Rifiuti: risarcimento del danno da comportamento della PA (poteri pubblicistici)

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Rifiuti: il risarcimento del danno da comportamento della P.A. è funzionalmente collegato all'esercizio di poteri pubblicistici qual é la raccolta dei rifiuti solidi urbani. 
Sono devolute alla giurisdizione esclusiva amministrativa tutte le controversie attinenti alla complessiva gestione dei rifiuti, e quindi la causa risarcitoria per violazione del diritto alla salute é attratta nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Ogni controversia attinente l'organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani - nel perseguimento del primario interesse pubblico igienico - sanitario - e l'esercizio del correlativo potere dell'Amministrazione comunale, apparteneva alla giurisdizione del giudice amministrativo già prima dell'entrata in vigore della Legge n. 123/08 e del nuovo codice amministrativo. 
Benché la normativa di cui al decreto Ronchi e al testo unico ambientale disciplini le procedure e i provvedimenti in materia di rifiuti urbani, e non i comportamenti connessi alla loro gestione, allorché la lesione di detti diritti sia dedotta come effetto di un comportamento illegittimo perché omissivo di adozione di provvedimenti da emettere per prevenire, impedire, rimuovere l'abbandono dei rifiuti sulle strade, essendo il governo su di essi materia riservata alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi, ad essi compete la controversia anche in via cautelare, se il ricorrente alleghi un pregiudizio grave e irreparabile ad interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute, all'integrità, dell'ambiente, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale. 
 Peraltro le norme che disciplinano il conferimento del potere al Sindaco di adottare provvedimenti contingibili e urgenti per lo smaltimento dei rifiuti anche in deroga alle disposizioni vigenti sono volte a regolamentare in modo diretto ed immediato l'esercizio della funzione pubblica e, soltanto di riflesso, le posizioni soggettive di coloro che si trovano in una situazione differenziata e qualificata rispetto a quella della generalità dei cittadini, e che perciò sono soggette alla giurisdizione amministrativa.


Amianto: il datore di lavoro è oggettivamente responsabile? Cassazione 18627/13

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L’art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge (in materia di amianto, nel caso di specie) o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore dì lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi

È scientificamente assodato che la tossicità dell'amianto si manifesta principalmente in caso di inalazione delle relative fibre e che il rischio per la salute è direttamente legato alla quantità ed al tipo di fibre inalate, alla loro stabilità chimica nonché ad una predisposizione personale a sviluppare la malattia. 
In altre parole, la scienza medica ha appurato che mentre nel mesotelioma pleurico, nei soggetti suscettibili esposti ad amianto, l'effetto cancerogeno può essere conseguente ad una "dose" estremamente bassa, al contrario, per tutti gli altri tumori - compreso il carcinoma polmonare da amianto - dosi basse non producono effetti epidemiologicamente dimostrabili. 
È stato anche specificato che il carcinoma polmonare è in rapporto sicuro con l'amianto solo se vi è asbestosi o "l'evidenza di un'affezione pleurica causata dall'amianto", in quanto in difetto di tali evenienze, il suddetto tumore può essere conseguenza, ad esempio, del fumo di sigarette. Il che presuppone obiettivi riscontri anatomo-patologici e il rinvenimento di fibre di amianto nei polmoni in quantità rilevanti. 

Nella fattispecie analizzata dalla Cassazione (18627/13), la Suprema Corte ha evidenziato che, se è vero che i ferodi dei freni dei mezzi meccanici di vecchia fattura contenevano amianto e ciò vale anche per quelli dei sistemi frenanti degli ascensori, è altrettanto vero che l’affermazione del collegamento - causale o concausale - dell'esposizione all'amianto con l'insorgenza di un tumore polmonare da parte di un manutentore ascensorista (venuto in contatto con ferodi dei freni di vecchia fattura) è necessario dimostrare l'effettiva ricorrenza delle condizioni di polverosità da asbesto dell'ambiente di lavoro.
Va, inoltre, considerato che l'esposizione all'amianto nella lavorazione sui sistemi frenanti assume, per i manutentori ascensoristi, un rilievo diverso rispetto a quello che si riscontra nella cantieristica navale, per i lavoratori che hanno svolto attività di manutentori meccanici (con interventi sui sistemi frenanti di gru e carri ponte spesso effettuati con frequenza giornaliera, dato l'elevato numero di mezzi meccanici da sottoporre a manutenzione periodica) così come per gli addetti ai sistemi frenanti di automezzi di medie e grosse dimensioni delle aziende di trasporto pubblico nonché per gli operai meccanici che abbiano svolto anche il lavoro di gommista, stando così a stretto contatto con le polveri di amianto che si raccolgono sia all'interno di tutto il sistema frenante sia all'interno degli pneumatici. 
Di qui l'esclusione della rilevanza causale o concausale della suddetta esposizione rispetto alla malattia, cioè la configurazione di tale elemento come antecedente privo, in concreto, dì efficienza causale.


Materiali derivati dallo sfruttamento delle cave: quando non sono rifiuti

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La disciplina giuridica dei fanghi si pone, a livello giuridico e concettuale, a cavallo fra quella relativa alla gestione delle acque e quella sulla gestione dei rifiuti. Una particolare categoria di fanghi è quella costituita dai limi provenienti dalla c.d. “prima pulitura” dei materiali di estrazione, che vanno considerati come derivanti direttamente dallo sfruttamento della cava e non da diversa e successiva lavorazione delle materia prime. 

La disciplina giuridica dei fanghi si pone, a livello giuridico e concettuale, a cavallo fra quella relativa alla gestione delle acque e quella sulla gestione dei rifiuti. 
A mero titolo di esempio, nella parte dedicata alla disciplina degli scarichi, il TUA stabilisce che i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione, specificando che i fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato e che è vietato lo smaltimento dei fanghi nelle acque superficiali dolci e salmastre. 
Una particolare categoria di fanghi è quella costituita dai limi provenienti dalla c.d. “prima pulitura” dei materiali di estrazione, che vanno considerati come derivanti direttamente dallo sfruttamento della cava e non da diversa e successiva lavorazione delle materia prime. 

Il caso oggetto della sentenza della Cassazione n. 26405/13 riguarda la condanna per l’abbandono/deposito incontrollato di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da fanghi derivanti da quattro vasche di decantazione e provenienti da un impianto di lavorazione degli inerti, su area sottoposta a vincolo paesaggistico.
Nell’annullare con rinvio, in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena, richiesta ma non concessa senza alcuna motivazione, la Cassazione ha ritenuto non corrette le osservazione formulate circa l’insussistenza dei reati ipotizzati. 
Evidenziato il totale silenzio serbato in ordine al reato paesaggistico dal ricorrente, e il suo concentrarsi unicamente sulle violazioni contestate in materia di gestione dei rifiuti, la Suprema Corte inizia il suo ragionamento demolitorio delle pretese del ricorrente partendo dall’analisi dello specifico articolo del TUA che include nell’elenco delle esclusioni dall’ambito di applicazione della normativa – in quanto “regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento” (art. 185) – i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave (disciplinato dal D.Lgs n. 117/08).

Il percorso argomentativo della Cassazione 
Ambito di applicazione del D.Lgs n. 117/08: stabilisce le misure, le procedure e le azioni necessarie per la prevenzione e la riduzione di eventuali effetti negativi per l’ambiente conseguenti alla gestione dei rifiuti prodotti dalle industrie estrattive È disciplina speciale rispetto a quella di cui al TUA, che rimane applicabile in tutti i casi non disciplinati da quella speciale Epoca dei fatti: l’art. 185 non conteneva il richiamo al D.Lgs n. 117/08 
Ambito di operatività dell’esclusione per tale tipologia di materiali: sono esclusi dalla normativa sui rifiuti soltanto i materiali derivati dallo sfruttamento delle cave quando restino entro il ciclo produttivo dell’estrazione e connessa pulitura Lo sfruttamento della cava non può confondersi con la lavorazione successiva dei materiali Se si esula dal ciclo estrattivo, gli inerti provenienti dalla cava sono da considerarsi rifiuti, e il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica è regolato dalla disciplina generale.

Nel caso di specie, la Cassazione non ha neanche potuto applicare i principî, sopra schematizzati, dal momento che gli accertamenti in fatto hanno rilevato che i fanghi de quibus erano non palabili o parzialmente palabili, ma in ogni caso derivanti da attività di demolizione e, pertanto, non provenienti d attività estrattiva propriamente detta, e neanche da attività ad essa connesse. 
Non è sufficiente, quindi, il generico richiamo effettuato dal ricorrente a non meglio specificate “attività di lavorazione degli inerti”: a questo proposito, occorre ricordare come, nell’applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria, rispetto a quella ordinaria in materia di gestione dei rifiuti, l’onere della prova sulla sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione.


Traffico illecito di rifiuti: non è necessario il verificarsi di un danno ambientale

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Il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti rappresenta uno strumento molto importante e molto più efficace rispetto ai normali reati contravvenzionali previsti in materia ambientale. 
La sentenza della Cassazione n. 26404/13 ci permette non solo di riassumere brevemente gli elementi costitutivi del reato, ma di evidenziare un aspetto importante: che non rientrano tra i presupposti del reato né il danno ambientale né la minaccia grave dello stesso. 

Il traffico illecito di rifiuti è un reato che non soltanto mette in pericolo la salubrità dell’ambiente e la salute dell’uomo, ma distorce la concorrenza fra le imprese, a causa della concorrenza sleale operata dalle imprese che si rivolgono al mercato nero dello smaltimento non solo nei confronti delle imprese che operano nella legalità (si calcola che tali imprese riescano ad abbattere fino al 90% dei costi legati alla gestione dei rifiuti), ma anche rispetto alle società che operano nel settore del riciclo di materia (riduzione di attività e, quindi, di fatturato). 
Lo strumento più efficace del nostro ordinamento per la lotta al traffico illecito di rifiuti è rappresentato da un articolo del TUA, intitolato “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, che punisce con una sanzione penale chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti. 
Il delitto in questione è uno strumento molto importante e molto più efficace rispetto ai normali reati contravvenzionali previsti in materia ambientale: gli inquirenti, anche grazie all’utilizzo di strumenti investigativi particolarmente incisivi (intercettazioni; rogatorie internazionali; prescrizioni più lunghe) sono riusciti a smantellare articolate organizzazioni criminali e strutture transnazionali. 

Di recente, proprio per la sua gravità, il delitto de quo è stato introdotto fra quelli di competenza delle procure distrettuali antimafia. 

La sentenza della Cassazione n. 26404/13 ha di recente affermato che non rientrano tra i presupposti del reato né il danno ambientale né la minaccia grave dello stesso, atteso che la previsione di ripristino ambientale contenuta nella norma (“il giudice ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente”) si riferisce alla sola eventualità in cui il danno o il pericolo si siano effettivamente verificati e non muta la natura del reato da reato di pericolo presunto a reato di danno.


Non può essere ordinata la messa in sicurezza d’emergenza se la contaminazione è storica

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Il ricorso a misure di messa in sicurezza di emergenza, anche per il carattere immediato e a breve termine dell’intervento, deve essere collegato alla necessità di evitare, nell’immediato e al di fuori del percorso procedimentale descritto dal codice ambientale, fenomeni di estensione o propagazione del fenomeno inquinante che generino rischi concreti e imminenti per l’ambiente e la salute. 
Nessuna messa in sicurezza di emergenza nel caso di contaminazioni storiche.

TAR di Napoli (n. 3660/13): una società operante nel settore della produzione di resine e vernici, con stabilimento in un ex SIN, impugna due provvedimenti con i quali il ministero dell’ambiente aveva ordinato di attivare idonee misure di messa in sicurezza d’emergenza attraverso l’emungimento delle acque di falda e il successivo trattamento/smaltimento, al fine di impedire la diffusione della contaminazione a valle idrogeologico dell’area. 
L’ordine di adottare la MISE, motivato sulla base della non conformità ai limiti di legge sia per i suoli che per le acque di falda, veniva dato dal ministero a ben sei anni di distanza. In risposta al provvedimento, la società: 
  • non solo inviava al ministero una relazione tecnico-ambientale dalla quale emergevano le ragioni per cui non avrebbero potuto essere adottati interventi di messa in sicurezza d’emergenza. 
  • ma proponeva anche ulteriori indagini per il documento di analisi di rischio, propedeutico alla presentazione del piano operativo di bonifica. 
L’impugnazione era volta ad evidenziare che:
  • la potenziale contaminazione da metalli dell’acquifero superficiale era riconducibile soprattutto a fenomeni naturali, mentre quella da tetracloroetilene era ricollegabile a modesti sversamenti avvenuti in passato (dal 1992 tale sostanza non viene più utilizzata nello stabilimento);
  • l’attività di emungimento indiscriminato, senza opportune indagini preliminari conoscitive della successione stratigrafica locale, avrebbe comportato il “richiamo di plume di potenziale contaminazione dalle aree interne dello Stabilimento verso le zone di valle idrogeologico”; 
  • trattandosi di contaminazioni storiche e, comunque, di fenomeni privi di rischi immediati per la salute e per l’ambiente, non era possibile disporre l’attivazione di messa in sicurezza di emergenza, ma quell’articolo del testo unico ambientale (242, comma 11), in base al quale nel caso di eventi avvenuti anteriormente all’entrata in vigore del TUA, che si manifestino successivamente in assenza di rischio immediato per l’ambiente e per la salute pubblica, il soggetto interessato comunica alla regione, alla provincia e al comune competenti l’esistenza di una potenziale contaminazione unitamente al piano di caratterizzazione del sito, al fine di determinarne l’entità e l’estensione con riferimento ai parametri indicati nelle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). 
Per far chiarezza, il TAR effettua la distinzione fra teoria e pratica.
È vero (teoria), infatti, che le condizioni di urgenza previste dal TUA assumono analoga consistenza e gravità, e quindi non è illogico che un inquinamento della falda profonda sia trattato alla stregua di una condizione di emergenza al fine di adottare, se possibile, interventi immediati o a breve termine mirati a rimuovere le fonti dell’inquinamento e ad evitare la diffusione della contaminazione. 
Ma è altrettanto vero (pratica) che, com’è accaduto nel caso di specie, quando si è in presenza di una situazione di risalente contaminazione, che necessita di interventi di bonifica per i quali già da tempo il responsabile ha avviato presso il Ministero il relativo procedimento, volto a conseguire risultati di ripristino ambientale strutturali e il più possibile durevoli, il ricorso a misure di messa in sicurezza di emergenza, anche per il carattere immediato e a breve termine dell’intervento, deve essere collegato alla necessità di evitare, nell’immediato e al di fuori del percorso procedimentale descritto dal codice ambientale, fenomeni di estensione o propagazione del fenomeno inquinante che generino rischi concreti e imminenti per l’ambiente e la salute.