Inquinamento elettromagnetico: il MUOS in Sicilia non doveva essere autorizzato

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Il MUOS: una storia sbagliata

Il sistema di comunicazione satellitare MUOS (Mobile User Objective System) prevede la realizzazione di quattro satelliti e di quattro stazioni terrestri: una di queste è stata localizzata in Sicilia, nel Comune di Niscemi, all’interno di una riserva naturale orientata e di un SIC (sito di importanza comunitaria), nonché in area sottoposta a vincolo paesaggistico e inserita nella rete ecologica “Natura 2000”.
Dopo la strenua opposizione del comitato NO MUOS, e una serie di ben cinque differenziati ricorsi, il TAR di Palermo si è pronunciato nel merito, accogliendo le tesi ambientaliste.
Quella che segue è una sintesi storica della lunga vicenda – una storia piena di ripensamenti, di errori di valutazione, di prese di posizione affrettate, di continui mutamenti di orientamento, di errori di valutazione, di mancate valutazioni, sullo sfondo di una normativa in perenne mutazione – e di come il TAR di Palermo ne è venuto a capo.

La complicata vicenda in pillole

Per la lettura della lunga vicenda, iniziata nel 2006, quando l’Aeronautica Militare, dopo aver ottenuto l’approvazione del progetto da parte del comitato misto paritetico della regione siciliana, presentava al Comune l’istanza per l’effettuazione della procedura di verifica (screening), in ossequio alla normativa regionale sulla valutazione d’incidenza, si rimanda al testo della sentenza.

In questa sede preme mettere in evidenza cos’ha detto il TAR di Palermo in relazione ai due principali filoni interpretativi seguiti dal giudice amministrativo siciliano.

Il primo riguarda la qualificazione delle “revoche” disposte dall’ARTA nel marzo 2013.
Il punto di partenza è costituito dal fatto che l’esatta qualificazione di un provvedimento amministrativo va fatta tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall’Amministrazione: i provvedimenti adottati nel marzo 2013 dall’ARTA sono – evidenzia il TAR – atti di annullamento d’ufficio e non di revoca.
Non esistono, infatti, i presupposti legittimanti l’adozione di un provvedimento di revoca, dal momento che nulla è sopravvenuto fra la data di rilascio delle autorizzazioni e l’intervento in autotutela, nessun fatto nuovo si è verificato o è stato acquisito, nessuna nuova valutazione dell’originario corredo istruttorio e motivazionale è stata fatta dall’amministrazione regionale.
E anche se, nel tempo, la normativa sul procedimento amministrativo ha subito, in relazione a questo specifico punto, un ampliamento della nozione di revoca, peraltro successivamente delimitato, nel caso in esame – chiosa il TAR – “si è al di fuori dell’ambito di applicazione della norma, perché non è stata reiterata ed aggiornata la valutazione della situazione di fatto o dell’interesse pubblico, ma vi è stata solo la puntuale e ribadita constatazione di una carenza originaria di tipo procedimentale”.
Non si tratta di una mera disquisizione giuridica, ma di una differenza con importanti risvolti pratici.

Revoca
Annullamento
La revoca, infatti, determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre “ulteriori” effetti: come a dire, non ha effetti retroattivi, e lascia dunque fermi quelli già prodotti, semplicemente evitando che se ne producano di ulteriori. La ratio è da rinvenire nel fatto che l’atto su cui “la revoca incide è perfetto e compiuto, idoneo a perseguire l’interesse pubblico dal momento in cui è stato adottato fino a che non è sopravvenuto quel quid novi che induce alla revoca, sicché nulla impedisce che l’atto mantenga gli effetti già prodotti”.
L’annullamento, al contrario, fa perdere d’efficacia l’atto annullato fin dal momento della sua emanazione: la perdita di efficacia ex tunc deriva dal fatto che l’atto, in quanto, tale è insufficiente fin dall’inizio, e occorre pertanto impedirgli di modificare la realtà su cui esso è chiamato ad incidere.


Sulla base di queste considerazioni, il TAR ha concluso osservando che “applicando i suddetti postulati alla vicenda che ci occupa, ne deriva l’assoluta illogicità di un intervento in autotutela che, suggerito per di più dall’applicazione del principio di precauzione – colonna portante del diritto ambientale europeo – per evitare ripercussioni sull’integrità del sito tutelato, mantenga comunque fermi gli effetti sino a quel momento prodottisi”.

Il secondo concerne, invece, il regime dell’autorizzazione paesaggistica, che ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, sintetizzate nella tabella che segue.
Prima, però, occorre fare un passo indietro e ricordare brevemente la successione degli eventi:
1)      il 14 giugno 2007 viene rilasciata un’“autorizzazione c.d. di massima”;
2)      il 18 giugno 2008 la Soprintendenza di Caltanissetta autorizza in via definitiva il progetto, specificando che “l’approvazione è data ai fini della tutela paesaggistica ed è valida per un periodo di cinque anni trascorso il quale l’esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova approvazione”.
  
Nel caso del MUOS, l’autorizzazione era stata adottata il 18 giugno 2008 (sotto la vigenza del D.lgs. n. 63/08), e di conseguenza scadeva il 17 giugno 2013. Cinque giorni dopo (data di entrata in vigore del D.L. n. 69/13), essa era ormai già scaduta, per avere esaurito per il periodo quinquennale di efficacia decorrente dal suo rilascio e, quindi, la nuova disposizione non poteva trovare applicazione alcuna.
In conclusione, se i lavori non vengono realizzati in tale arco temporale è necessario richiedere un ulteriore titolo abilitativo al fine di effettuare un nuovo controllo di conformità dell’intervento all’ambiente in cui lo stesso si colloca.
Vale anche per le opere destinate alla difesa militare perché, in quanto statali, anche se realizzate su aree ubicate all’interno di basi militari o al diretto servizio di esse, qualora insistano su un’area con vincolo paesaggistico, sono soggette alla relativa disciplina di tutela ed in particolare all’obbligo di ottenere l’autorizzazione l’autorizzazione paesistica.

La morale della favola

Sulla base di queste articolate riflessioni, il TAR di Palermo ha accolto i ricorsi delle associazioni ambientaliste, e per converso rigettando quelli del ministero della difesa.
I lavori comunque compiuti, dopo l’annullamento d’ufficio con effetto retroattivo dei relativi atti autorizzativi, avevano perso il loro titolo legittimante: la “revoca” del luglio 2013, senza la riedizione del procedimento, non poteva quindi avere alcun effetto ripristinatorio e di riviviscenza delle autorizzazioni rilasciate nel 2011 ormai definitamene eliminate dal mondo giuridico.
L’appurato di difetto di istruttoria, in ogni caso, non può essere sanato ex post attraverso provvedimenti di secondo grado; e nella specie mancava, comunque, una valida autorizzazione paesaggistica, ormai scaduta per decorso del periodo quinquennale.
A questo punto il TAR ricorda alla PA, a fini conformativi della sua eventuale, ulteriore azione, che:
          l’ente gestore della riserva deve tenere conto della nuova zonizzazione dell’area nell’ambito della riserva naturale orientata;
          l’autorizzazione paesaggistica deve seguire la speciale disciplina dell’art. 147, trattandosi di opere destinate alla difesa militare;
          in ogni caso, la VINCA, procedimento valutativo di carattere preventivo al quale va sottoposto ogni intervento pianificatorio o progettuale che interessi il territorio dei siti della Rete Natura 2000, SIC e ZPS, deve essere “preliminare rispetto a qualsiasi procedimento autorizzatorio o concessorio inerente la realizzazione di un piano/progetto/intervento e costituisce presupposto necessario per il rilascio delle successive autorizzazioni, nulla osta, pareri o altri atti di analoga natura, da acquisire ai fini della realizzazione e dell’esercizio dell’opera o intervento”.
Come a dire: fate le cose bene, altrimenti passano gli anni, e/ma tutto rimane come prima.

Che a volte può anche essere un bene: ma deve in ogni caso essere frutto di una decisione politica e non di pastrocchi burocratici.