(segue da)
Nella causa Arco Chemie la Corte ha enumerato una serie di elementi che possono indurre a considerare rifiuto un determinato materiale.
Nonostante alcuni di questi possano, in alcuni casi, rilevarsi utili, nessuno costituisce una prova irrefutabile.
1) Quando lo smaltimento è l’unico utilizzo possibile…
Ad esempio, abbiamo visto che se un materiale non ha alcun utilizzo e, quindi, deve essere smaltito, sembrerebbe ovvio considerarlo rifiuto fin dal momento della sua produzione.
Tuttavia, in alcuni casi – vuoi per ragioni ambientali, vuoi per motivi di sicurezza o di salute pubblica – è la legge stessa che vieta di riutilizzare un dato materiale, oppure obbliga il proprietario o il detentore a disfarsene o a recuperarlo come rifiuto mediante una procedura obbligatoria (un classico esempio è costituito dalla direttiva sullo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili, che contempla l'obbligo di disfarsi di un determinato materiale o di trattarlo come rifiuto).
Allo stesso modo, finché un materiale non soddisfa le norme stabilite per il suo utilizzo eventuale, occorre trattarlo come rifiuto.
Più complessa, invece, è la questione dei danni ambientali che un materiale può causare e quella inerente alle misure speciali da adottare a tutela dell'ambiente in previsione di un suo eventuale utilizzo.
Vi sono molti prodotti principali che possono anch'essi causare danni ambientali importanti e richiedono quindi misure di precauzione particolari.
Pur tuttavia, interpretando la definizione di rifiuto alla luce della posizione della Corte, il fatto che un sottoprodotto abbia un impatto ambientale maggiore di quello di un materiale alternativo o di un altro prodotto di cui funge da sostituto può influire, in situazioni in cui il raffronto è possibile e pertinente, sulla classificazione del materiale come rifiuto o meno.
La situazione opposta, ovvero l'assenza di rischi ambientali evidenti, non dimostra che un materiale non è un rifiuto: nella causa Palin Granit la Corte ha ritenuto che, pur essendo stato comprovato che il materiale in questione non rappresentava alcun rischio grave per la salute umana e per l'ambiente, tale certezza non costituiva un criterio tale da escludere la qualifica di rifiuto.
Questo ragionamento non fa una piega.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, degli inerti industriali scaricati in una zona non adibita allo scopo: tali materiali possono non costituire alcun rischio per l'ambiente o la salute umana, ma causano indubbiamente inconvenienti e devono pertanto essere considerati rifiuti.
Sempre in base a questo ragionamento, il fatto che una sostanza possa essere recuperata come combustibile, secondo modalità compatibili con le esigenze di tutela ambientale e senza subire un trattamento radicale, non significa che essa non sia un rifiuto…
La definizione di rifiuto è data proprio per garantire che i rifiuti siano effettivamente trattati in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale: dunque, neanche il luogo di deposito del materiale, e tantomeno la sua composizione, sono criteri da prendere in considerazione all'atto di stabilire se qualificarlo di rifiuto o meno.
Nell'estrazione del marmo, ad esempio, i residui di produzione possono avere una composizione del tutto identica a quella del prodotto principale ma, dal momento che sono destinati allo smaltimento, saranno comunque considerati rifiuti.
2) Il metodo di trattamento standard del materiale
In alcuni casi la destinazione di un materiale può costituire un forte indizio della sua natura: tuttavia la Corte di Giustizia ha sostenuto che non sempre l'operazione cui viene sottoposto un materiale (smaltimento o recupero) consente di di pronunciarsi sulla natura di un materiale.
Conclusione, anche questa, che non fa una piega: molti dei metodi di trattamento indicati negli allegati possono tranquillamente applicarsi ai rifiuti ma anche a prodotti (non è possibile, ad esempio, distinguere tra la combustione di un combustibile in quanto prodotto e quella di un residuo basandosi esclusivamente sul metodo di trattamento).
3) La percezione dell’azienda
La percezione del materiale come rifiuto può essere un indizio della sua natura di rifiuto, anche se occorre particolare attenzione nel fare affidamento a tale tipo di criterio, in quanto potrebbe indurre una certa negligenza nell'applicazione della legislazione sui rifiuti, favorendo le imprese che non sono al corrente dei loro obblighi legali o che cercano di sottrarvisi.
Trattandosi, inoltre, di un criterio puramente soggettivo, potrebbe dar luogo a concetti di rifiuto diversi a seconda degli Stati membri.
4) La riduzione della quantità di materiale prodotto
Infine, se un'azienda cerca di ridurre la quantità di materiale prodotto, si potrebbe logicamente desumere che il materiale in questione sia un rifiuto.
Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di una prova irrefutabile, perché un'azienda può cercare di variare le quantità prodotte per ragioni legate ai costi, ai prezzi e ai mercati, e – quindi – per motivi diversi da quello della riduzione del volume del materiale di cui si deve disfare.
Senza dimenticare che – applicando questo criterio alla lettera – alcune aziende potrebbero essere indotte a non adottare le politiche di prevenzione dei rifiuti.
(continua)
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Nella causa Arco Chemie la Corte ha enumerato una serie di elementi che possono indurre a considerare rifiuto un determinato materiale.
Nonostante alcuni di questi possano, in alcuni casi, rilevarsi utili, nessuno costituisce una prova irrefutabile.
1) Quando lo smaltimento è l’unico utilizzo possibile…
Ad esempio, abbiamo visto che se un materiale non ha alcun utilizzo e, quindi, deve essere smaltito, sembrerebbe ovvio considerarlo rifiuto fin dal momento della sua produzione.
Tuttavia, in alcuni casi – vuoi per ragioni ambientali, vuoi per motivi di sicurezza o di salute pubblica – è la legge stessa che vieta di riutilizzare un dato materiale, oppure obbliga il proprietario o il detentore a disfarsene o a recuperarlo come rifiuto mediante una procedura obbligatoria (un classico esempio è costituito dalla direttiva sullo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili, che contempla l'obbligo di disfarsi di un determinato materiale o di trattarlo come rifiuto).
Allo stesso modo, finché un materiale non soddisfa le norme stabilite per il suo utilizzo eventuale, occorre trattarlo come rifiuto.
Più complessa, invece, è la questione dei danni ambientali che un materiale può causare e quella inerente alle misure speciali da adottare a tutela dell'ambiente in previsione di un suo eventuale utilizzo.
Vi sono molti prodotti principali che possono anch'essi causare danni ambientali importanti e richiedono quindi misure di precauzione particolari.
Pur tuttavia, interpretando la definizione di rifiuto alla luce della posizione della Corte, il fatto che un sottoprodotto abbia un impatto ambientale maggiore di quello di un materiale alternativo o di un altro prodotto di cui funge da sostituto può influire, in situazioni in cui il raffronto è possibile e pertinente, sulla classificazione del materiale come rifiuto o meno.
La situazione opposta, ovvero l'assenza di rischi ambientali evidenti, non dimostra che un materiale non è un rifiuto: nella causa Palin Granit la Corte ha ritenuto che, pur essendo stato comprovato che il materiale in questione non rappresentava alcun rischio grave per la salute umana e per l'ambiente, tale certezza non costituiva un criterio tale da escludere la qualifica di rifiuto.
Questo ragionamento non fa una piega.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, degli inerti industriali scaricati in una zona non adibita allo scopo: tali materiali possono non costituire alcun rischio per l'ambiente o la salute umana, ma causano indubbiamente inconvenienti e devono pertanto essere considerati rifiuti.
Sempre in base a questo ragionamento, il fatto che una sostanza possa essere recuperata come combustibile, secondo modalità compatibili con le esigenze di tutela ambientale e senza subire un trattamento radicale, non significa che essa non sia un rifiuto…
La definizione di rifiuto è data proprio per garantire che i rifiuti siano effettivamente trattati in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale: dunque, neanche il luogo di deposito del materiale, e tantomeno la sua composizione, sono criteri da prendere in considerazione all'atto di stabilire se qualificarlo di rifiuto o meno.
Nell'estrazione del marmo, ad esempio, i residui di produzione possono avere una composizione del tutto identica a quella del prodotto principale ma, dal momento che sono destinati allo smaltimento, saranno comunque considerati rifiuti.
2) Il metodo di trattamento standard del materiale
In alcuni casi la destinazione di un materiale può costituire un forte indizio della sua natura: tuttavia la Corte di Giustizia ha sostenuto che non sempre l'operazione cui viene sottoposto un materiale (smaltimento o recupero) consente di di pronunciarsi sulla natura di un materiale.
Conclusione, anche questa, che non fa una piega: molti dei metodi di trattamento indicati negli allegati possono tranquillamente applicarsi ai rifiuti ma anche a prodotti (non è possibile, ad esempio, distinguere tra la combustione di un combustibile in quanto prodotto e quella di un residuo basandosi esclusivamente sul metodo di trattamento).
3) La percezione dell’azienda
La percezione del materiale come rifiuto può essere un indizio della sua natura di rifiuto, anche se occorre particolare attenzione nel fare affidamento a tale tipo di criterio, in quanto potrebbe indurre una certa negligenza nell'applicazione della legislazione sui rifiuti, favorendo le imprese che non sono al corrente dei loro obblighi legali o che cercano di sottrarvisi.
Trattandosi, inoltre, di un criterio puramente soggettivo, potrebbe dar luogo a concetti di rifiuto diversi a seconda degli Stati membri.
4) La riduzione della quantità di materiale prodotto
Infine, se un'azienda cerca di ridurre la quantità di materiale prodotto, si potrebbe logicamente desumere che il materiale in questione sia un rifiuto.
Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di una prova irrefutabile, perché un'azienda può cercare di variare le quantità prodotte per ragioni legate ai costi, ai prezzi e ai mercati, e – quindi – per motivi diversi da quello della riduzione del volume del materiale di cui si deve disfare.
Senza dimenticare che – applicando questo criterio alla lettera – alcune aziende potrebbero essere indotte a non adottare le politiche di prevenzione dei rifiuti.
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