po’, eh, autoreferenziali quanto basta, azzeccagarbugli per professione, martiri per vocazione. il PD, partito democratico, insomma) che hanno perso ben quattro regioni, rispetto alle precedenti elezioni, hanno comunque vinto, perché hanno conquistato ben sette regioni contro le sei degli avversari.
Averne perso quattro, tra le quali quelle più densamente popolate, e produttive del paese, pare essere una quisquiglia, una svogliata, cavillosa constatazione di qualche irriducibile di qualche sottocorrente di minoranza, già pronta alla solita e sterile resa dei conti, o al limite degli elettori.
Che per questi saccenti strateghi contano quanto…diciamo che non contano, che facciamo prima.
Se qualcuno, una volta era comunista perché
perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopo domani sicuramente…perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no.perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
oggi, a queste condizioni, non sarà disposto a esserlo neanche per denaro.
E così il partito dell’amore (amore in una forma patologica, però: l’amore dei “bip” propri: il pdl) forse meno autoreferenziale perché populista, e perché fa leva solo sui bassi istinti, che ha vinto, come coalizione, ma ha visto svanire centinai di migliaia di voti, gongola e sbraita, richiamando l’attenzione sull’essenzialità della discesa in campo di Berlusconi contro le norme illiberali e formalistiche che imbavagliano (!?) la libertà.
Proclamando, in questo modo, una vittoria che tanto vittoria non è.
E lanciando anatemi contro gli alleati secessionisti (la lega di Bossi) che, invece, dati alla mano, sono gli unici che hanno vinto le elezioni, nella piazza di tutti i giorni.
E, volenti o nolenti, sono gli unici ad avere ragione, come illustra, con una lucidità che vorrei fosse patrimonio dei politici nostrani, Mario Calabresi nel suo editoriale “Le emozioni, la ragione e la realtà” (per un ulteriore approfondimento, vi consiglio vivamente di leggere l’articolo “La partita da giocare”, scritto con il cuore e con la mente da un ispiratissimo come al solito Ezio Mauro).
Certo, dovranno dimostrare di essere all’altezza, di essere migliori della melassa cui siamo abituati: melassa che, in ogni caso, non potrà mai essere combattuta con il semplice astensionismo (gli astenuti, un’altra categoria che rivendica la vittoria, quella contro la casta), sterile quanto inutile e, soprattutto, terreno fertile per chi disprezza la più elementare delle regole della democrazia: la condivisione.
Se mi mettessi a rinfrescare, in questa sede, anche le ragioni degli altri 8965 partiti che si sono presentati umilmente al cospetto degli elettori, ho come l’impressione che finirei con il ripetere un concetto trito e ritrito, unico patrimonio comune della fulgida classe politica italica: abbiamo vinto, e gli altri sono brutti cattivi, hanno l’alito pesante, sono ignoranti, anche burfaldini, tiè, e sfido chiunque a dimostrare il contrario (oddio, mi sembra di essere "Ecce gnomo"! Crozza lo imita da Dio…).
Dunque, se tutti hanno vinto, nessuno a perso, giusto?
Giusto e “logico”, in un paese che coltiva il proprio “particulare”, e non ha occhi né orecchi non dico per capire, ma almeno per ascoltare, le ragioni di un qualsiasi altro “particulare”…
Che si dia inizio alle feste e ai banchetti (per i politici i baccanali sono di serie), allora!
Ma a questa cena dei cretini non sarà presenta l’unico vero sconfitto.
Sconfitto perché meno illustre; meno illustre perchè meno blasonato; meno blasonato perché con meno "appeal"; con meno "appeal" perché più difficile da raggiungere, e soprattutto da mantenere.
Sto parlando del senso di appartenenza, offuscato da questo incomprensibile tifo da stadio, sguaiato o mascherato da finto perbenismo che sia.
Un tifo da stadio che ha esasperato ancora una volta, ancora di più, gli animi, allontanandoli da ogni forma di salvezza.
L'appartenenzanon è lo sforzo di un civile stare insiemenon è il conforto di un normale voler benel'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenzanon è un insieme casuale di personenon è il consenso a un'apparente aggregazionel'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
Uominiuomini del mio passatoche avete la misura del doveree il senso collettivo dell'amoreio non pretendo di sembrarvi amicomi piace immaginarela forza di un culto così anticoe questa strada non sarebbe disperatase in ogni uomo ci fosse un po' della mia vitama piano piano il mio destinoé andare sempre più verso me stessoe non trovar nessuno.
L'appartenenzanon è lo sforzo di un civile stare insiemenon è il conforto di un normale voler benel'appartenenzaè avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenzaè assai di più della salvezza personaleè la speranza di ogni uomo che sta malee non gli basta esser civile.E' quel vigore che si sente se fai parte di qualcosache in sé travolge ogni egoismo personalecon quell'aria più vitale che è davvero contagiosa.
Uominiuomini del mio presentenon mi consola l'abitudinea questa mia forzata solitudineio non pretendo il mondo interovorrei soltanto un luogo un posto più sincerodove magari un giorno molto prestoio finalmente possa dire questo è il mio postodove rinasca non so come e quandoil senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo.
L'appartenenzanon è un insieme casuale di personenon è il consenso a un'apparente aggregazionel'appartenenzaè avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenzaè un'esigenza che si avverte a poco a pocosi fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopoè quella forza che prepara al grande salto decisivoche ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momentiin cui ti senti ancora vivo.
Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi.
Giorgio Gaber
Foto: “ombre” originally uploaded by Liberty Place