Devo ammettere, persino con una punta di soddisfazione (era ora!), che il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta, questa volta ha fatto centro.
Vorrei sommessamente osservare che quello “della semplificazione”, forse, sarebbe più opportuno chiamarlo “Ministero dei semplicismi”, per il consueto, sbracato, disinvolto utilizzo di espressioni “colorite”, per così dire, e non consone al registro che dovrebbe essergli proprio, che l’attuale inquilino del dicastero distilla quotidianamente.
Come se ne sentissimo la necessità…
E invitare un qualsiasi onorevole dell’IdV a non contestare, a prescindere, qualsiasi cosa venga detta da un qualsiasi esponente del PdL: ogni tanto, qualcosa di concreto, di condivisibile, e di intelligente, per fortuna, lo dicono (anche?!) loro, quando si dimenticano, per un po’, di stare appresso alle perenni esigenze di un capo interessato quasi esclusivamente ai sondazzi propri...
La provocazione di Brunetta – quella di stabilire “per legge” che i nostri giovani bamboccioni devono lasciare la famiglia, compiuti i diciotto anni – infatti, mi sembra costituire un ottimo spunto per cominciare a parlare di un problema cruciale per il nostro paese (con la “p” minuscola, per restare in tema di provocazioni): la costruzione di un futuro.
Cominciare a parlare, questo è il problema.
Parlare invece che continuare a vomitarsi addosso le solite, vecchie, polverose, sterili, odiose, prevaricanti contrapposizioni ideologiche.
Come se servissero a qualcosa...a far crescere il paese, ad esempio, a proiettarlo in un futuro più vivibile dell’attuale, confuso, cinico, volgare e supponente presente.
Un paese, l’Italia, che – come sottolinea il pungente Gramellini – non conosce il senso dello Stato (semmai è lo Stato a far loro senso), ma si trastulla nel “senso della mamma”!
Un paesone (non una nazione”) in cui – come rileva, amaramente, Luca Ricolfi su “La Stampa” di oggi, 19 gennaio 2010, "Cari bamboccioni impreparati" – in cui neanche la classe politica (quella che dovrebbe rappresentare noi e i nostri interessi), autoreferenziale e permalosa, è in grado “di cogliere l’ironia, lo scherzo, l’umorismo, più in generale di capire in che registro avviene un discorso”.
E invece di affrontare – sia pure prendendo spunto dal paradosso brunettiano – un problema, forse il problema che sta alla base di tutti i nostri guai (la mancanza anche solo di un’idea del futuro), si trastulla in polemiche infantili o, meglio, bamboccione.
Il senso (deresponsabilizzante) della mamma, infatti, si accompagna, inevitabilmente, non solo con la preferenza per i comodi della vita familiare, ma anche con un (compiaciuto) deficit di responsabilità individuale, e con una preparazione, una cultura media così bassa da…così bassa da impedire di cogliere la brutta piega che stiamo prendendo, e la gravità di certe scelte che si perpetrano sotto i nostri occhi.
Sul palcoscenico immobile, immutabile, nel quale la “vita” viene scandita da bugie, silenzi, sopraffazioni, isterismi.
Dal nulla spacciato per modernità.
Scelte che, lungi dal rappresentare qualcosa di simbolico o marginale, influenzano la vita di tutti i giorni….
Ricolfi richiama gli esempi:
1. del concorso pubblico per vigili urbani (a Grosseto), nel quale nemmeno i laureati sono riusciti a superare decentemente le prove scritte;
2. del genitore condannato dalla magistratura a mantenere figli ultratrentenni che non trovano un lavoro «adeguato» (cioè quello sotto casa, ben pagato, con innumerevoli fringe benefits, non usurante, in cui ci sia poco da fare, senza impegnare il cervello, e magari pure con impiegate “carine”, in tutti i sensi…);
3. della crisi, un concetto reale ma – aggiungo io – usato a volte un po’ troppo a sproposito: ovverosia preso come pretesto, causa, scusa di tutti i mali, senza alcuna distinzione, senza immaginare anche i lati positivi (Gramellini, sempre lui, ha provato a guardarla da questo punto di vista: “Mi piace pensare che la crisi assomigli all’influenza: uno stato di malessere che prelude a un benessere meno isterico e più consapevole”).
Di esempi se ne potrebbero fare a milioni, e purtoppo nella pagine di Natura Giuridica ho dovuto, mio malgrado, affrontare questo tema in numerose occasioni, parlando delle infinite, perenni emergenze ambientali nel nostro paese, malato di solipsismo, incapace di scorgere un brandello di futuro, e bisognoso della figura indispensabile del padrone.
Ne cito uno su tutti, direi metaforico (dove stiamo andando?), che proprio ieri mi ha (di nuovo) creato degli inconvenienti (perdita di tempo, di denaro, di ore di lavoro, di contatti di lavoro): il problema trenitalia, ferrovie dello stato, su cui tutto si è detto, e su cui tutto il contrario si è fatto.
Questione trenitalia, dicevo, con tutti i suoi connessi ed annessi, e in particolare con quello che oggi sembra l’unico, vero problema del nostro paese: le grandi (forse sarebbe meglio dire: faraoniche) infrastrutture, quelle in grado di dare al nostro paese la spinta necessaria per affrontare le sfide del futuro, ma – a conti fatti – forse capaci solo di dare qualche spintarella…
Fra queste opere faraoniche rientra, a pieno titolo (e a pieni titoli di giornali) la TAV: treni ad alta velocità
Bene, benissimo, bis: siamo tutti d’accordo.
Ma su cosa?
Ma possibile che non si possa andare al di là degli slogan?
È mai possibile che le futuristiche, avveniristiche, fantasmagoriche opere non vengano pensate guardando un po’ a quello che (non) abbiamo?
Che gli inestricabili intrecci fra interessi economici, ambientali, sociali, ….vengano risolti con scelte dettate solo dalla convenienza contingente delle lobbies del momento?
Treni in perenne ritardo, quando ci sono. E anche quando sono (dovrebbero essere) veloci...
Treni fatiscenti, quelli che ci sono.
Treni bestiame, quelli che servono per i pendolari.
Treni di lusso, quelli che dovrebbero servire ai ricchi e riccastri, per permettere loro il perpetrarsi di lussi di casta.
Treni (per quanto veloci possano essere) e macchine che possono percorrere la distanza che separa Reggio Calabria da Messina in tempi incredibilmente accorciati; tempi che, tuttavia, non consentono, grazie alla mirabolante inutilità delle opere a ciò preposte, di recuperare i defatiganti ritardi accumulati su una rete autostradale pericolosa, lenta, intasata, ancora da ultimare, che si trova al di qua e al di là del ponte…
Per non parlare dall’arroganza, della supponenza, del bizantinismo con il quale il cliente, che chiede (almeno) il rimborso del maltolto, viene trattato.
E rispedito velocemente (in questo caso sì, l’efficientismo e la velocità sono rispettati…) da dove era venuto, con un freddo distacco, e la sensazione di essere stati presi in giro, ancora una volta, anche se più leggeri (nel portafogli…).
Ecco: vorrei che, una volta ogni tanto, cominciassimo a chiederci dove stiamo andando non con il tono scanzonato di Guzzanti (per quanto geniale), ma con “quelo” più prosaico di Renato Brunetta.
Altrimenti, il futuro, che fine fa?
Come dice un grande saggio: “mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco”.
Ecco: per avercelo nel sacco, il futuro, lo devi immaginare, cominciarlo a costruire.
A partire da un serrato, ma costruttivo dialogo, e da un confronto libero da dogmatismi, pregiudizi, immobilismi ideologici.
A meno che non vogliamo continuare ad essere bamboccioni: a patto, però, di non offenderci quando qualcuno ce lo fa notare.
Foto: “Raccoglitore di sabbia” originally uploaded by rbrambilla2009