Nel commentare il “successo” degli Stati Generali della green economy, che hanno partorito “70 sfumature di verde” l’ex ministro dell’ambiente Edo Ronchi ha affermato che “l’ampio coinvolgimento di diversi settori […] l’efficacia della piattaforma unitaria di 70 proposte, il consenso ampio raccolto” hanno aperto in Italia una nuova fase, nella quale “mille rivoli si sono incontrati e hanno dato vita ad un fiume, il fiume della green economy che comincia a scorrere anche in Italia”.
Detta così, ci si chiede come mai abbiano tardato così tanto ad arrivare, queste settanta proposte, o come mai qualcuno non ci abbia pensato prima: ma al di là dei “semplicismi comunicativi” ex post, con i quali si distilla un (fin troppo facile) entusiasmo, giustificabile ma non del tutto giustificato, lo stesso documento mette in guardia dall’eccesso di ottimismo, evidenziando che “gli obiettivi da soli non bastano, servono strumenti efficaci e capacità di attuazione”.
In sostanza, il “problema” non è rappresentato dalle parole dette, ma dal modo attraverso il quale far prendere loro forma, e trasformarle in fatti concreti.
Come mettere in pratica, allora, questi principi e questi obiettivi di sostenibilità?
Quali strumenti utilizzare?
La risposta a tali interrogativi generali è semplice: il “lavoro verde” costituisce la chiave di volta strutturale del sistema, e deve essere messo al centro, nei processi di riconversione delle imprese (e della società) in chiave ecosostenibile.
Non solo il lavoro, dunque, “elemento fondante” della nostra Repubblica, ma lavoro verde.
I green jobs sono stati classificati in due macro-categorie:
- le professioni verdi in senso stretto, caratterizzate da specifiche competenze green;
- le figure attivabili dalla green economy, una sorta di indotto.
La tendenza del progressivo aumento – nel processo carsico di riconversione in chiave green del sistema produttivo italiano – del ricorso:
- al fattore lavoro (anche con l’internalizzazione di figure professionali “le cui competenze, se ben formate, sono in grado di imprimere all’impresa quel salto di qualità verso la frontiera della green economy”),
- oltre che al fattore capitale (espresso dall’impegno delle imprese nell’investimento in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale delle produzioni e trasferire un plus competitivo ai beni e servizi prodotti,
Perché se è vero che risorse finanziarie e capacità di politica gestionale, lungimirante e competitiva giocano un ruolo determinante nella scelta di realizzare un investimento green, la “completa virata aziendale verso la sostenibilità ambientale viene compiuta” soltanto quando ci si dota “di risorse lavorative che apportano in modo strutturale e continuo nel tempo conoscenze potenzialmente legate all’ambito green”.
Sia internalizzandole sia, per particolari tipologie di green jobs (ad esempio, l’environmental risk manager o giurista ambientale) affiancandole in modo comunque continuativo all’attività imprenditoriale.
Investire nella sostenibilità ambientale ha numerosi vantaggi, soprattutto nel medio-lungo periodo, arco temporale finora non tenuto in considerazione da scelte politiche all’insegna del piccolo cabotaggio.
Prima ancora della politica – che sta cominciando a considerare l’opportunità strategica (oltre che sostenibile) di aiutare lo sviluppo dei green jobs, in modo da farli diventare strutturati e strutturali e non più di nicchia – è il mercato che sta richiedendo “a gran voce” professioni verdi: dagli studi condotti da Symbola risulta che “un quarto dell’imprenditoria italiana, corrispondente a quella che punta chiaramente sulla sostenibilità ambientale […] riesce a contribuire alla metà della domanda totale di green jobs in senso stretto. In questo semplice rapporto si esalta la necessità e il valore delle politiche a sostegno della crescita come risultato della coniugazione tra politica industriale e politica attiva del lavoro, di cui le recenti misure governative possono rappresentarne un esempio, in quanto puntano a favorire l’occupabilità nei settori strettamente ‘verdi’ (protezione del territorio, biocarburanti, energie rinnovabili, efficienza energetica nel settore civile e terziario), con particolare riferimento all’inserimento lavorativo in pianta stabile dei giovani”.
Dopo anni di precariato permanente, la stabilità delle professioni sostenibili rappresenta sicuramente un ulteriore quid pluris legato ai green jobs; ma accanto a questo fattore – indubbiamente importante e fondamentale in prospettiva strutturale – le professioni dei “colletti verdi” si caratterizzano per:
- la loro “flessibilità positiva” (la flessibilità è un valore tendenzialmente positivo, che tuttavia dev’essere opportunamente canalizzato affinché possa produrre effetti utili per il bene comune, e non solo per chi la sfrutta); se la stabilità è importante soprattutto per le figure attivabili dalla green economy, la “flessibilità positiva” si estrinseca soprattutto per alcune professioni verdi in senso stretto, caratterizzate, come s’è visto, da specifiche competenze in senso stretto e da un livello di istruzione più elevato;
- il loro essere socialmente inclusive (dalla varietà dei principali profili più richiesti di green jobs scaturiscono possibilità di impiego “non solo per i laureati, ma anche per i diplomati e, in certi casi, anche ai meno istruiti, a conferma di come la green economy rappresenti un’opportunità comune non solo a territori, settori di attività e dimensioni di impresa, ma anche alle diverse fasce di popolazione dal differente grado di istruzione, dimostrando un elevato grado di capacità di inclusione sociale”);
- il favor dimostrato per l’occupazione giovanile, altro “neo” delle politiche del lavoro negli ultimi anni in Italia, dove la disoccupazione under 30 ha raggiunto livelli incompatibili con la titolarità delle settima piazza dell’élite industriale a livello mondiale.
Fra le professioni del’indotto green basti pensare a quelle impiegate:
- nell’edilizia (“settore le cui future fortune passeranno senza dubbio dall’acquisizione della sensibilità ambientale”, rappresentate dagli idraulici, dai carpentieri e falegnami, dagli elettricisti nelle costruzioni civili e dai tecnici della gestione dei cantieri edili) e
- nell’industria (in primis meccanici e montatori industriali e tecnici meccanici, professioni “quasi per natura tradizionali, che se ben accompagnate da percorsi formativi incentrati sulla sostenibilità, anche con un’impronta tecnologica, sono veramente in grado di incanalare la nostra industria verso il sentiero verde”).
In definitiva, tutto è già qui: tutte le professioni, se riescono a “pensare sostenibile”, “sono in grado di apportare innovazione e competitività in chiave green all’impresa, sviluppando tecnologie ed efficienza lungo la fase di processo e promozione unita alla diffusione della sensibilità ambientale nel momento in cui si collocano i prodotti sui mercati”: in particolare, il report indica (sia pure in modo esemplificativo e non esaustivo) le dieci figure di green jobs che nel corso dell’ultimo anno hanno assunto particolare rilievo (tecnico meccatronico; promotore edile di materiali sostenibili; esperto economico finanziario di interventi energetici; energy manager 2.0; agricoltore bio; programmatore agricolo della filiera corta; disegnatore industriale per la sostenibilità e l’efficienza; comunicatore ambientale; esperto della borsa rifiuti dell’edilizia; esperto del restauro urbano storico).
Professioni tradizionali rinnovate in ottica sostenibile; specializzazione tecnica per il migliore utilizzo delle materie prime e dei processi produttivi; comunicazione (green copywriter), per far conoscere in modo sistematico e strutturale i vantaggi dei green jobs (non è solo indispensabile innovare, ma anche comunicare, visto che la sostenibilità ambientale rappresenta sempre più un elemento distintivo della comunicazione aziendale).
Come s’è evidenziato, sullo sfondo delle 70 proposte per la green economy, la normativa agisce a livello teorico come collante, e costituisce il primo passo per promuovere un futuro verde e sostenibile; allo stesso modo, sul versante pratico, nel settore dei green jobs negli ultimi anni si è andata diffondendo una nuova figura, di stampo prettamente giuridico:il giurista ambientale.
Il giurista ambientale (o environmental risk manager giuridico), riveste un’importanza strategica soprattutto dal punto di vista preventivo, in una fase che potremmo definire di “consulenza strategico-stragiudiziale”, a sostegno sia delle imprese, sia delle pubbliche amministrazioni, dal punto di vista non solo della latu sensu sostenibilità ambientale, ma anche di quella:
- amministrativa: in quest’ottica, il Giurista ambientale svolge l’importante funzione di sostegno dell’attività amministrativa-burocratica delle aziende e della pubblica amministrazione, che spesso si trovano in difficoltà nella gestione della complessa e scoordinata normativa ambientale, a causa della mancanza delle approfondite competenze specialistiche, indispensabili per far fronte ai continui mutamenti della disciplina;
- economica: attraverso una consulenza ambientale specifica, volta all’analisi del caso concreto (contestualizzato alla luce della normativa nazionale, comunitaria e regionale), il Giurista ambientale offre un servizio che si pone in funzione preventiva dei numerosi, lunghi, macchinosi, incerti e costosi procedimenti giudiziali, causati – nella maggioranza dei casi – proprio dalla non corretta applicazione delle disposizioni in materia, frutto dell’inadeguatezza dei mezzi e del personale a disposizione e della mancanza del necessario e costante aggiornamento, che solo un esperto del settore, il Giurista ambientale, è in grado di offrire.