Il tacchino induttivista e i paradossi energetici e culturali

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Un tacchino (ovviamente americano) aveva imparato che ogni mattina, più o meno alla stessa ora, il padrone gli portava da mangiare.
Diligentemente memorizzava tutte le piccole differenze, finché, dopo giorni e giorni, poté essere soddisfatto di aver trovato una regola infallibile: tra le nove e le dieci di mattina arrivava inevitabilmente il cibo. 
Al passare delle settimane e dei mesi la regola trovò sempre conferme... fino al giorno del Ringraziamento, quando il tacchino fu calorosamente invitato sulla tavola della famiglia, come protagonista dell'arrosto tradizionale… 

Il paradosso – letteralmente contro (παρά) l’opinione (δόξα) – è generalmente un ragionamento che appare contraddittorio (ma che deve essere accettato) o corretto (ma che porta a una contraddizione): 
  • in economia spesso viene usato per indicare un’antinomia, ovvero “la compresenza di due affermazioni contraddittorie, ma che possono essere entrambe dimostrate o giustificate”; 
  • nel linguaggio comune, paradosso è sinonimo anche di stravagante, irragionevole. 
In ogni caso – dal paradosso del tacchino induttivista a quelli presenti nella quotidianità – i paradossi rappresentano un indispensabile e potente stimolo per la riflessione, uno strumento per cercare di smussare gli angoli di certe affermazioni aprioristiche e di trovare una soluzione accettabile per le problematiche che anche l’applicazione pratica di queste ultime può provocare. 


Anche nel settore energetico di recente stiamo assistendo a diversi paradossi, di natura economico-energetica e culturale, che dovrebbero farci riflettere – soprattutto in ottica di medio-lungo periodo – sulle conseguenze di certe azioni e di certe scelte, da un lato, e sulla coerenza/sostenibilità di certi atteggiamenti, dall’altro. 

Quale sarà il mercato elettrico prossimo venturo? 

Si tratta di una domanda tutt’altro che oziosa, se solo si considerano: 
  1. gli attuali limiti del mercato elettrico; 
  2. il ruolo che negli ultimi anni hanno assunto, al suo interno, le fonti rinnovabili di energia; 
  3. le dinamiche dei prezzi delle fonti convenzionali; 
  4. il reale funzionamento di alcune tipologie di centrali; 
  5. le modalità di finanziamento delle centrali elettriche (rinnovabili e non); 
  6. il peso dei finanziatori nelle scelte strategiche; 
  7. il ruolo delle banche; 
  8. l’atteggiamento dei cittadini nei confronti di determinati progetti; 
  9. le tempistiche necessarie per l’approvazione di determinate opere, quelle per la loro realizzazione, e quelle necessarie per il loro finanziamento. 
La risposta a questo interrogativo, nonostante tutte le conoscenze e tutte le competenze (tecniche, giuridiche, economiche, …) che oggi potrebbero essere messe proficuamente in campo, è – paradossalmente – incerta: non esiste una (o la) soluzione, ma un ventaglio di soluzioni ipotetiche, ognuna delle quali contiene in sé ulteriori paradossi, frutto di passate scelte politiche frammentate e decontestualizzate, e per questo incapaci di imporre una prospettiva di lungo periodo.
Prendiamo il punto n.2, ossia la variabile costituita dal ruolo che hanno avuto le fonti rinnovabili negli ultimi anni. 
Gli incentivi a cascata, concessi dapprima senza tener troppo conto delle conseguenze che avrebbero avuto sul mercato, sono stati poi ripetutamente rivisti, attraverso una serie di passaggi ravvicinati nel tempo che hanno denotato un problema non tanto e non solo di merito, ma di metodo, creando incertezze fra gli operatori del settore. 
Oggi, anche grazie al processo tecnologico – e in parte all’enorme diffusione che le fonti rinnovabili hanno avuto, soprattutto grazie agli incentivi generosi di cui hanno goduto, a partire da un certo punto in modo non così giustificati – l’energia elettrica prodotta da FER sta diventando competitiva rispetto alle fonti tradizionali, e la grid parity nel mercato italiano è un obiettivo che verrà raggiunto a breve. 
Il problema paradossale è che – nel medio-lungo periodo – l’ulteriore aumento degli IAFR potrebbe renderli meno competitivi rispetto ad altre fonti energetiche. 
Questa è la conclusione dell’analitico pensiero di G. B. Zorzoli, che parte dalla constatazione degli attuali limiti del mercato elettrico e si sviluppa, in estrema sintesi, nei seguenti termini: 
  • la formazione di prezzi spot nelle borse elettriche, insieme alla stipula di contratti di breve durata, sono stati il principale strumento di contrattazione sviluppatosi nel mercato elettrico; 
  • i prezzi, conseguentemente molto volatili, hanno reso “il project finance degli impianti più capital intensive e con lunghi tempi di costruzione”; 
  • la stipula dei cd “power purchase agreement” – strumento utilizzato dai finanziatori per tutelarsi contro i rischi di mercato: il finanziatore chiede al produttore di procurarsi ex ante contratti di vendita dell’energia prodotta per un numero adeguato di anni – è più facile da effettuare se i tempi di realizzazione dell’impianto sono relativamente brevi (come avviene, ad esempio, per quelli a ciclo combinato); 
  • a questo punto – l’economia e la società non sono statiche – si inseriscono le dinamiche di scelte e strategie temporali che rischiano, per l’appunto, di portare a conseguenze paradossali, cioè contro quella che all’opinione pubblica potrebbe apparire come la soluzione più logica. Dal momento che i costi di investimento per le rinnovabili sono di gran lunga inferiori a quelli degli impianti tradizionali, e i tempi di realizzazione sono tutto sommato contenuti, infatti, “va da sé” che “una volta acquisito un sufficiente margine di competitività, non dovrebbero sussistere particolari ostacoli per il loro finanziamento”. 
Non è così, perché – anche a voler prescindere dal fatto che “a questa condizione si arriva, però, a valle di un processo graduale di avvicinamento, che nella fase iniziale è caratterizzato da margini di competitività minimi, quindi precari” – entrano in gioco le variabili di prezzo del gas, le dinamiche produttive dello shale gas (con tutta probabilità “diversamente applicabili negli USA e in Europa) e le “strategie di rimessa” europee, che potrebbero far sì che “impianti alimentati da rinnovabili, realizzati quando i prezzi del gas garantivano la produzione di energia elettrica a costi solo lievemente competitivi, con la caduta delle quotazioni del gas rischierebbero di non reggere più la concorrenza dei cicli combinati prima di avere completamente ammortizzato i costi di investimento”.
Inoltre, l’ipotizzato calo del consumo di gas (stimato per il 2020 in circa l’82,5-87,5% rispetto al 2010, secondo gli obiettivi delineati nella proposta di SEN) “dovrebbe determinare una parallela diminuzione dei prezzi de gas, con effetto solo all’apparenza paradossale: crescendo, com’è previsto dalla proposta SEN, le rinnovabili avrebbero maggiore difficoltà a diventare competitive, in quanto renderebbero il gas sempre più a buon mercato”, poiché, d’altro canto, la bozza di SEN “assume una domanda elettrica che fra il 2010 e il 2020 al massimo crescerà del 4%, l’attuale funzionamento assai ridotto rispetto all’ottimale dei cicli combinati sembra quindi destinato a permanere per tutto il decennio”, e la conseguente penalizzazione economica sarà almeno in parte recuperabile vendendo l’energia a prezzi più elevati nelle ore in cui è minore il contributo delle rinnovabili, come già sta avvenendo (per un approfondimento, v. l’articolo pubblicato il 10 luglio 2012 nelle pagine di questo quotidiano, “Gli effetti dello sviluppo delle FER su domanda e offerta nel mercato elettrico”). 
Prima di terminare il suo ragionamento con il suggerimento di alcune soluzioni (fra le quali la più incisiva riguarderebbe l’introduzione del meccanismo d’asta, già utilizzato con successo in Brasile), si specifica che queste considerazioni non riguardano le installazioni su piccola scala, destinate essenzialmente all’autoconsumo, “che tuttavia rischiano di subire la stessa sorte degli elettrodomestici più efficienti: molti non li acquistano, anche se sul lungo termine i ridotti consumi energetici compensano il maggior costo iniziale”. 
Il riferimento agli impianti di piccole dimensioni ci permette di introdurre il secondo paradosso, quello “culturale”. 
Da un lato, il difficoltoso iter che, dopo anni di sprechi, ha condotto a cercare di cambiare il paradigma energetico delle isole minori del nostro Paese: non essendo collegate alla rete nazionale, tali realtà hanno continuato per anni a consumare enormi quantità di energia prodotta con gruppi elettrogeni inquinanti, tutt’altro che performanti e decisamente poco economici (il conguaglio pari alla differenza fra il costo del KW7h e il prezzo pagato dagli isolani è coperto tramite l’addizionale UC4 in bolletta: una sorta di incentivo, senza peraltro condizioni di sorta). Nel nuovo paradigma, da implementare gradualmente, troveranno spazio molte rinnovabili, fotovoltaico in primis. 
Dall’altro, rimanendo in tema di fotovoltaico, occorre confrontare il ruolo che, nella pratica, questa FER ha assunto nel corso degli anni nonostante: 
  • l’idea di partenza – condivisa a tutti i livelli – fosse quella di ridurre l’emissione di gas ad effetto serra, e gli incentivi erano destinati ad aiutare i soggetti interessati a coprire il surplus di costi necessario per la loro implementazione, 
  • con il tempo, e con il netto calo dei costi dei pannelli fotovoltaici, dovuto anche al profluvio di incentivi a quel punto diventati insostenibili, questi ultimi hanno smesso di essere tali, e si sono trasformati, nei fatti, in una fonte di reddito. 
In sostanza, il fotovoltaico, da fonte rinnovabile è diventata, entro certi limiti, e da un certo punto di vista, una fonte di guadagno.
Niente di male in tutto ciò: una scelta politica legittima, se serve in qualche modo a diffondere ulteriormente la green energy. 
Il paradosso culturale risiede nel fatto che, a fronte di tale nuova fonte di reddito, che nel recente passato ha assunto le sfumature di una vera e propria speculazione (accompagnata da ulteriori speculazioni – ad esempio, quella che ha fatto perno sulla saturazione virtuale delle reti – e vere e proprie truffe. Su quest’ultimo punto, v. “Rinnovabili, truffe milionarie a danno dei consumatori”, pubblicato su questa rivista il 3 ottobre 2012), a valle del recente chiarimento dell’Agenzia delle Entrate – la quale ha affermato che i ricavi della tariffa omnicomprensiva, di cui al cd “quinto conto energia”, costituiscono redditi, e devono essere tassati – ci siano più o meno velate “forme di protesta”, che “denunciano” questa “ennesima” forma di ingiustizia. 
A prescindere da qualsiasi “commistione” con argomenti che solo latu sensu rientrano nel calderone delle tasse (per fare solo un esempio, quello “gettonato” e “sempreverde”, perché irrisolto, della lotta all’evasione fiscale: “lì dovete prendere i soldi, non da chi produce energia pulita!”) occorre precisare che: 
  • un conto sono gli incentivi (un aiuto per supportare, e permettere di sopportare, investimenti più alti); 
  • un altro è guadagnare con quell’investimento (attività legittima nei fini e lodevole nei mezzi); 
  • un altro ancora, su quel reddito, pagare le tasse. 
Il fatto che sui primi non si paghino le tasse, e che a tal fine sia riservato lo stesso trattamento fiscale alla “tariffa premio per autoconsumo”, non significa che il medesimo trattamento debba essere riservato anche alla parte di energia prodotta, ed eccedente l’autoconsumo, immessa in rete.

Dopo anni di sprechi, e di politiche destrutturate, volte (anche in buona fede) a cercare di incentivare le rinnovabili, sembra – era ora – che sia arrivata una nuova era, fatta di passaggi graduali, ma netti, da un sistema caotico e confusionario ad uno più strutturato, in cui: 
  • diritti, obblighi, doveri, incentivi, e via discorrendo, si susseguano senza soluzione di continuità; 
  • il mercato sia, di conseguenza, regolamentato e non lasciato eccessivamente libero; 
  • vi sia una pianificazione coerente ed integrata delle politiche, non solo energetiche; 
  • istituzioni e cittadini comincino a dialogare in modo rapido, trasparente e civile, e la partecipazione venga riconosciuta e promossa; 
  • le banche e la finanza continuino a svolgere il proprio mestiere, ma senza quell’assoluta libertà, che ha connotato gli ultimi anni, e che ha contribuito alla crisi. 
Un’era in cui, in sostanza, si possa cominciare realmente a fare qualcosa, e si smetta di domandarsi se è meglio un uovo oggi o una gallina domani (laddove l’uovo e la gallina sono i due “divergenti” modelli energetici, tradizionale e rinnovabile): una domanda paradossale e (para)filosofica, che in passato – pur sapendo che si trattava di una domanda mal posta, con effetti paradossali – è stata posta in continuazione, per giustificare scelte parziali e contingenti. Continuare a porsi questa domanda perché porterebbe al risultato paradossale di fermare nuovamente tutto quanto: con il rischio di fare una frittata.

L’articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2013 su “Il quotidiano IPSOA. Professionalità quotidiana”