Il ripristino naturale non estingue il reato paesaggistico

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Il reato di cui all’art. 181 del “codice Urbani” (reato paesaggistico) è di pericolo astratto. Non è necessario, dunque, un effettivo pregiudizio per l’ambiente; per il suo perfezionamento è sufficiente l’esecuzione di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato; si configura anche nel caso in cui, per il mero decorso del tempo e senza l’intervento dell’uomo (ripristino naturale) gli effetti prodotti dalla condotta illecita siano venuti meno, restituendo ai luoghi l’originario assetto. 

Il caso, oggetto dell’analisi della sentenza n. 6299/13 della Cassazione penale riguarda la possibilità di configurare il reato paesaggistico nell’eventualità in cui vi sia stato il ripristino dei luoghi senza intervento umano, per il semplice decorso del tempo.
I fatti – storici e giuridici – che hanno portato alla decisione della Suprema Corte sono, in estrema sintesi, i seguenti. 
Gli imputati – condannati in primo e secondo grado, per i reati di cui ai citati artt. 181, comma 1, del DLgs n. 42/2004 e 44, comma 1, lett. c), del DPR n. 380/01, per aver eseguito, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, lavori in difformità dai titoli abilitativi rilasciati, attraverso l’escavazione abusiva della sponda di un canale e il deposito del materiale all’interno delle barene, anziché il suo posizionamento sulla sponda – ricorrevano in Cassazione sostenendo: 
a) che gli interventi eseguiti non avrebbero determinato alcuna alterazione dello stato dei luoghi, specie considerando la particolare conformazione delle barene (terreni molli in continuo movimento). A dar rilevanza a questa tesi il fatto che il giudice di primo grado non ne aveva ordinato la rimessione in pristino, dal momento che medio tempore la stessa era comunque avvenuta naturalmente: sulla base di questa circostanza, il giudice avrebbe dovuto per lo meno ritenere integrata la causa estintiva di cui all’art. 181, comma 1-quinquies del D.Lgs n. 42/04, in base al quale “la rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il reato”, per “ovvie” ragioni legate al fatto che il ripristino naturale ha, nei fatti, impedito quello del trasgressore, e che, diversamente, ci sarebbe stata una disparità di trattamento fra coloro che possono rimediare all’intervento eseguito e coloro il cui intervento non ha determinato alcuna modifica dei luoghi; 
b) che gli interventi eseguiti non supererebbero la soglia della “variazione essenziale” di cui al cit. art. 44, comma 1, lett. c) del DPR 380/01. 

La Cassazione ha “approfittato” dell’occasione fornita da questo peculiare caso per “fare il punto” (sintetico) del pensiero della Suprema Corte in materia di reati paesaggistici, che si sviluppa su tre ordini di pensiero.

Innanzitutto la considerazione che il reato di cui all’art. 181 del Codice Urbani é un reato formale e di pericolo che si perfeziona, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, con la semplice esecuzione di interventi non autorizzati idonei ad incidere negativamente sull’originario assetto dei luoghi sottoposti a protezione. Ciò significa che il legislatore ha ritenuto opportuno assumere, almeno in teoria, una posizione intransigente in tema di tutela del paesaggio, punendo ogni intervento che astrattamente è in grado di incidere negativamente sull’originario assetto del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico.

In secondo luogo, e di conseguenza, l’individuazione della potenzialità lesiva di questa tipologia di interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all’ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato. Detto altrimenti: il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l’attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto. 

In terzo luogo l’inequivocabilità della disposizione che confina la sua efficacia ai soli casi in cui la rimessione in pristino delle aree o degli immobili vincolati, interessati dall’intervento abusivo, sia effettuata spontaneamente dal trasgressore prima che venga disposta d’autorità ed, in ogni caso, prima che intervenga la condanna: come a (rida)dire che un conto è l’iniziativa spontanea del trasgressore, un altro è l’approfittarsi ex post di una situazione creatasi per “spontanea” iniziativa della natura.


La nuova bolla speculativa in arrivo dalla finanza: lo shale gas

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Negli ultimi quarant’anni il consumo mondiale di energia è più che raddoppiato, e si prevede che nei prossimi cinque lustri aumenterà di un ulteriore 44%: considerato che il peso delle fonti fossili di energia continuerà a pesare per l’ottanta per cento del totale, dove e come trovare combustibili fossili che, costituendo fonti non rinnovabili, prima o poi – per semplice definizione – si esauriranno? 
Negli ultimi anni si è rapidamente assistito ad un sempre più sbandierato entusiasmo nei confronti delle nuove tecniche di estrazione (come il fracking) e lo sviluppo della produzione di fonti energetiche “non convenzionali” (tar sands e shale gas): un entusiasmo “frenetico”, figlio della necessità di trovare ad ogni costo il modo di produrre sempre più una “nuova-vecchia” energia: nuova per far fronte alle crescenti necessità della moderna società energivora, vecchia per la tendenza a procrastinare il più possibile l’avvento di un nuovo paradigma sostenibile di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. 

Un entusiasmo che, non essendo così giustificato, e dovendo fare i conti con la realtà geologica, ambientale ed economica, ha creato soltanto: 
  • una retorica dialettica sulla presunta indipendenza energetica che queste nuove forme di “energia non convenzionale” (una nuova miniera meramente speculativa) permetterebbero, e 
  • una bolla speculativa che rischia non solo di vanificare le speranze di chi ha creduto nel nuovo eldorado energetico, ma anche di danneggiare (ulteriormente) l’economia globale, attraverso strumenti finanziari creati ad hoc per nascondere, temporeggiando, le magagne di un sistema che sta in piedi soltanto per consentire “ai soliti noti” di poter giustificare le loro scelte. 
Iniziano – e si concludono – rispettivamente con questo interrogativo retorico e queste amare considerazioni i rapporti del Post Carbon Institute (PCI), provocatoriamente intitolato “Drill, baby, drill”, e quello dell’Energy Policy Forum (EPF) altrettanto provocatoriamente in titolato “Shale and WallStreet: was the decline in natural gas prices orchestrated?”.

Il primo, nello studiare le dinamiche energetiche statunitensi, parte dalla considerazione – elementare, se solo si analizzano i dati storici – che, nonostante la “retorica USA”, cui si è fatto riferimento, gli Stati Uniti difficilmente riusciranno ad essere indipendenti dal punto di vista energetico, dal momento che la “tanto annunciata” riduzione delle importazioni di petrolio negli ultimi anni si è risolta in una riduzione dei consumi , più che in un aumento della produzione interna. Il report analizza le unconventional Energy resources che hanno giustificato l’entusiasmo, cui si è fatto cenno: 
  1. 1. in relazione alla prima fonte non convenzionale per la produzione di energia, lo shale gas – il “gas di scisto”, quello che si estrae dalle rocce scistose con la cit. tecnica del “fracking”, iniettando in profondità acqua, sabbia e sostanze chimiche in grado di distruggere la roccia ed estrapolare il gas – il PCI evidenzia che, dopo l’iniziale boom produttivo, nel 2011 la produzione ha subito un brusco rallentamento, causato dalla rapida perdita di produttività dei giacimenti, che si esauriscono nel vertiginoso/vorticoso volgere di 3/4 anni, con un declino della produttività, in questo arco temporale, di circa il 90%. Un ottimismo dunque ingiustificato per una presunta abbondanza soltanto apparente (qualcuno aveva parlato anche di un’indipendenza per almeno cento anni) che tuttavia ha provocato – potere della fiducia – l’aumento di forti investimenti probabilmente destinati a dissolversi. Detto in altri termini, si tratta di una “bolla” – termine che in questi anni abbiamo imparato a conoscere – speculativa, una bomba ad orologeria che potrebbe – più prima che poi – scoppiare nelle mani di investitori ignari: sulla base dell’analisi dei dati – fisici e tecnologici – gli esperti del PCI hanno stimato, infatti, che, per mantenere l’attuale livello di produzione di shale gas (definito, in dottrina, una riserva di energia “usa e getta”) dovrebbero essere trivellati più di settemila pozzi ogni anno (da qui il titolo “Drill, baby, drill), con un investimento di circa 42 miliardi di dollari all’anno. Un costo – più che un investimento – che va a sommarsi con quelli ambientali, prodotti dal contestato fracking; 
  2. discorso analogo è fatto per il tight oil e le tar sands. Il primo, il petrolio intrappolato nelle rocce o nelle argille, ed estratto sempre tramite fracking, infatti, prodotto attualmente per l’80% in due soli giacimenti, richiederebbe 35 miliardi di dollari all’anno di “investimenti” per realizzare, nello stesso arco temporale, seimila nuovi pozzi. Le seconde, le sabbie bituminose, estratte attraverso le tecniche del Cycle Steram Stimulation e dello Steam Assisted Gravity Drainage, invece, richiedono input di capitale molto elevati (alcune stime indicano in 100 dollari al barile), tempi più lunghi e una qualità del prodotto finale decrescente; 
  3. gli altri idrocarburi non convenzionali (oil shale¸ coalbed methane; gas hydrates, Arctic oil and gas) e le alter tecnologie utilizzabili (coal-and gas-to-liquids; in situ coal gasification) hanno prospettive di crescita ridotte. 
Il Post Carbon Institute conclude la propria analisi – fondata su una minuziosa ricostruzione storica, utile a capire come sono state utilizzate, in passato, le risorse disponibili; su dettagliati reports relativi a tutte le fonti considerate; sulla verifica del delta fra l’energia prodotta e quella necessaria per produrla – evidenziando che le nuove fonti non convenzionali, portate alla ribalta da nuove tecnologie di estrazione, hanno sicuramente fornito per un po’ (molto poco) respiro alla crescita della produzione naturale, se non altro in prospettiva: ma la realtà ha tarpato le ali ai facili entusiasmi di coloro che, forse un po’ troppo in fretta (rectius: freneticamente), ne hanno magnificato le virtù, sulla base di entusiasmo che, proprio per questo, ha nascosto una parte – la più importante – di “verità”.

Tant’è che il secondo report smaschera il meccanismo costruito per tenere in qualche modo su, per quanto possibile, questo sistema altrimenti destinato prima, molto prima, al collasso. 
Operazioni di compravendita di pozzi e derivati sulla produzione la cui dinamica ricorda quella che, soltanto pochi anni fa, ha innescato la crisi di cui ancora fatichiamo a vedere la fine: quella che ha portato allo scaricabarile dei subprimes sui mutui, promesse che chi faceva sapeva non essere mantenibili, semplicemente declinate in forma diversa. Oggi, infatti, Wall street sta guadagnando su risorse che in realtà valgono meno di quello per cui vengono scambiate. 
In estrema sintesi, il documento dell’EPF analizza i perché nascosti dietro il paravento dell’ostentato ottimismo, partendo dall’anomalia delle recenti operazioni di fusione legate alle “fonti non convenzionali”, che hanno raggiunto il volume di 46,5 miliardi di dollari, diventando “il più grande centro di profitto per diverse banche d’investimento”, nonostante le sovra stime sulle riserve di tali fonti energetiche. 
L’eccesso di offerta, prodotta da quell’eccesso di trivellazioni, cui si è fatto cenno, ha spinto i prezzi a livelli talmente bassi da renderli economicamente non sostenibili; a loro volta, questi prezzi hanno determinato, appunto, fusioni milionarie per le banche d’investimento, attraverso lo spregiudicato utilizzo di strumenti finanziari complessi. 
Si tratta di un circolo vizioso creato proprio dall’“effetto annuncio”, alimentato dall’entusiasmo che ha indotto i legislatori a promuovere lo sviluppo del settore, a partire dalle esplorazioni, ovviamente a vantaggio (cleary benefit) delle imprese operanti nel settore, che in questo modo si sono assicurate il massimo dei vantaggi con il minimo dei costi. 
L’analisi indipendente (e – testuale – “spassionata”) prende spunto proprio dalla considerazione sull’ingenuità – figlia di quell’entusiamo – di chi immagina che le compagnie petrolifere possano avere riguardo a qualcos’altro che non sia l’estrazione di idrocarburi nel modo più economico ed efficiente possibile, facendoli pagare il più alto prezzo “praticabile”: di chi, in sostanza, immagina che possano esistere motivi “altri” rispetto al ritorno economico privato (anche se a volte può portare, ma solo come casuale esternalità positiva, benefici effetti). 
Ottimismo ed entusiasmo, da un lato, e ingenuità, dall’altro, hanno quindi creato questo boom, che come tutti i boom ciclici, possono – se lasciati incontrollati – avere effetti collaterali, perché: 
  • hanno in comune la caratteristica di essere governati più dall’emotività che dalla ragione;
  • producono prodotti finanziari “intenzionalmente ed intrinsecamente complessi” come i VPP, i Volumetric production payments, che sovente vengono piazzati, assieme ad altri asset su riserve non provate, ad investitori con poca dimestichezza con le complesse dinamiche della produzione da fossili, 
  • specie quando si cerca di distogliere l’attenzione dal crollo del prezzo del gas naturale, come evidenziato nel paragrafo “The demise of the NGL market”. 
Ancora una volta, dunque, la finanza interviene a gamba tesa, questa volta in soccorso di una “filosofia” politica aggrappata a due diversi conservatorismi: da un lato quello energivoro – poco attento alle dinamiche dell’efficienza e del risparmio energetico, e poco incline a promuoverlo, al di là della retorica – volto alla produzione di “nuova” energia (in termini fisici) e, dall’altro, quello ancorato al fossile, nuovo o vecchio che sia.
La finanza non fa distinzioni, e abbiamo visto, in materia di project bond, che la sua “creatività” coinvolge, può coinvolgere, anche le rinnovabili. 
Ma il minimo comun denominatore è sempre lo stesso: creare bolle speculative in grado di soddisfare gli interessi di pochi, spacciando le proprie azioni, ammantate da un contagioso entusiasmo, come l’antidoto con il quale affrontare la crisi di turno, che in precedenza è stata in qualche modo facilitata dalla stessa finanza. 
Un sistema non sostenibile sotto tutti i punti di vista, che se non opportunamente – in fretta ma senza la frenesia che ha caratterizzato l’incedere dei vari legislatori negli ultimi anni – controllato, rischia di creare dei danni (ulteriori a quelli già provocati) cui sarà sempre più difficile porre rimedio, e di incanalarci in un cul de sac che potrebbe – in quel caso forse sì – renderci dipendenti per cent’anni. 
Di solitudine.

Articolo pubblicato su "Il quotidiano Ipsoa. Professionalità quotidiana"


Bonifiche, trasformazioni societarie: il gioco delle tre carte?

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Come “gestire” la responsabilità per la bonifica di siti contaminati a valle di trasformazioni societarie
In particolare, cosa accade a seguito della cessione di un ramo d’azienda o della fusione per incorporazione? 
Di recente è intervenuto sull’argomento il TAR di Firenze che, con la sentenza n. 667 del 22 aprile 2013, per  dirimere una controversia che vede coinvolta l’Edison, divenuta proprietaria di un sito a seguito di un “girandola” di cessioni/trasformazioni societari, di seguito schematizzata.



Oggetto della sentenza era l’esistenza dell’obbligo, posto a carico della Montedison S.r.L., prima, e della Edison S.p.A., poi, di adottare una serie di prescrizioni (integrare le misure di messa in sicurezza d’emergenza con riferimento ad alcuni superamenti dei valori limite di sostanze inquinanti riscontrati nelle acque sotterranee; ulteriori obblighi di bonifica; ecc.) su un’area di proprietà della La Victor s.c.a.r.l. 

In sostanza, si trattava di risolvere la problematica concernente la legittimazione passiva agli obblighi di bonifica di tale società. 

Il Collegio, dopo aver evidenziato che non sussistono ostacoli a considerare la Montedison s.r.l., ed oggi la Edison s.p.a., come sostanziali successori/continuatori della Farmoplant s.p.a., come tali, soggetti agli obblighi di bonifica derivanti dall’attività inquinante svolta dalla dante causa, ha precisato che: 
  • la girandola di cessioni/trasformazioni societarie che ha interessato il ramo d’azienda e i terreni ricadenti nel S.I.N. di Massa Carrara “non ha determinato una qualche cesura giuridica idonea a determinare la non imputabilità dei detti obblighi di bonifica alla società ricorrente”; 
  • in particolare, è del tutto inidoneo a determinare una qualche cesura giuridicamente rilevante il conferimento di ramo d’azienda tra la Farmoplant s.p.a. e la CERSAM s.r.l., dal momento che è stato  accompagnato, “oltre che dalla completa cessione di ogni rapporto giuridico (anche di debito o credito) imputabile al ramo d’azienda ceduto anche dal subingresso della CERSAM s.r.l. negli obblighi scaturenti a carico della “Farmoplant s.p.a.” in liquidazione […] e, quindi, anche negli obblighi di disinquinamento derivanti dall’attività svolta dalla cedente sulle aree in riferimento”; sotto il profilo amministrativo, il subingresso della CERSAM s.r.l. nel procedimento di bonifica già instaurato dalla Farmoplant s.p.a. è stato successivamente confermato da un Protocollo d’intesa, nel quale è stata evidenziata “chiaramente la volontà della CERSAM s.r.l. di subentrare nel procedimento di bonifica già instaurato da Farmoplant s.p.a. e di succedere alla stessa ad ogni titolo negli obblighi di bonifica, senza alcuna cesura o interversione del titolo (in astratto, il procedimento di bonifica avrebbe, infatti, anche potuto essere continuato da un nuovo proprietario del bene che non assumesse la qualità di successore nei rapporti giuridici della dante causa)”. 
In definitiva, chiosa il TAR di Firenze, “il conferimento di ramo d’azienda in questione deve essere pienamente riportato alla fattispecie di cui all’art. 2558 c.c., con consequenziale successione della CERSAM s.r.l. negli obblighi di bonifica e nei consequenziali procedimenti amministrativi instaurati dalla Farmoplant s.p.a.”.
I successivi mutamenti societari – sopra schematizzati – inoltre, “sono poi avvenuti dopo l’entrata in vigore (in data 1° gennaio 2004) della modifica del diritto societario di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 e, pertanto, per univoca giurisprudenza, non hanno dato vita ad un fenomeno successorio in senso proprio, ma ad una «vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico» che non comporta ovviamente una qualche possibile cesura idonea a determinare l’impossibilità di riportare gli obblighi di bonifica incombenti su CERSAM s.r.l. (a titolo di successore di Farmoplant s.p.a.) alle aventi causa e, quindi, anche a Montedison s.r.l. ed oggi a Edison s.p.a.”. 

Tuttavia, una volta risolta in senso negativo per la ricorrente la problematica della legittimazione passiva della ricorrente agli obblighi di bonifica, il Collegio non ha potuto che rilevare come l’accertamento fattuale della necessità di riportare la situazione di inquinamento presente nell’area alle lavorazioni effettuate dalla società cedente apparisse caratterizzato da evidente difetto di istruttoria e di motivazione.


Il sequestro preventivo può riguardare anche l’intera azienda

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Con la sentenza n. 18603/13 la Cassazione è intervenuta per la prima volta sul tema della sequestrabilità dell’azienda come bene produttivo, sancendo inter alia che in materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali. 


La vicenda processuale 

La vicenda trae origine da un sequestro preventivo di due S.r.L. e delle relative aziende, disposto da un giudice per le indagini preliminari nel quadro del procedimento penale relativo al reato di lesioni personali colpose commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni dei lavoratori. 
Il Tribunale di Firenze, nell’annullare con ordinanza il sequestro preventivo disposto dal GIP, aveva evidenziato l’inammissibilità del sequestro preventivo in relazione ad un’attività imprenditoriale: il carattere prettamente ablatorio (e non interdittivo) del sequestro preventivo, infatti, impone la sola riferibilità ad una res pertinente al reato. 
Di conseguenza, sono sequestrabili soltanto beni, e non un’impresa o un’attività imprenditoriale, “vieppiù a fronte della piana ricorribilità ai rimedi specifici di cui al D.Lgs. n. 231/2001 (in tema di responsabilità amministrativa degli enti) esperibili anche in relazione al delitto di lesioni personali gravi”. 

Le motivazioni dell’impugnazione da parte del PM
Violazione di legge
Il giudice ha erroneamente ritenuto che il sequestro fosse volto allimposizione di uninibitoria nei confronti di unattività imprenditoriale, e non di un vincolo reale su beni riguardanti nella loro materialità.
La misura cautelare, al contrario, era stata disposta sulle società e sulle aziende costituenti l’insieme dei beni che limprenditore destina alla propria impresa.
Beni come mezzo per la realizzazione del reato contestato
All’imputato è stata ascritta la realizzazione di un’organizzazione imprenditoriale del tutto priva di qualsivoglia forma di cautela o di misura precauzionale funzionale alla sicurezza e all’incolumità dei lavoratori impiegati.
Rapporti con il D.Lgs n. 231/01
Non ha alcun rilievo il D.Lgs n. 231/01, nel caso de quo: infatti, sono diversi i presupposti delle misure cautelari disciplinate da tale testo normativo e il sequestro preventivo, nel caso di specie immediatamente destinato ad inibire l’esercizio di un’attività imprenditoriale pericolosa mediante l’uso dei beni strumentali.

Un passo indietro: la pertinenzialità necessaria per il sequestro di azienda 

Prima di analizzare la novità contenuta nella sentenza della Cassazione n. 18603/13, occorre premettere che tutta la giurisprudenza che, in passato, si è occupata del tema della sequestrabilità, o meno, dell’azienda, ha avuto come “faro” esclusivo il suo eventuale rapporto di pertinenzialità rispetto al reato. 
Ferma restando l’insequestrabilità delle società commerciali tout court, la Cassazione ricorda le alterne vicende che hanno caratterizzato la giurisprudenza nel recente passato in relazione proprio al tema del sequestro preventivo di aziende, e il minimo comun denominatore posto alla base delle stesse. 
Se, infatti, ed in relazione a vicende riguardanti l’impiego di lavoratori privi del permesso di soggiorno, la Cassazione ha affermato, a volte, la legittimità del sequestro preventivo di immobili, strutture e apparecchi costituenti l’azienda funzionalmente ed economicamente produttiva, “allorché essi siano impiegati per lo svolgimento dell’attività lavorativa prevalente di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno, essendo l’imposizione del vincolo funzionale ad impedire la prosecuzione dello sfruttamento di manodopera illegale” (ex multis, cfr. Cass. Pen., n. 18550/09), in altri casi ha, al contrario, escluso l’assoggettabilità a tale misura cautelare “dell’immobile, delle strutture e degli apparecchi costituenti l’azienda funzionante ed economicamente produttiva in ragione dell’occupazione non totalitaria o prevalente di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, in quanto tali beni non sono in rapporto di pertinenzialità” (nel caso analizzato dalla sentenza della Cassazione n. 34605/07, ad esempio, rispetto al reato di cui all’art. 22, D.Lgs. n. 286/98). 

La sequestrabilità dell’azienda come bene produttivo 

La novità contenuta nella sentenza 18603/13 della Cassazione risiede proprio nel fatto di aver analizzato la problematica da un altro angolo visuale: quello della sequestrabilità in sé dell’azienda, come bene produttivo, secondo la definizione datane dall’art. 2555 del c.c., in base al quale l’azienda è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. 
In materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un’intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l’azienda svolga anche normali attività imprenditoriali. 

Focus sugli indizi: sono valide anche gli elementi di prova provenienti da un altro procedimento
Cassazione Penale
n. 37024/11
Sono utilizzabili ai fini dell’applicazione di misure cautelari reali, quando questi siano stati richiesti in fase dibattimentale, anche elementi di prova provenienti da altri procedimenti e non ancora acquisiti in  dibattimento, analogamente  a  quanto  stabilito  dalla  stessa  Corte  di Cassazione, in materia di misure cautelari personali.

Sono utilizzabili come gravi indizi di colpevolezza, ai fini della vantazione di legittimità delle misure cautelari personali, atti di altri procedimenti, indipendentemente dalla circostanza che siano state osservate le condizioni stabilite nell’art. 238 c.p.p., non richiamate dall’art. 273 stesso codice.

Lo stesso principio non può che valere anche ai fini della valutazione della sussistenza del fumus commissi delicti, in materia di misure cautelari reali.

Di conseguenza, l’ordinanza impugnata è stata emessa – evidenzia la Cassazione – è stata emessa in violazione di legge “nella parte in cui esclude, in via di principio, la suscettibilità dell’azienda a costituire oggetto di sequestro preventivo, indipendentemente dall’indagine di merito riguardante il rapporto di pertinenzialità della misura rispetto al reato, ovvero l’eventuale proporzionalità di detta misura cautelare rispetto alle esigenze cui è destinata”. 
In conclusione, occorre fare un sia pur rapido cenno ai principî di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, di cui all’art. 275 cpp: la Cassazione, infatti, ricorda che tali principî , previsti per le misure cautelari personali, “devono ritenersi applicabili anche alle misure cautelari reali e devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell’applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata. Ne consegue che, qualora detta misura trovi applicazione, il giudice deve motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare reale con una meno invasiva misura interdittiva”. 

Sequestro di un’azienda operante nel settore ambientale
Cassazione Penale
n. 8082/09
La questione da risolvere nel caso di specie era la seguente: la qualifica di corpo di reato, o comunque di cosa pertinente, compete all’intero insediamento o alla sola porzione terminale (condotta, camino, impianto) attraverso la quale avviene l’immissione illecita di sostanze nell’ambiente?
La Cassazione ha affermato un principio generale, in base al quale se l’inquinamento dipende dall’inadeguatezza complessiva dell’insediamento, è a quest’ultimo che il sequestro deve fare riferimento.
Infatti, in quella sede, il Giudice, nel far riferimento alla sufficienza degli indizi al fine di sottoporre l’azienda a sequestro preventivo, ha rilevato come, nella specie, la condotta di versamento in mare dei fanghi residui dalla lavorazione del marmo riguardassero l’attività dell’intera azienda: di conseguenza, il sequestro preventivo non poteva essere limitato ad un determinato processo produttivo specificatamente interessato dalla condotta abusiva e, nell’immediato, l’esigenza preventiva sottesa alla misura cautelare non poteva che afferire all’intera azienda.


Il reale costo complessivo delle rinnovabili e il necessario completamento del sistema elettrico

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Qual è il reale costo delle rinnovabili, e in particolare di quelle intermittenti
Da tempo si tenta di dare una risposta soddisfacente a questo interrogativo, al fine di trovare una soluzione di equilibrio in grado di rendere il mercato elettrico sostenibile, da un lato, e di marginalizzare le esternalità negative, dall’altro, senza che tuttavia gli sforzi profusi abbiano prodotto risultati apprezzabili. 
Poche settimane fa, il CESE, Comitato Economico e Sociale Europeo, ha approvato un “parere esplorativo” sugli effetti economici dei sistemi elettrici con una quota crescente di energie rinnovabili intermittenti, che hanno acceso un vivace dibattito sulle conseguenze tecniche ed economiche di questa tendenza. 

Il motivo è presto detto: oltre una certa quota del mix energetico, le FER intermittenti rendono necessario completare il sistema energetico mediante alcune componenti aggiuntive: estensioni della rete; impianti di stoccaggio; capacità di riserva; sforzi per un’utilizzazione flessibile. Tali componenti aggiuntive sono indispensabili per evitare di dover fronteggiare situazioni di indisponibilità della produzione energetica, o di sovraccarico delle reti e dei sistemi di controllo che, a catena: 
  • avrebbero conseguenze negative sull’efficienza degli impianti; 
  • minaccerebbero l’approvvigionamento energetico e la sostenibilità del mercato energetico europeo; 
  • produrrebbero un aumento dei prezzi dell’energia elettrica, con ulteriori danni a cascata per la concorrenzialità dell’industria europea (delocalizzazione verso Paesi extra-UE dove l’energia costa meno, ma è più inquinante) e nuovi oneri, che peserebbero, in particolare, sulle categorie socialmente svantaggiate. 
Naturalmente, per implementare tale sistema occorrono ingenti investimenti, volti a sviluppare e far funzionare le componenti tuttora mancanti di un sistema completo.
 Ma non si tratta soltanto di investimenti: occorre anche intervenire sull’assetto degli incentivi, perché “sussidi inappropriati e incentivi differenti da un paese europeo all’altro possono causare costi aggiuntivi”, e l’intero problema dei costi (comprese anche strategie energetiche alternative) deve quindi essere discusso in modo aperto e trasparente, occupandosi anche della questione dei costi esterni dei vari sistemi energetici e della loro interdipendenza. 
In definitiva, occorrono una politica energetica comune dell’Europa e un mercato interno dell’energia, in grado di fornire la base per un quadro legislativo affidabile che ispiri fiducia e consenta investimenti nell’energia e la creazione di sistemi paneuropei, realizzando l’obiettivo di fondo di tutti gli sforzi volti a costruire una Comunità europea dell’energia. 

La questione dei costi 

Le rinnovabili non programmabili presentano una serie di costi
  • legati allo sviluppo e al funzionamento del sistema completo (dal produttore al consumatore di energia), da un lato, e al loro impatto sulla capacità economica, la competitività e la sostenibilità sociale, dall’altro, che negli ultimi anni sono cresciuti in maniera significativa in tutti i comparti del settore energetico, a maggior ragione in un settore come quello delle rinnovabili, caratterizzatosi da una “dose cospicua” di sussidi e meccanismi di sostegno necessari per aiutare la loro penetrazione sul mercato; 
  • indiretti (derivanti dallo sviluppo della rete, “dall’erogazione regolare di energia e dalla garanzia di capacità di riserva”) ed esterni, che variano da una tecnologia energetica all’altra. 
Quello “offerto” dal CESE è un tentativo: il Comitato, infatti, mette in evidenza che, allo stato attuale, manca un’analisi indipendente ed autorevole, che sappia fornire “un modello esaustivo dei costi dell’energia e che non soltanto comprenda tutte le esternalità note, ma riconosca anche il significativo impatto dei recenti sviluppi riguardanti il reperimento e la produzione dei combustibili fossili non convenzionali”.
Se la tendenza all’aumento degli impianti alimentati da fonti rinnovabili intermittenti continuerà, inevitabilmente i costi sistemici indiretti finiranno per superare quelli diretti degli impianti di produzione dell’elettricità, e anche se i costi diretti di tali impianti sono ormai scesi considerevolmente, essi non costituiscono ancora un’alternativa competitiva in assenza di sussidi e anzi contribuiscono ancora ad aumentare la bolletta energetica.

L’analisi su questo specifico punto, a valle delle criticità sopra rilevate, si conclude con una serie di moniti:
  • innanzitutto, occorrerà dare la priorità all’installazione e messa in servizio delle componenti mancanti al completamento del sistema, in particolare a infrastrutture di trasmissione e sistemi di stoccaggio adeguati, e a sistemi per il consumo flessibile (in alternativa, bisognerà modificare le regole sull’immissione prioritaria; 
  • un’altra opzione consisterà nel livellare le differenze regionali in termini di eccesso di fornitura e di domanda in momenti specifici, attraverso interconnessioni adeguate; 
  • le reti di trasmissione dell’elettricità prodotta da rinnovabili (tipicamente a basso e medio voltaggio) dovranno essere maggiormente sviluppate ed integrate con reti intelligenti; 
  • anche le reti di trasmissione ad alta tensione dovranno essere potenziate “dal momento che interconnessioni insufficienti causano il passaggio imprevisto di flussi di energia che mettono a rischio la sicurezza del funzionamento dei sistemi di trasmissione”; 
  • ultimo, ma non meno importante, la gestione della domanda e l’elettromobilità. Il trasferimento della domanda dai periodi di picco ai periodi di traffico normale (“stoccaggio funzionale dell’energia”), compresa l’elettromobilità, può contribuire ad attutire gli effetti dell’intermittenza. 
Naturalmente, l’economia nel suo insieme, “ossia sostanzialmente i consumatori (e/o i contribuenti), dovrà inevitabilmente farsi carico dei costi totali derivanti dal ricorso alle fonti energetiche rinnovabili intermittenti”, fra i quali quelli del ciclo di vita di almeno due sistemi di approvvigionamento energetico:
  • da una parte una serie di centrali elettriche alimentate con le energie rinnovabili, che inevitabilmente richiederanno una capacità in eccesso significativa che dev’essere utilizzata; 
  • dall’altra una seconda serie di centrali con capacità di riserva tradizionali, stoccaggio dell’elettricità, nuove capacità di trasmissione e sistemi di gestione della domanda per i consumatori finali. 
I fattori economici 

Fatte queste premesse, quali passi si devono fare per: 
  • tenere al più basso livello possibile l’aumento dei costi che si verificherà, 
  • renderne accettabile l’impatto, 
  • recare un beneficio alla forza economica dell’Europa e 
  • garantire l’approvvigionamento energetico? 
Il primo passo per evitare e prevenire gli sprechi evitabili di risorse finanziarie e un aumento ancora maggiore dei prezzi dell’energia, consiste nella pianificazione, nello sviluppo e nell’installazione delle componenti necessarie al sistema completo (impianti di stoccaggio, reti e centrali di riserva) su scala sufficiente per aprire la strada all’ulteriore installazione delle FER intermittenti. In sostanza, il sistema dovrà riguardare tutta l’UE, per evitare di dover modificare le regole sull’immissione: in quest’ottica, le sinergie con in sistemi di erogazione del teleriscaldamento e teleraffrescamento e con i sistemi di trasporto potranno semplificare l’integrazione sistemica. In ogni caso – nell’ottica di un continuo miglioramento – il CESE suggerisce di distinguere fra le diverse categorie, tempistiche e aree di azione, come sintetizzato nella tabella che segue, e di adottare uno sguardo globale, che sappia cogliere tendenze innovative e sostenibili, e consenta di redigere un elenco chiaro delle priorità per gli obiettivi principali, volto anche a ridurre “la crescente tendenza alle interferenze regolamentari non armonizzate da parte dei governi dei vari Stati membri”.

Occorre globalizzarsi, insomma, nella costante ricerca di un equilibrio fra la tutela dal fenomeno della povertà energetica delle categorie sociali a basso reddito, da un lato, e la protezione dei settori industriali a più elevata intensità energetica dai continui aumenti del costo dell’energia, per evitare che risulti compromessa la loro competitività globale, e si verifichi la deindustrializzazione. A tal fine, sono necessari ricerca e sviluppo, “anziché lanci sul mercato di larga scala affrettati e prematuri. La distinzione fra ricerca, sviluppo e dimostrazione da una parte e sostegno e lanci di mercato su larga scala dall’altra deve rimanere netta altrimenti, fra le altre cose, si rischiano situazioni di mercato che potrebbero impedire l’innovazione”. Una distinzione che dovrebbe riguardare anche il latu sensu sistema di sostegno delle rinnovabili, che, visto con il senno di poi, ma in una logica prospettica di medio-lungo periodo, eviti il procrastinarsi di quelli che, con il tempo, da aiuti necessari per far fronte agli alti costi si sono trasformati in occulte forme di “assistenzialismo protezionista” (il CESE richiama espressamente il sistema degli incentivi previsti in passato per il fotovoltaico). Come a dire che occorre lanciare gli investimenti – che “generano ottimismo, contribuendo a creare posti di lavoro e ad instaurare un clima di fiducia” – e non continuare ad alimentare speculazioni finanziarie, che sono a vantaggio di pochi e producono costi indiretti ulteriori a danno della collettività. 

In conclusione, le rinnovabili costano, ma non per questo devono essere accantonate. Si tratta di rivedere le modalità del loro utilizzo, e soprattutto di integrarle all’interno di un sistema elettrico globale più efficiente. Il CESE, dunque, non boccia le rinnovabili – che considera, al contrario, il cardine di un sistema energetico sostenibile – ma evidenzia che devono essere potenziate cum grano salis: per farlo, è necessaria una maggiore trasparenza dei dati, e coinvolgere maggiormente il pubblico, perché la partecipazione, la comprensione e il consenso da parte del pubblico per i diversi cambiamenti che dovranno essere apportati al nostro sistema energetico nei prossimi decenni sono elementi essenziali”.