La nuova bolla speculativa in arrivo dalla finanza: lo shale gas

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Negli ultimi quarant’anni il consumo mondiale di energia è più che raddoppiato, e si prevede che nei prossimi cinque lustri aumenterà di un ulteriore 44%: considerato che il peso delle fonti fossili di energia continuerà a pesare per l’ottanta per cento del totale, dove e come trovare combustibili fossili che, costituendo fonti non rinnovabili, prima o poi – per semplice definizione – si esauriranno? 
Negli ultimi anni si è rapidamente assistito ad un sempre più sbandierato entusiasmo nei confronti delle nuove tecniche di estrazione (come il fracking) e lo sviluppo della produzione di fonti energetiche “non convenzionali” (tar sands e shale gas): un entusiasmo “frenetico”, figlio della necessità di trovare ad ogni costo il modo di produrre sempre più una “nuova-vecchia” energia: nuova per far fronte alle crescenti necessità della moderna società energivora, vecchia per la tendenza a procrastinare il più possibile l’avvento di un nuovo paradigma sostenibile di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. 

Un entusiasmo che, non essendo così giustificato, e dovendo fare i conti con la realtà geologica, ambientale ed economica, ha creato soltanto: 
  • una retorica dialettica sulla presunta indipendenza energetica che queste nuove forme di “energia non convenzionale” (una nuova miniera meramente speculativa) permetterebbero, e 
  • una bolla speculativa che rischia non solo di vanificare le speranze di chi ha creduto nel nuovo eldorado energetico, ma anche di danneggiare (ulteriormente) l’economia globale, attraverso strumenti finanziari creati ad hoc per nascondere, temporeggiando, le magagne di un sistema che sta in piedi soltanto per consentire “ai soliti noti” di poter giustificare le loro scelte. 
Iniziano – e si concludono – rispettivamente con questo interrogativo retorico e queste amare considerazioni i rapporti del Post Carbon Institute (PCI), provocatoriamente intitolato “Drill, baby, drill”, e quello dell’Energy Policy Forum (EPF) altrettanto provocatoriamente in titolato “Shale and WallStreet: was the decline in natural gas prices orchestrated?”.

Il primo, nello studiare le dinamiche energetiche statunitensi, parte dalla considerazione – elementare, se solo si analizzano i dati storici – che, nonostante la “retorica USA”, cui si è fatto riferimento, gli Stati Uniti difficilmente riusciranno ad essere indipendenti dal punto di vista energetico, dal momento che la “tanto annunciata” riduzione delle importazioni di petrolio negli ultimi anni si è risolta in una riduzione dei consumi , più che in un aumento della produzione interna. Il report analizza le unconventional Energy resources che hanno giustificato l’entusiasmo, cui si è fatto cenno: 
  1. 1. in relazione alla prima fonte non convenzionale per la produzione di energia, lo shale gas – il “gas di scisto”, quello che si estrae dalle rocce scistose con la cit. tecnica del “fracking”, iniettando in profondità acqua, sabbia e sostanze chimiche in grado di distruggere la roccia ed estrapolare il gas – il PCI evidenzia che, dopo l’iniziale boom produttivo, nel 2011 la produzione ha subito un brusco rallentamento, causato dalla rapida perdita di produttività dei giacimenti, che si esauriscono nel vertiginoso/vorticoso volgere di 3/4 anni, con un declino della produttività, in questo arco temporale, di circa il 90%. Un ottimismo dunque ingiustificato per una presunta abbondanza soltanto apparente (qualcuno aveva parlato anche di un’indipendenza per almeno cento anni) che tuttavia ha provocato – potere della fiducia – l’aumento di forti investimenti probabilmente destinati a dissolversi. Detto in altri termini, si tratta di una “bolla” – termine che in questi anni abbiamo imparato a conoscere – speculativa, una bomba ad orologeria che potrebbe – più prima che poi – scoppiare nelle mani di investitori ignari: sulla base dell’analisi dei dati – fisici e tecnologici – gli esperti del PCI hanno stimato, infatti, che, per mantenere l’attuale livello di produzione di shale gas (definito, in dottrina, una riserva di energia “usa e getta”) dovrebbero essere trivellati più di settemila pozzi ogni anno (da qui il titolo “Drill, baby, drill), con un investimento di circa 42 miliardi di dollari all’anno. Un costo – più che un investimento – che va a sommarsi con quelli ambientali, prodotti dal contestato fracking; 
  2. discorso analogo è fatto per il tight oil e le tar sands. Il primo, il petrolio intrappolato nelle rocce o nelle argille, ed estratto sempre tramite fracking, infatti, prodotto attualmente per l’80% in due soli giacimenti, richiederebbe 35 miliardi di dollari all’anno di “investimenti” per realizzare, nello stesso arco temporale, seimila nuovi pozzi. Le seconde, le sabbie bituminose, estratte attraverso le tecniche del Cycle Steram Stimulation e dello Steam Assisted Gravity Drainage, invece, richiedono input di capitale molto elevati (alcune stime indicano in 100 dollari al barile), tempi più lunghi e una qualità del prodotto finale decrescente; 
  3. gli altri idrocarburi non convenzionali (oil shale¸ coalbed methane; gas hydrates, Arctic oil and gas) e le alter tecnologie utilizzabili (coal-and gas-to-liquids; in situ coal gasification) hanno prospettive di crescita ridotte. 
Il Post Carbon Institute conclude la propria analisi – fondata su una minuziosa ricostruzione storica, utile a capire come sono state utilizzate, in passato, le risorse disponibili; su dettagliati reports relativi a tutte le fonti considerate; sulla verifica del delta fra l’energia prodotta e quella necessaria per produrla – evidenziando che le nuove fonti non convenzionali, portate alla ribalta da nuove tecnologie di estrazione, hanno sicuramente fornito per un po’ (molto poco) respiro alla crescita della produzione naturale, se non altro in prospettiva: ma la realtà ha tarpato le ali ai facili entusiasmi di coloro che, forse un po’ troppo in fretta (rectius: freneticamente), ne hanno magnificato le virtù, sulla base di entusiasmo che, proprio per questo, ha nascosto una parte – la più importante – di “verità”.

Tant’è che il secondo report smaschera il meccanismo costruito per tenere in qualche modo su, per quanto possibile, questo sistema altrimenti destinato prima, molto prima, al collasso. 
Operazioni di compravendita di pozzi e derivati sulla produzione la cui dinamica ricorda quella che, soltanto pochi anni fa, ha innescato la crisi di cui ancora fatichiamo a vedere la fine: quella che ha portato allo scaricabarile dei subprimes sui mutui, promesse che chi faceva sapeva non essere mantenibili, semplicemente declinate in forma diversa. Oggi, infatti, Wall street sta guadagnando su risorse che in realtà valgono meno di quello per cui vengono scambiate. 
In estrema sintesi, il documento dell’EPF analizza i perché nascosti dietro il paravento dell’ostentato ottimismo, partendo dall’anomalia delle recenti operazioni di fusione legate alle “fonti non convenzionali”, che hanno raggiunto il volume di 46,5 miliardi di dollari, diventando “il più grande centro di profitto per diverse banche d’investimento”, nonostante le sovra stime sulle riserve di tali fonti energetiche. 
L’eccesso di offerta, prodotta da quell’eccesso di trivellazioni, cui si è fatto cenno, ha spinto i prezzi a livelli talmente bassi da renderli economicamente non sostenibili; a loro volta, questi prezzi hanno determinato, appunto, fusioni milionarie per le banche d’investimento, attraverso lo spregiudicato utilizzo di strumenti finanziari complessi. 
Si tratta di un circolo vizioso creato proprio dall’“effetto annuncio”, alimentato dall’entusiasmo che ha indotto i legislatori a promuovere lo sviluppo del settore, a partire dalle esplorazioni, ovviamente a vantaggio (cleary benefit) delle imprese operanti nel settore, che in questo modo si sono assicurate il massimo dei vantaggi con il minimo dei costi. 
L’analisi indipendente (e – testuale – “spassionata”) prende spunto proprio dalla considerazione sull’ingenuità – figlia di quell’entusiamo – di chi immagina che le compagnie petrolifere possano avere riguardo a qualcos’altro che non sia l’estrazione di idrocarburi nel modo più economico ed efficiente possibile, facendoli pagare il più alto prezzo “praticabile”: di chi, in sostanza, immagina che possano esistere motivi “altri” rispetto al ritorno economico privato (anche se a volte può portare, ma solo come casuale esternalità positiva, benefici effetti). 
Ottimismo ed entusiasmo, da un lato, e ingenuità, dall’altro, hanno quindi creato questo boom, che come tutti i boom ciclici, possono – se lasciati incontrollati – avere effetti collaterali, perché: 
  • hanno in comune la caratteristica di essere governati più dall’emotività che dalla ragione;
  • producono prodotti finanziari “intenzionalmente ed intrinsecamente complessi” come i VPP, i Volumetric production payments, che sovente vengono piazzati, assieme ad altri asset su riserve non provate, ad investitori con poca dimestichezza con le complesse dinamiche della produzione da fossili, 
  • specie quando si cerca di distogliere l’attenzione dal crollo del prezzo del gas naturale, come evidenziato nel paragrafo “The demise of the NGL market”. 
Ancora una volta, dunque, la finanza interviene a gamba tesa, questa volta in soccorso di una “filosofia” politica aggrappata a due diversi conservatorismi: da un lato quello energivoro – poco attento alle dinamiche dell’efficienza e del risparmio energetico, e poco incline a promuoverlo, al di là della retorica – volto alla produzione di “nuova” energia (in termini fisici) e, dall’altro, quello ancorato al fossile, nuovo o vecchio che sia.
La finanza non fa distinzioni, e abbiamo visto, in materia di project bond, che la sua “creatività” coinvolge, può coinvolgere, anche le rinnovabili. 
Ma il minimo comun denominatore è sempre lo stesso: creare bolle speculative in grado di soddisfare gli interessi di pochi, spacciando le proprie azioni, ammantate da un contagioso entusiasmo, come l’antidoto con il quale affrontare la crisi di turno, che in precedenza è stata in qualche modo facilitata dalla stessa finanza. 
Un sistema non sostenibile sotto tutti i punti di vista, che se non opportunamente – in fretta ma senza la frenesia che ha caratterizzato l’incedere dei vari legislatori negli ultimi anni – controllato, rischia di creare dei danni (ulteriori a quelli già provocati) cui sarà sempre più difficile porre rimedio, e di incanalarci in un cul de sac che potrebbe – in quel caso forse sì – renderci dipendenti per cent’anni. 
Di solitudine.

Articolo pubblicato su "Il quotidiano Ipsoa. Professionalità quotidiana"