La riforma della Costituzione, il referendum costituzionale e l'ambiente

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Cosa votare al Referendum costituzionale di quest'autunno?
La riforma della Costituzione approvata pochi mesi fa, vi convince o no?
Ma soprattutto: avete letto il testo che criticate e/o, al contrario, ritenete valido?
Vi è venuto qualche dubbio?
Il vostro sì, o il vostro no, sono frutto di una scelta consapevole o soltanto di una visione (para)ideologica?

Sul blog di NG voglio riportare qualche stralcio di un articolo che sta per essere pubblicato sulla rivista "Ambiente & Svilupppo", edita da IPSOA: nell'articolo viene analizzata la riforma costituzionale, in riferimento al tema al quale è dedicato questo blog: l'ambiente

Natura Giuridica vi anticipa qualche stralcio perchè ritiene doveroso arrivare più consapevoli al referendum costituzionale di quest'autunno (in rosso i titoli dei paragrafi)

Un Paese di costituzionalisti 

Fra qualche settimana finalmente si saprà chi “avrà vinto” nella contesa sulla riforma costituzionale, se i supporters del “sì” o quelli del “no”, neanche si trattasse di una partita di calcio, e di un certo malsano tifo che, ahimè, spesso ne è parte integrante.
Ma purtroppo è così che ci viene, di fatto, presentata.
L’impressione che ne si ha è che – a prescindere dal vincitore – si continuerà comunque a parlarne, a dibattere dei perché e dei percome dei risultati, di cosa ha twittato il Governo e di cosa ha annunciato ai microfoni l’opposizione e via discorrendo, perdendo un’altra occasione per capire cosa, al di là del contingente risultato politico, si dovrebbe fare per imbastire un progetto di un’Italia – più che di una Costituzione – nuova, cominciando a porre fine al “modello pervasivo di semplificazione emergenziale” (espressione coniata da C. Galletti) che da decenni affligge l’Italia.
E che con la vittoria dei sì – ma anche dei no, sia pure per diverse vie, e con diverse sfumature – potrebbe addirittura consolidarsi.

Perché in un Paese di “poeti, di artisti, di eroi, di santi, …”, di recente ci siamo scoperti anche tutti costituzionalisti, con asserite verità da sbandierare, riforme da proporre (o barattare), anche blandendo l’uditorio con comunicati spot, efficaci quanto pericolosi, senza (perdere tempo a) porsi alcuna domanda sulle conseguenze di certe velleitarie azioni, o al contrario del perpetrarsi di quell’incessante immobilismo che, ahinoi, non senza ragioni, gli incauti riformisti di oggi additano come la causa del mali dell’Italia di oggi (e di ieri).
La realtà, molto più prosaica, è che i mali dell’Italia di oggi – se vogliamo riassumerli giornalisticamente in questo modo – sono il frutto di questo mix pericoloso di pressappochismo politico – che bada al presente più che al lungo periodo, dissipando energie nella ricerca di una semplificazione che, finora, si è rivelata come il suo esatto contrario, quando non una chimera – e di un uso distorto delle parole, che al posto di spiegare vengono utilizzate come veicolo di mere (e contingenti) propagande ideologiche.
Prendiamo l’ambiente, ad esempio, che è stato in parte qua oggetto della “riforma delle riforme”, e cerchiamo di analizzare quali potrebbero essere le conseguenze dell’eventuale vittoria del sì.

L’ambiente nel pensiero costituzionale: un necessario ma rapido excursus [...]

Il riparto di competenze in materia ambientale prima e dopo la riforma a confronto
[...]

Prima di passare all’analisi dell’art. 117, occorre sia pur rapidamente fare un cenno alle modifiche contenute nella riforma costitiuzionale concernenti:
  • le funzioni amministrative (art. 118), in relazione alle quali – oltre alla soppressione del riferimento alle Province, definitivamente abolite dopo il riordino avvenuto con la legge Delrio – si è voluto specificare che “le funzioni amministrative sono esercitate in modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli amministratori”, e che la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni in specifiche materie e di intesa e coordinamento “in materia di tutela dei beni culturali e paesaggistici”;
  • l’autonomia finanziaria (art. 119), per la quale – oltre alla citata soppressione del riferimento alle province e ad una riformulazione linguistica del primo comma – la “riforma Boschi” precisa che le risorse derivanti da tutte le fonti elencate nello stesso articolo “assicurano” (prima consentivano) “il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni”, e che “con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni”;
  • il potere di sostituirsi, da parte del Governo, agli organi delle Regioni (art. 120).
Nella tabella 2 vengono messi a confronto il previgente testo dell’art. 117 della Costituzione e quello che sarà sottoposto al referendum costituzionale di quest’autunno [...]

Le ragioni del “sì”, e quelle del “no” [...]

Le ragioni di chi vorrebbe un progetto di un’Italia che guardi con occhi (e parole) nuovi 

Non “basta un sì”, come ci vorrebbero far credere i supporters della riforma, e non basta limitarsi a dire no, come nella sostanza fanno molti (fra i politicanti) di coloro che, per le ragioni più disparate, aderiscono al #iovotono.
Così come non basta votare sì per essere (oltre a dichiararsi) moderni e riformisti, o votare “no” per credere di continuare a vivere in un Paese incantato dove questa Carta costituzionale debba rimanere a priori inviolabile.
Occorrerebbe quantomeno informarsi sul contenuto della riforma della costituzione, nel suo complesso ma anche, e soprattutto, nelle sue singole parti: già, perché se della riforma “nel suo complesso” bene o male si parla, sia pure in termini molto generici, e al netto dei pregiudizi (o idee politiche) di chi, di volta in volta, ci spiega cosa succederà, non si è mai affrontato seriamente il singolo tema.
Come è successo per l’ambiente, rimasto indietro nella “gerarchia”, forse anche perché percepito ancora una volta come meno…urgente.
Eppure in questo settore i risvolti insiti in questa riforma, che si pone in scia con una certa deriva decisionistica, non sono di poco conto.
Perché se è vero che anche per quanto riguarda l’ambiente la continua mediazione e la continua rivendicazione di competenze, ma anche il suo contrario – il classico rimpallo di competenze (tipico di queste latitudini: “non è di mia competenza”) – hanno indubbiamente creato un ostacolo alla crescita (innanzitutto culturale) del nostro Paese, è altrettanto vero che un decisionismo altrettanto fine a se stesso rischia nella migliore delle ipotesi di non risolvere nulla.
Non è questa la sede più opportuna per discettare sul modus operandi del legislatore nelle sue diverse estrinsecazioni (normative, politiche e diacroniche), ma non si può non notare che – al di là di qualsiasi distinguo ci si voglia prendere la briga di fare – il nostro “modello di crescita” è quello cui si è fatto cenno all’inizio di questo contributo: un “modello pervasivo di semplificazione emergenziale”, nel quale senza soluzione di continuità i legislatori che si sono susseguiti nel tempo hanno collegato il progresso (e la ripresa economica) a progetti di “Grandi Opere”, che naturalmente hanno anche Grandi Impatti sull’ambiente.
Grandi Impatti che, in quanto tali, se non devono soggiacere al ricatto del primo comitato di condominio nato ad hoc per impedire una qualsivoglia opera, non devono neanche, al contrario, essere il frutto di un atto di fede nell’intrinseca bontà di accelerazioni decisioniste, fatte in nome di una non meglio specificata asserita strategicità dell’opera presa di volta in volta in considerazione, in barba alla leale collaborazione (oltre che dell’adeguata ponderazione, condivisione e visione comune).
Un modello che, per fare soltanto un esempio, ha trovato una delle sue ultime massime manifestazioni nello #SbloccaItalia, di cui questa riforma costituisce in qualche modo “lo strumento operativo privilegiato”.
Uno strumento che non solo amplia la competenza esclusiva dello Stato, ricomprendendovi anche materie prima oggetto di competenza concorrente; non solo elimina il comma 4, in base al quale comunque spettava alle Regioni “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, ma addirittura lascia la porta aperta per dilatare ulteriormente il ruolo dello Stato, laddove prevede la “clausola (che si potrebbe definire) ad libitum”, in base alla quale “su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Non sembra, infatti, che anche grazie alle riforme connesse a quella costituzionale (ci si riferisce, in particolare, alla legge elettorale, e alle maggioranze in grado di produrre), la proposta del Governo di intervenire laddove teoricamente non gli dovrebbe competere, possa cadere nel vuoto, se, come e quando dovesse decidere (ad libitum, appunto) di esercitare questa facoltà.
Se è pur vero che la riforma del 2001, a detta degli odierni riformisti, non chiarendo sufficientemente il riparto di competenze aveva avuto come effetto collaterale l’aumento del contenzioso, è pur sempre altrettanto chiaro non solo che i criteri di ripartizione non sono, non possono essere, mai così netti, ma anche che gran parte della responsabilità è da attribuire al nomoteta, che con la scusa dell’emergenza ha legiferato in modo decontestualizzato, senza uno straccio di visione per il futuro e con norme il cui contenuto, inevitabilmente contraddittorio, è spesso anche giuridicamente … caotico? Incomprensibile? Diversamente interpretabile e/o attribuibile? Necessariamente conflittuale?
In ogni caso, che dire delle “disposizioni generali e comuni”, cui si fa riferimento nella riforma, qua e là, nel testo dell’articolo 117, a proposito della tutela della salute, delle politiche sociali e per la sicurezza alimentare, dell’istruzione e formazione professionale, delle attività culturali e sul turismo, del governo del territorio?
Non sono forse espressioni volutamente ambigue che nel riservare ulteriori margini di esclusività statale prestano comunque il fianco ad altre tipologie di contenzioso?
E chi deciderà “dove finiscono le «disposizioni generali e comuni del governo del territorio» e iniziano le disposizioni specifiche, rispetto ad esempio ai rapporti fra attività economiche e tutela del territorio e del paesaggio”?
Allora non è lo strumento, ma chi lo deve utilizzare. Sia esso Stato o Regione.
È una questione di (reciproca e) leale collaborazione, concetto che nonostante rimanga all’interno dell’articolo 120 della Costituzione, con la riforma viene sostituito nei fatti con il “ci penso io” da parte dello Stato: una semplificazione minimalista che relega la riforma, nei fatti, nel calderone delle riforme da riformare, perché (ancora una volta) di facciata e non di sostanza, e comunque passibili di essere dichiarate incostituzionali, come è avvenuto (neanche a farlo apposta) qualche mese fa proprio con lo #SbloccaItalia, che è stato dichiarato incostituzionale in parte qua, ovvero proprio in relazione al più ampio mancato coinvolgimento delle Regioni interessate.
È una questione culturale: perché neanche la migliore delle riforme immaginabili può garantire che non ci siano sprechi (di denaro, di tempo e di vite umane), corruzione, criminalità organizzata, disastri ambientali e sanitari annunciati, …. non solo nelle Grandi Opere, ma anche in quelle che riguardano, dovrebbero riguardare, la vita quotidiana di milioni di persone.
Basti pensare alla recente tragedia ferroviaria accaduta in Puglia…
L’inamovibile paravento costituito dal continuo dibattito su riforme annunciate nasconde il vero problema di fondo (e fa la fortuna di chi da questa situazione può trarre vantaggio): che forse si potrebbero cambiare la cose con quello che abbiamo, se solo le parole (comprese quelle contenute nella Costituzione) fossero utilizzate non in funzione di un risultato politico (che non ci interessa) ma di un obiettivo condiviso, frutto di una pianificazione strutturata effettuata all’interno di una visione.
E con una concertazione che non sia impostata sulla classica contrapposizione di (asserite) diverse esigenze (ideologie), ma su una progressione di competenze e non su recinti (para)ideologici, sulla conoscenza e non sulle conoscenze, sull’uso finalmente corretto e meditato delle parole, in grado di spiegare cosa sta succedendo, e soprattutto cosa potrebbe succedere.
Perché “non si possono dare spiegazioni affrettate e superficiali, bisogna pensarci bene, ci va il tempo che ci va”: e soprattutto non possiamo aspettare che queste spiegazioni ci vengano offerte ex post sempre e solo dalla Corte Costituzionale, che nella cit. sentenza
“ha predisposto una graduazione giurisprudenziale degli strumenti di partecipazione regionale, al fine di dare compiuto svolgimento al principio di «leale collaborazione» tra enti territoriali”, confermando la precedente giurisprudenza ed evidenziando “come, in relazione all’oggetto della decisione e all’organo di raccordo azionato (o da azionare), siano «fisiologiche» talune differenziazioni concernenti l’intensità del coordinamento; e come, ad ogni modo, la concertazione appaia necessaria affinché possa considerarsi rispettato il canone della lealtà in fase di cooperazione tra lo Stato e gli altri enti territoriali”.
Perché – nonostante ci venga presentata nei termini cui si è fatto cenno in premessa – per tornare al punto di partenza e chiudere il cerchio argomentativo, non siamo allo stadio, ma nell’arena della vita di tutti i giorni, e non conta chi ha vinto o ha perso, se a rimetterci è la qualità della nostra vita.