La sentenza della Corte di Cassazione in materia di sottoprodotto che vi propongo oggi è la n. 32207 del 2007, Mantini, in cui la Cassazione tratta il tema dei residui della produzione industriale che siano ab origine classificati da chi li produce come rifiuti.
Il caso
A seguito di segnalazione del responsabile del Consorzio Polieco, con cui si comunicava che la ditta Mantini s.r.l. di Chieti Scalo stava effettuando una esportazione di rifiuti, sotto forma di materie prime secondarie, dal Porto di Gioia Tauro con destinazione verso i Paesi dell’Est, venivano eseguiti dalla polizia giudiziaria opportuni accertamenti presso il terminal container della società Media Center Container Terminal.
Nel corso di detta attività venivano sottoposti a verifica tre contenitori: il controllo consentiva di accertare che la spedizione in questione concerneva rifiuti e in particolare, “scarti di produzione industriale consistenti in ritagli di materiale plastico di probabile uso nella produzione di parabrezza per autoveicoli”.
Le spedizioni – non v’erano i formulari di identificazione dei rifiuti, ma solo la documentazione commerciale fiscale (fatture) e di trasporto interno – erano accompagnate da una nota, in cui la società Mantini dichiarava che il materiale in questione “è materiale plastico derivante da attività di recupero effettuata ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997 con la precisazione che “il materiale tecnicamente è una materia prima secondaria poiché rispondente alle norme UNI 10667 - Materie Plastiche da riciclo”.
Detto materiale, nelle condizioni in cui era stato rinvenuto dalla polizia giudiziaria, rientrava nel concetto di rifiuto (speciale): pertanto i tre containers venivano sottoposti a sequestro probatorio, successivamente convalidato dal PM e, quindi , convertito dal GIP in sequestro preventivo.
Seguiva istanza di riesame: la ditta Mantini evidenziava che, nella sua attività di recupero di rifiuti non pericolosi, aveva acquistato dalla ditta Pilkington (produttore di vetro e prodotti vetrari) dei ritagli di PVB (classificabili con la sigla C.E.R. 10.11.99), al fine di porre in essere una transazione commerciale con una ditta di Mosca.
Una volta trasferito detto materiale presso lo stabilimento della ditta Mantini per le operazioni di messa in riserva e quelle successive di cernita, per separare fisicamente le diverse componenti presenti nella partita di plastica da selezionare, si otteneva, attraverso un semplice processo di pulitura, il PVB pronto per la sua utilizzazione nei medesimi o analoghi processi produttivi.
In sostanza: la difesa della Mantini evidenziava che i ritagli i questione non erano classificabili come rifiuti, bensì come sottoprodotti e, in quanto tali, non assoggettabili alla disciplina prevista per i rifiuti, ancorché, per mero errore, i ritagli PVB venduti alla Mantini, e da questa spediti, fossero stati classificati con il codice CER 20.01.39 (rifiuti di plastica) invece che con il CER 10.11.99.
Il Tribunale del riesame rigettava il ricorso, perché, dagli atti trasmessi dal P.M. emergeva che le cose in sequestro, costituite da “scarti di produzione industriale consistenti in ritagli di materiale plastico verosimilmente utilizzato nella produzione di parabrezza”, dovevano essere classificate come rifiuto e non conte sottoprodotto.
La ditta Mantini, non risultando inserita nel processo industriale per la produzione del vetro stratificato, assumeva conseguentemente il ruolo di soggetto intermedio nella gestione del rifiuto, come tale qualificato dalla stessa azienda produttrice con attribuzione del relativo codice.
Non avendo poi la ditta produttrice, cioè la Pilkington Italia S.p.a., manifestato l’intenzione di reimpiegare tali ritagli nella stessa produzione ovvero di immetterli al consumo, cioè commercializzarli, limitandosi a disfarsene, i ritagli in questione assumevano necessariamente la natura di rifiuto.
Con l’attribuzione del codice CER da parte della Piikington Italia S.p.a, produttore e generatore del rifiuto tale dalla stessa classificato, veniva a determinarsi la possibilità di gestione del rifiuto, ma mai del sottoprodotto e, tanto meno, della materia prima secondaria.
La Corte di Cassazione, investita della vicenda, ha stabilito che “ove i residui della produzione industriale siano ab origine classificati da chi li produce come rifiuti, ciò esprime già quella volontà di dismissione che la lett. a) dell' art. 183, comma l, D.Lv. 152-07 considera qualificante di una sostanza che sia riconducibile alla catalogazione dell' Allegato A al d.lgs. citato (nella specie, categoria di rifiuti Ql: residui di produzione).
Tale volontà di dismissione vale poi di risulta ad escludere la configurabilità di un sottoprodotto, tanto più se la sostanza necessita di "trasformazione preliminare" per la sua utilizzabilità in un successivo processo produttivo. E tale è l'operazione di cernita e pulitura che modificano l'identità della sostanza considerato che lo stesso art. 183, comma I, lett. n), prevede la (sola) cernita come operazione che è di per sé qualificabile come di recupero dei rifiuti”.
La Corte di Cassazione pertanto ha rigettato il ricorso.
Sentenza della CAssazione Penale n. 32207/07 Mantini
Il caso
A seguito di segnalazione del responsabile del Consorzio Polieco, con cui si comunicava che la ditta Mantini s.r.l. di Chieti Scalo stava effettuando una esportazione di rifiuti, sotto forma di materie prime secondarie, dal Porto di Gioia Tauro con destinazione verso i Paesi dell’Est, venivano eseguiti dalla polizia giudiziaria opportuni accertamenti presso il terminal container della società Media Center Container Terminal.
Nel corso di detta attività venivano sottoposti a verifica tre contenitori: il controllo consentiva di accertare che la spedizione in questione concerneva rifiuti e in particolare, “scarti di produzione industriale consistenti in ritagli di materiale plastico di probabile uso nella produzione di parabrezza per autoveicoli”.
Le spedizioni – non v’erano i formulari di identificazione dei rifiuti, ma solo la documentazione commerciale fiscale (fatture) e di trasporto interno – erano accompagnate da una nota, in cui la società Mantini dichiarava che il materiale in questione “è materiale plastico derivante da attività di recupero effettuata ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997 con la precisazione che “il materiale tecnicamente è una materia prima secondaria poiché rispondente alle norme UNI 10667 - Materie Plastiche da riciclo”.
Detto materiale, nelle condizioni in cui era stato rinvenuto dalla polizia giudiziaria, rientrava nel concetto di rifiuto (speciale): pertanto i tre containers venivano sottoposti a sequestro probatorio, successivamente convalidato dal PM e, quindi , convertito dal GIP in sequestro preventivo.
Seguiva istanza di riesame: la ditta Mantini evidenziava che, nella sua attività di recupero di rifiuti non pericolosi, aveva acquistato dalla ditta Pilkington (produttore di vetro e prodotti vetrari) dei ritagli di PVB (classificabili con la sigla C.E.R. 10.11.99), al fine di porre in essere una transazione commerciale con una ditta di Mosca.
Una volta trasferito detto materiale presso lo stabilimento della ditta Mantini per le operazioni di messa in riserva e quelle successive di cernita, per separare fisicamente le diverse componenti presenti nella partita di plastica da selezionare, si otteneva, attraverso un semplice processo di pulitura, il PVB pronto per la sua utilizzazione nei medesimi o analoghi processi produttivi.
In sostanza: la difesa della Mantini evidenziava che i ritagli i questione non erano classificabili come rifiuti, bensì come sottoprodotti e, in quanto tali, non assoggettabili alla disciplina prevista per i rifiuti, ancorché, per mero errore, i ritagli PVB venduti alla Mantini, e da questa spediti, fossero stati classificati con il codice CER 20.01.39 (rifiuti di plastica) invece che con il CER 10.11.99.
Il Tribunale del riesame rigettava il ricorso, perché, dagli atti trasmessi dal P.M. emergeva che le cose in sequestro, costituite da “scarti di produzione industriale consistenti in ritagli di materiale plastico verosimilmente utilizzato nella produzione di parabrezza”, dovevano essere classificate come rifiuto e non conte sottoprodotto.
La ditta Mantini, non risultando inserita nel processo industriale per la produzione del vetro stratificato, assumeva conseguentemente il ruolo di soggetto intermedio nella gestione del rifiuto, come tale qualificato dalla stessa azienda produttrice con attribuzione del relativo codice.
Non avendo poi la ditta produttrice, cioè la Pilkington Italia S.p.a., manifestato l’intenzione di reimpiegare tali ritagli nella stessa produzione ovvero di immetterli al consumo, cioè commercializzarli, limitandosi a disfarsene, i ritagli in questione assumevano necessariamente la natura di rifiuto.
Con l’attribuzione del codice CER da parte della Piikington Italia S.p.a, produttore e generatore del rifiuto tale dalla stessa classificato, veniva a determinarsi la possibilità di gestione del rifiuto, ma mai del sottoprodotto e, tanto meno, della materia prima secondaria.
La Corte di Cassazione, investita della vicenda, ha stabilito che “ove i residui della produzione industriale siano ab origine classificati da chi li produce come rifiuti, ciò esprime già quella volontà di dismissione che la lett. a) dell' art. 183, comma l, D.Lv. 152-07 considera qualificante di una sostanza che sia riconducibile alla catalogazione dell' Allegato A al d.lgs. citato (nella specie, categoria di rifiuti Ql: residui di produzione).
Tale volontà di dismissione vale poi di risulta ad escludere la configurabilità di un sottoprodotto, tanto più se la sostanza necessita di "trasformazione preliminare" per la sua utilizzabilità in un successivo processo produttivo. E tale è l'operazione di cernita e pulitura che modificano l'identità della sostanza considerato che lo stesso art. 183, comma I, lett. n), prevede la (sola) cernita come operazione che è di per sé qualificabile come di recupero dei rifiuti”.
La Corte di Cassazione pertanto ha rigettato il ricorso.
Sentenza della CAssazione Penale n. 32207/07 Mantini