Questa è una fra le sterili “risposte” date dal sub-commissario alle bonifiche della regione Campania ad una precisa domanda formulata da Bernardo Iovine, giornalista di Report, nella puntata intitolata “Terra bruciata”, andata in onda domenica 09 marzo 2008…
Ancora una volta, messo alle strette da domande “imbarazzanti”, il (l’ir)responsabile di turno non risponde, nascondendosi dietro il sempreverde “così (non) fan tutti”.
“Non so…”
Questa, invece, è la “chiara” presa di posizione di molti cittadini ai quali è stato chiesto, dallo stesso Iovine, se fossero a conoscenza delle nefandezze che si perpetrano dietro casa loro, della gravità dello status quo, dell’assurdità rappresentata dal fatto di coltivare frutta e verdura a pochi metri di distanza da discariche abusive incontrollate, dalle quali si riversano nell’ambiente circostante (falde acquifere, aria, sottosuoli……) ogni tipo di sostanze tossiche.
Ancora una volta, il silenzio, l’omertà, la paura (e, a volte, gli illusori tornaconti?) di una parte della popolazione la dice lunga sulle difficoltà che si incontrano anche solo a parlare di una problematica così complessa, e dai risvolti drammatici, come quella legata alla tutela ambientale.
Figuriamoci ad affrontarla, o a cercare di risolverla…
Questi sono i due leit motiv intorno ai quali si è sviluppata la puntata di Report del 09 marzo 2008, incentrata – come sottolineato da Milena Gabanelli – sulla “reale efficacia di bonifiche eventualmente effettuate” in un territorio in cui, dati alla mano, le zone da bonificare sono 2551 (il doppio rispetto alla Lombardia che ne ha 1300), la maggior parte delle quali concentrate tra Napoli e Caserta.
Sullo sfondo, il perverso meccanismo che ha portato a utilizzare come ammortizzatori sociali le emergenze ambientali, come ha evidenziato, con parole che pesano come un macigno, Paolo Russo, ex presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti.
In sostanza, dall’inchiesta condotta è emerso che “per otto anni c’è stato un commissario straordinario alle bonifiche che non si è occupato di bonifiche”.
Esiste una struttura, arrivano i soldi (e non si tratta di spiccioli): ma dei 300 milioni di euro specifici per bonifiche, 150 vengono dirottati sulla “perenne emergenza rifiuti”.
Nel 2001, si apprende dall’inchiesta, una società pubblica, la Sogin, viene incaricata di mettere in sicurezza alcune zone, di analizzare i terreni, le acque. Di bonificare.
Ma, a fronte di un buco di 10 milioni di euro, che il commissariato non paga, la Sogin “prende e se ne va”.
La successiva convenzione stipulata dal Ministero del Lavoro con una società privata, la Jacorossi, prevedeva che, per l’occasione, venissero assunti 380 lavoratori socialmente utili…
Insomma, sembra che la finalità, più che di bonificare, fosse quella di dare un lavoro a 380 persone.
Già, ma quale?
L’ex presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti, infatti, sottolinea che “queste società – fra le quali la J. – non hanno una filiera tecnologicamente avanzata che consente quello che normalmente si fa nell’attività di bonifica. Nell’attività di bonifica c’è un pool della società che va a verificare di cosa si tratta, un altro settore che analizza specificamente le fonti inquinanti, un altro settore che dopo averle caratterizzate, individua strategicamente le modalità di esercizio della bonifica. E poi c’è la raccolta, lo smaltimento: un percorso articolato di sistemi industriali moderni, mentre quello proposto assomiglia più a una sorta di forme tardive di cooperative sociali. La pressione occupazionale in Campania è forte ci sono manifestazioni quotidiane da 30 anni, e così hanno pensato di dirottare i soldi delle bonifiche in assunzioni a fondo perduto”.
Per farla breve, la Jacorossi, prima non ha mai fatto lavorare (motivo per il quale la società ha chiesto, dopo cinque anni, il risarcimento dei danni, per un ammontare di 21 milioni 800.000 euro…) e poi ha messo in cassa integrazione i lavoratori socialmente utili che adesso – dopo che la società ha strappato un’altra convenzione per la rimozione di rifiuti speciali – forse potranno (tornare a) “lavorare”.
L’intreccio delle responsabilità, più o meno gravi, che emerge dall’inchiesta, è sconcertante, e le prospettive, allo stato, desolanti: Giacomo Campanile, medico di Casaluce, nell’Agro Aversano, constata, con amarezza, che “non abbiamo le industrie che potrebbero togliere un poco di disoccupazione, però abbiamo gli scarti delle industrie […] Bisognerebbe fare qualcosa per questa terra, oppure dobbiamo tenerci il detto di Totò che diceva “fuìte”.
Perché oltre alle grandi responsabilità delle istituzioni – incapaci di far fronte alla drammatica complessità dei problemi connessi alla gestione dell’ambiente – è lo stillicidio delle piccole illegalità tollerate che alimenta l’incultura ambientale, terreno fertile per chi è intenzionato a speculare sulla salute dell’uomo.
E perché continuare a confondere le diverse esigenze (lavorative e ambientali), tamponando le une (che dovrebbero essere affrontate e risolte in altre sedi, e con altri mezzi) con le risorse destinate a risolvere le altre, non fa altro che diminuire il livello di consapevolezza.
Si può fare, e gli esempi virtuosi, per fortuna, anche se isolati, non mancano.