Il ripristino naturale non estingue il reato paesaggistico

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Il reato di cui all’art. 181 del “codice Urbani” (reato paesaggistico) è di pericolo astratto. Non è necessario, dunque, un effettivo pregiudizio per l’ambiente; per il suo perfezionamento è sufficiente l’esecuzione di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato; si configura anche nel caso in cui, per il mero decorso del tempo e senza l’intervento dell’uomo (ripristino naturale) gli effetti prodotti dalla condotta illecita siano venuti meno, restituendo ai luoghi l’originario assetto. 

Il caso, oggetto dell’analisi della sentenza n. 6299/13 della Cassazione penale riguarda la possibilità di configurare il reato paesaggistico nell’eventualità in cui vi sia stato il ripristino dei luoghi senza intervento umano, per il semplice decorso del tempo.
I fatti – storici e giuridici – che hanno portato alla decisione della Suprema Corte sono, in estrema sintesi, i seguenti. 
Gli imputati – condannati in primo e secondo grado, per i reati di cui ai citati artt. 181, comma 1, del DLgs n. 42/2004 e 44, comma 1, lett. c), del DPR n. 380/01, per aver eseguito, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, lavori in difformità dai titoli abilitativi rilasciati, attraverso l’escavazione abusiva della sponda di un canale e il deposito del materiale all’interno delle barene, anziché il suo posizionamento sulla sponda – ricorrevano in Cassazione sostenendo: 
a) che gli interventi eseguiti non avrebbero determinato alcuna alterazione dello stato dei luoghi, specie considerando la particolare conformazione delle barene (terreni molli in continuo movimento). A dar rilevanza a questa tesi il fatto che il giudice di primo grado non ne aveva ordinato la rimessione in pristino, dal momento che medio tempore la stessa era comunque avvenuta naturalmente: sulla base di questa circostanza, il giudice avrebbe dovuto per lo meno ritenere integrata la causa estintiva di cui all’art. 181, comma 1-quinquies del D.Lgs n. 42/04, in base al quale “la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato”, per “ovvie” ragioni legate al fatto che il ripristino naturale ha, nei fatti, impedito quello del trasgressore, e che, diversamente, ci sarebbe stata una disparità di trattamento fra coloro che possono rimediare all’intervento eseguito e coloro il cui intervento non ha determinato alcuna modifica dei luoghi; 
b) che gli interventi eseguiti non supererebbero la soglia della “variazione essenziale” di cui al cit. art. 44, comma 1, lett. c) del DPR 380/01. 

La Cassazione ha “approfittato” dell’occasione fornita da questo peculiare caso per “fare il punto” (sintetico) del pensiero della Suprema Corte in materia di reati paesaggistici, che si sviluppa su tre ordini di pensiero.

Innanzitutto la considerazione che il reato di cui all’art. 181 del Codice Urbani é un reato formale e di pericolo che si perfeziona, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, con la semplice esecuzione di interventi non autorizzati idonei ad incidere negativamente sull’originario assetto dei luoghi sottoposti a protezione. Ciò significa che il legislatore ha ritenuto opportuno assumere, almeno in teoria, una posizione intransigente in tema di tutela del paesaggio, punendo ogni intervento che astrattamente è in grado di incidere negativamente sull’originario assetto del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico.

In secondo luogo, e di conseguenza, l’individuazione della potenzialità lesiva di questa tipologia di interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all’ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato. Detto altrimenti: il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto. 

In terzo luogo l’inequivocabilità della disposizione che confina la sua efficacia ai soli casi in cui la rimessione in pristino delle aree o degli immobili vincolati, interessati dall’intervento abusivo, sia effettuata spontaneamente dal trasgressore prima che venga disposta d’autorità ed, in ogni caso, prima che intervenga la condanna: come a (rida)dire che un conto è l’iniziativa spontanea del trasgressore, un altro è l’approfittarsi ex post di una situazione creatasi per “spontanea” iniziativa della natura.