MOODY'S mette il becco anche sulle rinnovabili

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Vi ricordate della pubblicità in cui, una mattina, dopo una notte di festa in casa di chissà chi, Camilla si alza e rumorosamente si appresta a preparare la colazione, svegliando un impaurito ragazzo che, dopo i bagordi della sera prima, era rimasto a dormire sul divano? I due non si conoscono, ma erano entrambi alla festa, ma poco importa, tant'è che lui, con una studiata ingenuità, fa la battuta finale, quella che da più di dieci anni ancora ricordiamo: "ma poi, 'sta festa, di chi era?"

Allo stesso modo, ci domandiamo un po' tutti, da qualche mese a questa parte, "Ma poi, 'sto Moody's, (di) chi è?", aggiungendo alla mia innata curiosità: "ma che vole?" e, soprattutto, "chi gli ha concesso tutto questo potere?". Lì per lì, infatti, rimuginavo fra me e me, sentendo per la prima volta nomi come Moody's, e delle altre agenzie di rating, frasi come "non mi importa", "chi saranno mai!".
E invece no, importa eccome, se nel tempo hanno determinato le sorti di Paesi, società, aziende, borse, banche, e via discorrendo, in un crescendo rossiniano in cui hanno messo bocca su tutto, ma proprio su tutto, prendendosi la libertà (o il lusso?) di effettuare downgrade (questo uso eccessivo di anglismi mi ricorda invece la pubblicità dove un erede di Tognazzi si mette a fare un improvvisato rapper de noatri) di ciò che ritengono "pericoloso". Pericoloso per chi? E per quali motivi?
Perché una società privata può avere così tanta importanza nel mondo moderno?
Di recente Moody's è intervenuta in materia di rinnovabili, il cui boom negli ultimi mesi ha cominciato a mostrare qualche segno della loro intrinseca (e contingente) debolezza, connessa alla mancata programmazione politico-normativa: oltre alle problematiche giuridiche, il punctum dolens ha riguardato i diversi sistemi di incentivazione, le carenze infrastrutturali e la naturale non programmabilità delle rinnovabili. In ogni caso, le rinnovabili hanno costretto i produttori di energia da fonti convenzionali a reagire alla loro concorrenza, in parte positiva, al netto delle speculazioni che ci sono state. Prova ne è il recente declassamento di ENEL effettuato da MOODY'S... 
Qualche giorno fa è stato pubblicato un articolo a mia firma, sull'argomento, sul sito di IPSOA, che vi invito a leggere ("Moody's e il downgrade delle oligarchie energetiche convenzionali"). Qui mi limito a qualche breve riflessione. MOODY’S, in estrema sintesi, vuol evidenziare una parte del cambiamento del paradigma energetico: ENEL fa parte di quelle imprese che, un tempo, erano considerate “stabili”, ma che ora stanno progressivamente perdendo certezze e si vedono costrette a modificare i propri business-plans, specie in quei settori dove, per “scarsa lungimiranza” si sono investiti negli ultimi anni qualcosa come 25 miliardi di euro (cicli combinati a gas). 
Come se la “stabilità” – si può leggere fra le righe – di per se stessa fosse, da sola, in grado di garantire il migliore interesse generale, e non, al contrario, soltanto quello dell’oligarchia energetica che ha dominato incontrastata nei decenni passati. 
Il rapporto dell'agenzia di rating sul settore energetico, in sostanza, si limita a “scoprire l’acqua calda” della crisi del settore termoelettrico, "messa alla prova" da un settore che, sia pure con i suoi limiti (che è necessario e doveroso “aggiustare”): 
  • sta contribuendo (e potrà farlo ancora di più in futuro, se opportunamente “gestito”) alla crescita pro quota sostenibile del nostro Paese, 
  • oltre ad essere stato (e continuare ad esserlo) uno dei pochi traini dell’economia asfittica degli ultimi anni. 
Per “limitare i danni”, i produttori di “energia convenzionale” hanno agito sui prezzi.
Per porre un freno alla concorrenza, invece, gli stessi si stanno opponendo allo sviluppo dei sistemi di accumulo dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, che potrebbero penalizzare ulteriormente i prezzi di picco, incrementando la competitività delle rinnovabili ed emarginando ancor più la produzione termoelettrica. 
Una mano ai produttori di energia da fonti convenzionali – come ha sottolineato anche MOODY’S nella sua relazione – arriva, inoltre, da molti Stati europei, che stanno “prendendo in considerazione l’introduzione di sistemi di capacity payments” per consentire ai produttori di energia termoelettrica di rimanere “online”, grazie alla remunerazione di certi impianti per la potenza messa a disposizione, anziché solamente per l’energia prodotta: il fulcro del discorso ruota attorno alla non programmabilità delle rinnovabili, che rende i meccanismi di capacity payments “essenziali per affrontare la sicurezza del sistema di trasmissione dell’energia, anche se i politici saranno cauti nell’addossare ai consumatori costi aggiuntivi in bolletta”
Il problema, in sostanza, si sposta sempre, da qualunque angolo visuale lo si voglia vedere, sul consumatore finale: tant’è che, neanche fra le righe, ma scritto nero su bianco, si legge che, secondo MOODY’S (non: secondo i malpensanti) il meccanismo di capacity payment “would be credit positive for MOODY’S rated utilities, although their timing and structure remains uncertain”
Non si parla, cioè di “benefici collettivi”: infatti, ci sarebbe soltanto 
  • un’ulteriore “privatizzazione degli utili” (intesi nell’accezione di benefici) e 
  • una “socializzazione delle perdite” (non solo in termini di costi sui consumatori – la cautela dei politici è più paventata che reale – ma anche in termini di dissoluzione di parte dei benèfici effetti della concorrenza), 
con buona pace di chi, imperterrito, continua a parlare di sostenibilità.
Continuando ad ammantare (e a permettere di farlo) di sostenibilità concetti ed azioni decontestualizzati e volti alla (parziale) risoluzione di problemi specifici, invece che cominciare a porre le basi per il raggiungimento – per il tramite di una politica coordinata, integrata, lungimirante ed autorevole – delle molteplici sostenibilità e degli interessi generali, non si fa altro che rimandare la soluzione ad un futuro più o meno lontano, facendo finta, nel frattempo, di aver ottenuto chissà quale risultato per “il rilancio dell’economia”. 
Le problematiche, senza girarci tanto intorno, si conoscono, così come si conoscono le (sempre indigeste, per qualcuno) medicine, con le quali risolverle: rimandare la decisione di prenderle (le “medicine”), significa, in ultima analisi, perpetrare lo status quo conservatore di chi ha tutto da guadagnarci (o,comunque, tutto da non perderci). 
Così facendo, però, si fanno (male) i conti senza l’oste: oste che un domani, neanche troppo lontano, potrebbe avere le sembianze non del nostro (autonomo ed autorevole) legislatore, e neanche della “solita” emergenza (comoda scusa per giustificare terapie d’urto di ogni sorta), ma di qualche altro Stato, non necessariamente della vecchia Europa.


Auguri

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Voglio pensare che questo gatto, almeno per Natale, abbia deciso di smetterla di bisticciare col topolino e gli abbia preparato un regalo vero, che insomma non sia una trappola per mangiarlo in un sol boccone...


Natura Giuridica augura a tutti i suoi lettori un Felice e Sereno Natale...


...nella speranza che il nostro Legislatore, qualunque esso sia, a partire dal prossimo anno, la smetta di promettere utopie a buon mercato, farneticando di riforme impossibili o inutili, urlando per coprire l'assordante vuoto che ha prodotto in questi anni, o sperando in qualche "mago maneggione", in grado di portarci qualche semplice ventata di novità, per offrire poi della solita minestra ri-ri-ri-ri-ri-ri-scaldata e insulsa.

Non abbiamo bisogno di un sILVAn, ma di una classe politica seria (ma non seriosa), competente, lungimirante e soprattutto autorevole.


Per "qualche" euro in più

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Molto si sta scrivendo sul "caso ILVA" e sul "braccio d'acciaio" fra Governo e magistratura, spesso con i toni apodittici di chi ritiene assertivamente di avere la ragione dalla propria parte. 
Ritorneremo, in queste pagine, sulla vicenda ILVA quando  il DL salva-ILVA sarà diventato legge dello Stato - vedremo in che termini - e se e quando la magistratura avrà sollevato (perché credo che lo farà) la questione di legittimità costituzionale o il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato.
In questo post voglio accennarvi, invece, a quanto, meno conosciuto, è (già) stato fatto nel 2010 dalla BEI, la banca europea per gli investimenti, che ha finanziato un progetto - Riva Taranto Energy & Environment per “la sostenibilità tecnica, ambientale e finanziaria a lungo termine”, presentato dalla società proprietaria del polo siderurgico tarantino.
Il progetto riguardava un programma di investimenti volto a mantenere la competitività del sito, consolidando l'occupazione ma al tempo stesso riducendo le emissioni di gas serra e l'impatto ambientale delle attività produttive. Tramite una procedura di "procurement" la società avrebbe avviato, per attuare il progetto stesso, una negoziato internazionale volto all'ottenimento delle attrezzature e servizi necessari, fra le poche imprese in grado di fornirli. Costo totale: circa 750 mln di euro, di cui la metà finanziati dalla BEI.
Nell’annosa, complicata vicenda relativa all’ILVA di Taranto, il “mondo” politico intero si arrovella per mostrarsi efficiente, invece di “trovare” una soluzione in grado di cominciare a coniugare – davvero e ora – tutela dell’ambiente e della salute dell’uomo, da un lato, con gli interessi economici di datori e lavoratori, dall’altro. 
Così facendo, quello stesso mondo politico si dimentica, tuttavia, di porre (ehm: porsi) alcune domande, non perché siano indiscrete, ma perché potrebbero esserlo, indiscrete, le risposte cui neanche loro – a meno di giravolte (para)dialettiche eclatanti – si potrebbero sottrarre. 
Fermo restando che ora – per forza, non s’è fatto nulla dal punto di vista politico fino ad oggi – la vicenda costituisce un’urgenza da risolvere, bene e in fretta, vi sono alcune domande che meriterebbero non solo risposte puntuali, ma anche analitici resoconti su ciò che medio tempore non è stato fatto (e neanche si è tentato di fare).
Considerando che il Governo, soltanto pochi mesi fa, ha stanziato 336 milioni di euro per la bonifica di Taranto nel “braccio d’acciaio” a tre fra lo stesso Governo, la magistratura e l’Ilva, come e quando verrà effettuata la bonifica? 
Perché il vice-presidente della Commissione europea, nonché responsabile per l’industria continua a promettere, invocandoli, anche i fondi europei della BEI, la banca europea per gli investimenti?

Quando si parla di (tanti) soldi, occorre andare cauti, e non cedere alla facile “tentazione” di lamentarsi per il loro utilizzo: ma proprio per gli stessi motivi occorre capire di che cosa stiamo parlando… 
La BEI, infatti, di soldi ne ha già dati....
Che fine hanno fatto?

Sul  sito della Casa Editrice Ipsoa di Milano, potete continuare a leggere, nell'articolo Il “caso” Ilva: progettare il futuro a partire da risposte indiscrete, pubblicato il 18 dicembre scorso, le impressioni di chi ritiene, appunto, che occorra progettare il futuro cominciando a partire da risposte indiscrete.



Il Consulente legale per le fonti rinnovabili: aperte le iscrizioni al nuovo corso aggiornato alle più recenti modifiche legislative

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La nuova edizione del corso tenuto da Andrea Quaranta Il consulente Legale per le fonti rinnovabili  si terrà a Milano il 7-8 marzo 2013.
Oggetto del corso è il sistema di incentivi giuridici, fiscali ed economici per la produzione di energia da fonti rinnovabili (solare fotovoltaico, eolico, biomasse, biogas). Questa complessa tematica verrà trattata sia attraverso un breve excursus sull'evoluzione dei meccanismi incentivanti italiani avutasi negli ultimi anni, sia con un focus sulle novità economico - normative più attuali, come le conseguenze, di breve e di lungo periodo, del Quinto Conto Energia (nato come norma di breve periodo e, con molta probabilità, destinato ad assere sostituito od integrato con una diversa normativa sugli incentivi); o il nuovo assetto disegnato dal Decreto del 6 luglio 2012, che disciplina le fonti rinnovabili elettriche diverse dal fotovoltaico, per non parlare del decreto Burden Sharing...
Durante il corso saranno trattate le principali e più significative pronunce giurisprudenziali in materia di fonti rinnovabili poiché, in molti casi, l'opera dei Tribunali Amministrativi Regionali ha messo in luce, interpretato e contribuito a correggere le imprecisioni e le incongruenze delle normative italiane in materia di ambiente ed energia susseguitesi negli anni. Infine, verrà analizzato il sistema della ripartizione di competenze in materia energetica tra Stato, Regioni ed Enti Locali, analizzando le prerogative e l'ambito di giurisdizione di ogni singolo ente e mettendo in risalto le tendenze ed i comportamenti - anche assai differenti tra loro - praticati nelle diverse Regioni d'Italia, frutto del ritardo con cui sono state adottate, a livello statale, le norme che avrebbero dovuto contribuire a uniformare tempi, modi e costi delle procedure autorizzatorie per l'installazione di impianti energetici.
Il corso è rivolto ad avvocati (è stata inoltrata la richiesta di accreditamento presso l'Ordine degli Avvocati di Torino per consentire agli iscritti al corso l'ottenimento di crediti formativi) e consulenti legali ed in generale a tutti i professionisti che svolgono attività di consulenza in materia di impianti energetici, sotto il profilo giuridico, tecnico scientifico, ingegneristico, urbanistico e commerciale. Il corso è inoltre indicato per dipendenti di imprese ed enti locali al fine di acquisire una competenza "interna" in materia di fonti rinnovabili in vista della gestione di pratiche e progetti energetici.
Per informazioni di tipo didattico è possibile rivolgersi ad Andrea Quaranta, unico relatore del corso ed autore del volume La consulenza giuridica nelle fonti rinnovabili, edito da Dario Flaccovio Editore, Palermo (una copia del volume sarà distribuita quale materiale didattico agli iscritti al corso). 
Per informazioni commerciali e per richiedere convenzioni e soluzioni personalizzate è possibile rivolgersi alla Divisione Formazione della casa editrice Dario Flaccovio.


DDL: "nuove disposizioni urgenti di semplificazione amministrativa"

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Il DDL nuove disposizioni urgenti di semplificazione amministrativa a favore dei cittadini e delle imprese” contiene in nuce uno degli aspetti più deleteri del modus legiferandi tipicamente italiano: la frenesia dettata dall’urgenza (che nel nostro Paese è perenne).

Nella bozza di decreto legge, che il Consiglio dei ministri ha approvato il 16 ottobre 2012, infatti, si legge testualmente che il Governo ha posto alla base del provvedimento la“ritenuta straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per la semplificazione in materia di sicurezza sul lavoro, di infrastrutture, beni culturali ed edilizia, di ambiente e di agricoltura, al fine di assicurare un’ulteriore riduzione degli oneri amministrativi per i cittadini e le imprese, agevolando l’uscita del sistema produttivo del Paese dall’eccezionale situazione di crisi economica internazionale”.

Se l’urgenza è (quasi) sempre addotta come giustificazione della maggior parte dei provvedimenti legislativi, viene il dubbio che quelli precedenti – a loro volta improntati sull’impellente necessità di trovare una soluzione al problema di turno – non siano stati efficaci, e che per combattere la “straordinaria necessità ed urgenza” occorra un’altra tipologia di provvedimenti, che siano strutturali, lungimiranti ed autorevoli, in grado di porre fine al perenne stato emergenziale e di dare, al contempo, una risposta alle necessità di semplificazione (e di leggerezza).

L’analisi dei soli artt. 20-23 del DDL semplificazioni in materia di ambiente, oltre a confermare la disinvoltura con la quale il legislatore cambia continuamente le carte in tavola, pone un interrogativo: qual è l’urgenza che si vuole “risolvere”?

In particolare, il nuovo testo dell’articolo 243 del TUA stabilisce, inter alia, che:
a) nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre alla eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile e economicamente sostenibile, devono essere adottate misure di attenuazione della diffusione della contaminazione conformi alle finalità generali e agli obiettivi di tutela, conservazione e risparmio delle risorse idriche stabiliti dalla Parte III del presente decreto;
b) gli interventi di conterminazione fisica o idraulica con emungimento e trattamento delle acque di falda contaminate, sono ammessi solo nei casi in cui non è altrimenti possibile eliminare, prevenire o ridurre a livelli accettabili il rischio sanitario associato alla circolazione e alla diffusione delle stesse. Nel rispetto dei principi di risparmio idrico di cui al comma precedente, in tali evenienze deve essere valutata la possibilità tecnica di utilizzazione delle acque emunte nei cicli produttivi in esercizio nel sito stesso o ai fini di cui al comma 6 […].

Quale semplificazione e/o urgenza giustifica la presa di posizione in base alla quale, in caso di rischio sanitario creato dalla acque di falda contaminate, l’eliminazione della fonte può avvenire soltanto “ove sia possibile ed economicamente sostenibile”?

Nell’illustrare la ratio del successivo art. 21, lo stesso Governo precisa che “la disposizione di cui alla lettera a) ha lo scopo di chiarire che tutti gli interventi disciplinati dal titolo V del DLGS n. 152/06 hanno l’obiettivo di tutelare la salute (prevenire, eliminare e ridurre i rischi sanitari derivanti dalla contaminazione) e non la riparazione delle matrici ambientali.
L’urgenza vera, a parere di chi scrive, dovrebbe essere quella di combattere il rischio sanitario provocato dai 57 SIN (ma non solo quelli), e non subordinare l’eliminazione della fonte di contaminazione a non meglio precisati “criteri monetari”: a chi spetta, infatti, la valutazione circa la possibilità e l’economicità di tali misure?
Quale logica, invece, dietro il restringimento del ricorso agli interventi di conterminazione fisica o idraulica nei soli casi in cui “non è altrimenti possibile eliminare, prevenire o ridurre a livelli accettabili il rischio sanitario associato alla circolazione e alla diffusione delle stesse”?

Per approfondire l’analisi degli artt. 20-23 del DDL semplificazioni, vi rimando all’articolo “Quali sono le urgenze che il ddl semplificazioni vuole “risolvere”?” pubblicato nelle pagine del “Quotidiano IPSOA”.

Ma oltre alle presunte urgenze “da risolvere”, il DDL ha fatto anche qualcosa di peggio.
Nelle stesse giornate in cui si raccoglievano fondi per il FAI, infatti, il Governo dei tecnici ha introdotto nel DDL semplificazioni una nuova forma di silenzio: il “silenzio-abdicazione”.
Ne “L’arte di tacere”, l’abate Dinouart declinava il silenzio nelle sue molteplici sfumature, che lo rendono di volta in volta “ambiguo, prudente, artificioso, compiacente, canzonatorio, spirituale, stupido, di plauso, sprezzante, politico”.
In ambito politico-giuridico il silenzio assume molteplici sfumature, come ho già avuto modo di sintetizzare, fra gli altri, nel post “The sound of silence”: in ogni caso, la forma di silenzio potenzialmente più deleteria è, senz’ombra di dubbio, quella del “silenzio-assenso”.
Nato per tutelare il cittadino dall’inerzia dell’amministrazione – decorso un certo lasso di tempo, la richiesta “passata sotto silenzio” dalla PA, si intende accolta, senza che sia necessario fornire alcuna motivazione – tuttavia non poteva essere applicato a tutti gli ambiti, tanto che ne erano esclusi i beni culturali e il paesaggio.
Con il nuovo disegno di legge in materia di semplificazioni, approvato dal Consiglio dei ministri lo sorso 16 ottobre 2012, fra le misure adottate dal Governo relative alla “tutela” del paesaggio e dell’ambiente spicca, in negativo, quella concernente la disciplina del permesso di costruire, che “oltre a garantire tempi certi per la conclusione dei procedimenti, elimina il silenzio rifiuto previsto per il rilascio del permesso medesimo nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali; in questi casi il provvedimento deve essere sempre espresso in base ai principi stabiliti dalla legge n. 241 del 1990 a garanzia dell’istante”.
In sostanza, e nelle stesse giornate in cui si raccoglievano fondi per il FAI, il Governo dei tecnici (e, a volte, dei tecnicismi giuridici), di fatto introduceva una nuova, ulteriore forma di silenzio, che in dottrina (Settis) è stata definita “silenzio-abdicazione”.
Dopo anni di tentativi, più o meno andati a vuoto, di introdurre “semplificazioni temporali” nel settore dell’edilizia, il Governo sembra essere “riuscito nell’impresa” di delegittimare la tutela delle zone sottoposte a vincoli paesaggistici.
Se si considera che i termini per l’emanazione del parere delle soprintendenze sono stati contestualmente ridotti a 45 giorni, non è arduo comprendere che, di fatto, l’eventuale rifiuto – che dev’essere in ogni caso motivato – sarà quasi impossibile da opporre ad istanze potenzialmente anche molto lesive degli interessi che le stesse soprintendenze, in particolare, e le amministrazioni tutte, in generale, dovrebbero tutelare. Per approfondire l’analisi degli artt. 20-23 del DDL semplificazioni, vi rimando all’articolo “Il silenzio ''contro'' gli innocenti (interessi paesaggistici)” pubblicato nelle pagine del “Quotidiano IPSOA”.


Vogliounalternativa.it

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Un'alternativa c'è sempre: rispetto a come ci si comporta, a quello che si fa e, ancora più spesso, a quel che non si fa. Troppo spesso però si ha paura della vertigine che provoca anche la semplice possibilità di poter scegliere una strada diversa dalla solita strada. Eppure è proprio nei momenti di crisi che bisogna saper guardare oltre, capire quali possono essere le alternative e, soprattutto, acchiappare quella migliore!
Il primo passo per cambiare lavoro, stile di vita, mobilità, affetti, taglia o, semplicemente, taglio di capelli è poter esprimere e condividere con gli altri questa voglia di cambiamento e, ora, grazie ad una iniziativa della casa automobilistica Toyota, è possibile farlo: sul sito vogliounalternativa.it ci aspetta un luogo in cui mostrare tutta la forza e le sfaccettature del concetto di alternativa; uno spazio che diventa espressione di un desiderio condiviso, in grado di far germogliare e crescere la voglia di cambiamento che c'è nell'aria.
Sul sito vogliounalternativa.it puoi innanzitutto leggere come gli altri hanno dato voce alla propria emozione per esprimere la loro voglia di cambiamento; puoi dire la tua scrivendo il tuo "desiderio di alternativa" su una bacheca virtuale e, inoltre, puoi seguire l'iniziativa sui canali FB, Twitter e Youtube e concorrere ad alimentare tutto quel che di buono portano i venti del cambiamento!
Cosa scriverei io su quella bacheca? Che ci ho messo due anni ma che alla fine ce l'ho fatta, ed ho cambiato lavoro, città e mobilità: un futuro lavorativo ambiguo e pericolante a Roma, vissuto tra l'aria stantia degli autobus e quella soffocante di un monolocale, hanno lasciato il posto ad un'attività lavorativa on line impegnativa ma appagante gestita da casa. E quando ho voglia di sgranchirmi le gambe o fare un pausa un orto e un giardino mi aspettano!



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Cos’è cambiato in materia di bonifica dei siti contaminati dopo l’introduzione fra i reati presupposto anche di quello relativo all’omessa bonifica?

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Sono molte le problematiche connesse all’introduzione, nel nostro ordinamento, dei “reati ambientali” nei cataloghi dei reati presupposto della responsabilità degli enti: a mero titolo esemplificativo, vi sono quelle generali relative alla facoltatività (o meno) dell’adozione del modello per la gestione dei rischi ambientali; al ruolo e ai poteri dell’organo di vigilanza; all’applicabilità della normativa anche agli enti pubblici; all’applicazione della normativa nel settore della gestione dei rifiuti (l’introduzione dei reati ambientali in tale settore non solo non ha completato la disciplina penale in materia di gestione dei rifiuti, ma rischia di creare nuove problematiche concernenti l’eccessiva severità data dall’inclusione, fra i reati presupposto, anche di molte fattispecie contravvenzionali; la mancanza di proporzionalità causata dal fatto che sono stati introdotti, fra i reati presupposto, fattispecie punite in maniera meno grave di altre che, al contrario, ne sono escluse; la scarsa chiarezza con la quale il legislatore delegato ha richiamato sanzioni incluse fra i reati presupposto).  

Partendo dall’analisi degli articoli 257 del TUA e 25-undecies del DLGS 121/11, nell’articolo “Omessa bonifica da parte dell’impresa? Niente di nuovo sotto il sole”, pubblicato mercoledì 26 settembre 2012 su “Il quotidiano online – Professionalità quotidiana”, testata on line della casa editrice Ipsoa, è stata affrontata l’annosa questione, sorta fin dai tempi della stesura dell’art. 51-bis del “decreto Ronchi” (22/97), che né il TUA (DLGS n. 152/06) né, ora, il DLGS n. 121/11 hanno chiarito: il TUA, infatti, pur apportando all’art. 51-bis del “decreto Ronchi” modifiche tutt’altro che formali, ha mantenuto la criticata formulazione iniziale – in base alla quale “chiunque cagiona l’inquinamento […] è punito […] se non provvede alla bonifica” – che non consente, ora come allora, di chiarire se il legislatore abbia voluto punire: 

 l’inquinamento, a condizione che non si sia provveduto alla bonifica o, invece, 
 l’omessa bonifica. 
Le conseguenze di tale mancanza di certezze giuridiche non sono di poco conto dal punto di vista pratico: 
 nel primo caso, infatti, la bonifica è da considerarsi come condizione obiettiva di punibilità (espressa in forma negativa), che preclude la formazione di una piena illiceità penale: in questo caso l’illecito non si perfeziona fintanto che non si verifica l’omessa bonifica; 
 nel secondo, invece, la bonifica si deve intendere come causa di non punibilità sopravvenuta: presuppone, quindi, il perfezionamento di un reato, ed esclude solo l’assoggettamento a pena, ma non anche l’applicazione di misure di sicurezza, come la confisca dell’area inquinata. 

Le differenze fra i due istituti si riverberano anche sull’efficacia della funzione premiale connessa alla bonifica – stimolo (nel primo caso) o impedimento (se considerata come causa di non punibilità sopravvenuta) – e sull’estensione (o meno) della responsabilità penale ai concorrenti estranei alla riparazione. Potete leggere il testo completo del cit. articolo, con la ricostruzione giuridica della vicenda, qui ne riporto brevemente le conclusioni.
La direttiva è stata recepita all’italiana e, come s’è visto, l’introduzione dei reati ambientali all’interno della L.231 non ha contribuito a chiarire questo importante aspetto della disciplina sulle bonifiche, non avendo fatto alcun riferimento ad eventuali cause di non punibilità a favore dell’ente che provveda alla bonifica. Modus operandi che – lasciando aperta la diatriba dottrinale fra i fautori della bonifica come causa di non punibilità sopravvenuta e come condizione obiettiva di non punibilità (espressa in forma negativa), cui si aggiunge quella di chi si professa favorevole a norme premiali “spinte fino all’impunità, laddove l’ente, seppure tardivamente, tenga una condotta antagonista rispetto all’offesa già arrecata […] posto che, come noto, i costi della bonifica, spesso ingenti, vengono di fatto sostenuti dall’ente”(C. RUGA RIVA) – non ha risolto il problema, lasciandoci in eredità solo un’altra omissione: quella di un (solo medio tempore?) “omesso progresso” (giuridico, economico, sociale, culturale, ambientale) sostenibile…


Bonifica dei siti contaminati: le modifiche al regime di imputazione della responsabilità

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In materia di bonifica dei siti contaminati, nel passaggio dalla vecchia alla nuova normativa, si è assistito ad una sostanziale modifica del regime di imputazione della responsabilità: a quella di natura oggettiva è subentrato un criterio fondato sull’accertamento dei parametri soggettivi di colpevolezza in capo all’inquinatore. 
La maggioranza delle sentenze in materia, tuttavia, più che dei criteri di imputazione si è occupata della responsabilità del proprietario di un sito contaminato: conclusione “logica”, se solo si pensa che, mentre la disciplina amministrativa concernente i siti contaminati, di cui al TUA, è molto articolata, quella sanzionatoria, al contrario, non solo è concentrata in un unico articolo, ma si caratterizza per la sua nebulosità, che la rende difficile da applicare. 
Lo dimostrano non solo la difficile ricostruzione ermeneutica del reato di omessa bonifica, ma anche le sporadiche sentenze in materia, frutto del silenzio inevitabile che il giudice ha per lungo tempo serbato in merito. Conclusione “logica” che a volte “ha imposto” un criterio di imputazione della responsabilità “para-oggettiva”: la via più semplice utilizzabile – nella difficoltà di individuare i veri responsabili dell’inquinamento, e dare forza pratica al principio di origine comunitari “chi inquina paga” – per addossare i costi della bonifica al proprietario di un sito contaminato, sulla base del semplice criterio dominicale… 
A ciò si deve aggiungere la confusione che, in materia, spesso è stata fatta (e si continua a fare, a livello di prassi amministrativa) fra bonifica di siti contaminati e rimozione di rifiuti abbandonati su terreni. Queste considerazioni sono alla base della ricognizione delle principali sentenze sulle diverse responsabilità in materia di bonifica di siti contaminati, relative: 
• all’omessa bonifica. 
• all’omessa comunicazione. 
• ai soggetti coinvolti (il Comune; il proprietario jure successionis; le società; il proprietario tout court; il locatore); 
• ai poteri e doveri dell’Amministrazione procedente; 
• alla messa in sicurezza di emergenza • alle modalità di individuazione delle responsabilità, oggetto del mio articolo “Bonifica dei siti contaminati, difficile individuare le responsabilità”, di cui potete leggere il testo completo sul sito “Il quotidiano online – Professionalità quotidiana” della casa editrice milanese Ipsoa.