Le perfezioni provvisorie

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...“quelle parole rimasero nell’aria, dissolvendosi lentamente in una polvere leggera” 
(da: "Le perfezioni provvisorie", di Gianrico Carofiglio)

Non mi sono mai cimentato in una recensione.
Per iscritto, dico.
Le parole che riguardano i libri, e la musica, ho sempre preferito farle scivolare nei miei discorsi, non importa quali, se tristi, allegri, seri, faceti, amichevoli, audaci: nella vita di tutti i giorni, insomma, perché parole e note sono la vita di tutti i giorni.
Le parole e le note si sedimentano, leggere, dopo essersi dissolte, e anche se inconsciamente, lasciano un piccolo, impercettibile, segno, come le traettorie delle mongolfiere.
Impercettibile, ma spesso determinante.

In ogni caso, quando sento parlare di recensione mi viene in mente Bertoncelli, quello che in compagnia di un qualche musico fallito, un pio, un teorete, un prete, è sempre lì, a sparare cazzate, come direbbe Guccini.

Com’è, allora, che non riesco a contenere questa irrefrenabile voglia di cercare di condividere – mettendola nero su bianco – quello che ho provato nel leggere “Le perfezioni provvisorie”, di Gianrico Carofiglio?
Forse ha ragione “Gi-Gi”, l’avvocato Guido Guerrieri, quando, in uno dei tanti momenti di riflessione, fra una cazzata e l’altra, fra un’intuizione e l’altra, afferma, con un certo compiacimento, che “chi legge troppi libri spesso fa cose di cui non c’è bisogno”.

Le perfezioni provvisorie, l’ultimo dei quattro “romanzi dell’avvocato Guido Guerrieri”, è senza ombra di dubbio il migliore: chi ha letto i primi tre, farà fatica a pensare che si possa fare di meglio.
E invece.

Non è solo, e semplicemente, il racconto delle peripezie dell’avvocato brillante, e dell’uomo imbranato che, a volte – come gli piace ricordare, e ricordarsi, per potersi fare una ramanzina, e lavarsi la coscienza – si comporta come un vero e proprio rincoglionito.

Non sono solamente le gag di un imbranato cronico, e le lunghe chiaccherate con le donne di turno (questa è la volta dell’intrigante Nadia, e della provocante, a modo suo, Caterina) o con il sacco, fido ed involontario compagno di monologhi solitari, densi di autoironia.

E non sono neanche solamente gli scorci di una Bari descritta nel passare degli anni (che sembrano ricordi miei, nonostante a Bari io ci sia stato una volta sola, e pure di passaggio), o i ricordi che in flash-back, a volte impietosi, a volte compiaciuti, subentrano ad ogni tipo di riflessione, o di azione, e lo fanno rimanere lì, inebetito, con lo sguardo assente alla ricerca di quella particolare perfezione provvisoria che a volte la vita regala…
O gli danno il guizzo che gli permetterà di risolvere il caso, come nel finale, quando accarezza Baskerville che non è Baskerville, e in una mancanza scopre il mistero che si cela dietro la vicenda.

Perfezione provvisoria fatta anche di ricordi comuni, ricordi a volte generazionali (quella musica, quella particolare canzone, l’attore in quella precisa scena, il suo sguardo, quello che ha trasmesso, con gli inevitabili corollari di condivisione ed immedesimazione), e volte così personali da sembrare i propri…

Le perfezioni provvisorie, infine, sono quelle che, in certi momenti, fanno intuire una dinamica banale, quanto tremendamente difficile da capire: la verità non esiste.

Quelli che la blaterano ad ogni piè sospinto, sono esseri pericolosi, e quelli che ci credono davvero, che esista, sono destinati a finire miseramente: la perfezione, provvisoria per inevitabile definizione, è un casuale equilibrio di circostanze, tempi, sensazioni e stati d’animo, “verità nascoste, in un mondo apparentemente stabile e normale, in realtà insospettato e torbido, dove l’unica salvezza sembra essere nella niotida perfezione di alcuni rari, provvisori momenti di felicità”.

“Pensi che ti abbia raccontato tutta la verità? O pensi che abbia attutito qualcosa per attutire lo squallore?”, chiede Nadia a Guido, una sera al locale gay che lei gestisce...
“Nessuno dice mai tutta la verità, soprattutto quando parla di se stesso. Ma se mi fai una domanda del genere significa che in qualche modo già lo sai e ci sei stata attenta. Dunque, probabilmente, mi hai raccontato qualcosa di molto vicino alla verità”.
Mi guardò con una espressione un po’ incuriosita e un po’ preoccupata per una rivelazione che poteva avere conseguenze inattesa.
“Davvero nessuno dice la verità?”
“Tutta la verità, nessuno. Quelli che dicono – e magari ne sono convinti – di essere sempre sinceri sono i più pericolosi. Non sanno di mentire inevitabilmente, non se ne rendono conto e sono prigionieri di se stessi”.
“Prigionieri di se stessi. È una bella espressione”.
“Sì, prigionieri di se stessi, e incapaci di capire chi sono. Prova a chiedere a qualcuno di questi signori Io-Dico-Sempre-La-Verità come lavora, quali sono le sue qualità, come sono i suoi rapporti con il prossimo, o qualsiasi altra cosa che abbia a che fare con l’immagine che lui o lei ha di sé. Assisterai a un fenomeno interessante”.
“Cioè?”.
“Non sono capaci di rispondere. Dicono cose generiche, indicano stereotipi, o magari si attribuiscopno doti che vorrebbero avere ma che certamente non hanno. Doti che corrispondono all’immagine, falsa, che hanno di se stessi. Sai chi è Alan Watts?”.
“No”.
“Era un filosofo inglese. Studiava le culture orientali e ha scritto un bellissimo libro sullo zen. Watts diceva che una persona sincera è quella che sa di essere un grande impostore e agisce con totale nonchalance. Accettando questa definizione, io sono a metà strada. So di essere un impostore ma non riesco a gestire la cosa non nonchalance”.
Foto: “Don’t leave me this way” originally uploaded by Dragan*