Policy risk autorevole e prevenzione: il nostro “asset nella manica”

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La crisi finanziaria globale, che ha dato il là alle altre crisi (economiche, politiche, sociali, energetiche, ambientali) che da anni attanagliano anche le nazioni meglio strutturate, ha avuto delle ripercussioni anche: 
  • sui bilanci degli Stati, costretti (chi più, chi meno) a spending review che – seppur volte ad “eliminare sprechi ed inefficienze, a garantire il controllo dei conti pubblici, a liberare risorse da utilizzare per interventi di sviluppo e a ridare efficienza al settore pubblico allo scopo di concentrare l’azione su chi ne ha bisogno” – hanno in qualche modo ridimensionato (anche) gli investimenti nel settore della green economy; 
  • sulle politiche nazionali in materia di incentivazioni all’energia pulita che, specie nel nostro Paese, hanno subito numerose modifiche negli ultimi anni; 
  • sui meccanismi finanziari internazionali, che “balbettano”, e sulle tradizionali fonti di finanziamento, soprattutto nel settore della green finance, che si trovano ad affrontare vincoli di capitale molto alti proprio nel momento in cui c’è una forte domanda di capitale per la realizzazione di infrastrutture a bassa “emissione di carbonio”. 
Iniziata con queste parole sul quadro politico-finanziario globale l’analisi effettuata dalla Climate policy Initiative (CPI) sui “risk gaps”, i rischi connessi alla lacune create dalla mancanza di una policy (non solo) ambientale integrata e coordinata, in grado di affrontare preventivamente i rischi connessi alla trasformazione in senso “sostenibile” della nostra economia e di diventare, pro quota, una “policy risk” capace di adottare degli strumenti adatti per i “clean invesments”. 

Nell’articolo “Policy risk autorevole e prevenzione: il nostro asset nella manica”, pubblicato lo scorso 18 febbraio 2013 su “Il quotidiano IPSOA – Professionalità quotidiana” potrete leggere un analitico approfondimento del documento della CPI che, in conclusione al suo ponderoso lavoro, ha sottolineato che non è oro tutto quello che luccica e, nel prospettare alcune possibili soluzioni ai problemi di carattere finanziario connessi allo sviluppo di un’economia sostenibile, si propone soprattutto aprire un dibattito in merito, al fine di superare contrapposizioni volte a prospettare soluzioni “complete” rispetto a quelle – “ovviamente” criticabili e/o impraticabili – della controparte, e di porre le basi per una concreta applicabilità futura. 

Strumenti assicurativi ancora in fase di sviluppo, dunque, che in alcuni casi sono già stati parzialmente implementati: “un passo nella direzione giusta”, chiosa il CPI, e una buona occasione anche per le compagnie assicurative, già da tempo impegnate a far fronte ai danni provocati dagli eventi meteorologici estremi, conseguenza del global warming, che rischiano sempre di più di essere economicamente insostenibili per il settore. 

Ma, al di là della dose di aleatorietà connaturata alla realizzazione di un’economia green, ciò che (deve) preoccupa(re) di più è l’instabilità normativa e l’incostanza politica. 
Da tempo l’AEEG sottolinea l’importanza della regolazione (inteso come “ruolo del regolatore”, come appunto è l’AEEG): estrapolando il concetto, è importante una regolazione in senso lato, quindi anche e soprattutto politica. 
Occorre, detto in altri termini, una regolazione politica, che sappia compiere un salto dimensionale e guardare al medio ma soprattutto lungo periodo, in una dimensione pienamente coerente con quella degli investimenti in infrastrutture ed impianti, da cui possono venire i maggiori benefici sia in termini di efficienza che di concorrenza. 
Una regolazione che ponga fine al caos instabile che finora l’ha fatta da padrone: perché sempre più spesso – di fronte ai ripetuti appelli (di tutti i settori della società, ma soprattutto) dell’imprenditoria alla presa di responsabilità e alla definizione stabile di un quadro normativo certo, coerente, addirittura non (pienamente) condiviso, purché partecipato, autorevole, certo, credibile – il nostro legislatore si trastulla in una sterile e puerile riconferma di se stesso, partorendo quotidiane norme, deroghe, proroghe, farcite di condoni, sanatorie, smentite e riformulazioni, che vanno in direzione contraria alle sagge parole di programmazione partecipata tutti gli operatori del settore invocano per una normativa che non sia, come avvenuto sinora, uno “spazio libero”, che il legislatore può continuamente riempire, a proprio piacimento, per norme ad personas o ad opificuim, ma la sintesi partecipata delle diverse, ma non necessariamente divergenti, esigenze di tutti gli operatori (non solo) del settore. 

In conclusione, al di là della bontà – in ogni caso da perfezionare, nel prossimo futuro – di strumenti assicurativi e finanziari per far fronte al rischio di politiche instabili, sarebbe molto più semplice implementare, e successivamente applicare, una policy (nel senso, questa volta, di politica) risk in grado di programmare il futuro, di gestire il rischio “residuo” ed indirizzare, inter alia, le scelte degli investitori. Una politica del rischio – fortemente connessa al principio di precauzione – è il vero “asset nella manica”.