Rifiuti e sottoprodotti: altri elementi di differenzazione

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Nella causa Arco Chemie la Corte ha enumerato una serie di elementi che possono indurre a considerare rifiuto un determinato materiale.
Nonostante alcuni di questi possano, in alcuni casi, rilevarsi utili, nessuno costituisce una prova irrefutabile.

1) Quando lo smaltimento è l’unico utilizzo possibile…
Ad esempio, abbiamo visto che se un materiale non ha alcun utilizzo e, quindi, deve essere smaltito, sembrerebbe ovvio considerarlo rifiuto fin dal momento della sua produzione.

Tuttavia, in alcuni casi – vuoi per ragioni ambientali, vuoi per motivi di sicurezza o di salute pubblica – è la legge stessa che vieta di riutilizzare un dato materiale, oppure obbliga il proprietario o il detentore a disfarsene o a recuperarlo come rifiuto mediante una procedura obbligatoria (un classico esempio è costituito dalla direttiva sullo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili, che contempla l'obbligo di disfarsi di un determinato materiale o di trattarlo come rifiuto).

Allo stesso modo, finché un materiale non soddisfa le norme stabilite per il suo utilizzo eventuale, occorre trattarlo come rifiuto.

Più complessa, invece, è la questione dei danni ambientali che un materiale può causare e quella inerente alle misure speciali da adottare a tutela dell'ambiente in previsione di un suo eventuale utilizzo.
Vi sono molti prodotti principali che possono anch'essi causare danni ambientali importanti e richiedono quindi misure di precauzione particolari.
Pur tuttavia, interpretando la definizione di rifiuto alla luce della posizione della Corte, il fatto che un sottoprodotto abbia un impatto ambientale maggiore di quello di un materiale alternativo o
di un altro prodotto di cui funge da sostituto può influire, in situazioni in cui il raffronto è possibile e pertinente, sulla classificazione del materiale come rifiuto o meno.


La situazione opposta, ovvero l'assenza di rischi ambientali evidenti, non dimostra che un materiale non è un rifiuto: nella causa Palin Granit la Corte ha ritenuto che, pur essendo stato comprovato che il materiale in questione non rappresentava alcun rischio grave per la salute umana e per l'ambiente, tale certezza non costituiva un criterio tale da escludere la qualifica di rifiuto.

Questo ragionamento non fa una piega.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, degli inerti industriali scaricati in una zona non adibita allo scopo:
tali materiali possono non costituire alcun rischio per l'ambiente o la salute umana, ma causano indubbiamente inconvenienti e devono pertanto essere considerati rifiuti.

Sempre in base a questo ragionamento, il fatto che una sostanza possa essere recuperata come combustibile, secondo modalità compatibili con le esigenze di tutela ambientale e senza subire un trattamento radicale, non significa che essa non sia un rifiuto

La definizione di rifiuto è data proprio per garantire che i rifiuti siano effettivamente trattati in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale: dunque, neanche il luogo di deposito del materiale, e tantomeno la sua composizione, sono criteri da prendere in considerazione all'atto di stabilire se qualificarlo di rifiuto o meno.

Nell'estrazione del marmo, ad esempio, i residui di produzione possono avere una composizione del tutto identica a quella del prodotto principale ma, dal momento che sono destinati allo smaltimento, saranno comunque considerati rifiuti.


2) Il metodo di trattamento standard del materiale
In alcuni casi la destinazione di un materiale può costituire un forte indizio della sua natura: tuttavia la Corte di Giustizia ha sostenuto che non sempre l'operazione cui viene sottoposto un materiale (smaltimento o recupero) consente di di pronunciarsi sulla natura di un materiale.

Conclusione, anche questa, che non fa una piega: molti dei metodi di trattamento indicati negli allegati possono tranquillamente applicarsi ai rifiuti ma anche a prodotti (non è possibile, ad esempio, distinguere tra la combustione di un combustibile in quanto prodotto e quella di un residuo basandosi esclusivamente sul metodo di trattamento).

3) La percezione dell’azienda
La percezione del materiale come rifiuto può essere un indizio della sua natura di rifiuto, anche se occorre particolare attenzione nel fare affidamento a tale tipo di criterio, in quanto potrebbe indurre una certa negligenza nell'applicazione della legislazione sui rifiuti, favorendo le imprese che non sono al corrente dei loro obblighi legali o che cercano di sottrarvisi.
Trattandosi, inoltre, di un criterio puramente soggettivo, potrebbe dar luogo a concetti di rifiuto diversi a seconda degli Stati membri.

4) La riduzione della quantità di materiale prodotto
Infine, se un'azienda cerca di ridurre la quantità di materiale prodotto, si potrebbe logicamente desumere che il materiale in questione sia un rifiuto.
Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di una prova irrefutabile, perché un'azienda può cercare di variare le quantità prodotte per ragioni legate ai costi, ai prezzi e ai mercati, e – quindi – per motivi diversi da quello della riduzione del volume del materiale di cui si deve disfare.

Senza dimenticare che – applicando questo criterio alla lettera – alcune aziende potrebbero essere indotte a non adottare le politiche di prevenzione dei rifiuti.

(continua)

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I residui di produzione non sono rifiuti quando... (2)

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Nel precedente post abbiamo analizzato la prima delle tre condizioni che, secondo la Comunicazione, devono cumulativamente esistere perché un residuo di produzione possa essere considerato un sottoprodotto (la certezza dell’utilizzo)

Ora analizziamo le altre due (assenza di una trasformazione preliminare; continuità del processo di produzione).

Il materiale può essere riutilizzato senza che sia previamente trasformato?
Si tratta di una condizione che in alcuni casi è difficile da valutare; la catena del valore di un sottoprodotto, infatti, prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile.

Così, dopo la produzione, il materiale può essere lavato, seccato, raffinato, omogeneizzato.
Lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo.
Può essere oggetto di controlli di qualità.
E via discorrendo

Alcune di queste operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante.
Altre vengono effettuate presso l'utilizzatore successivo.
Infine, capita che le stesse possano essere effettuate da intermediari.

Bene, nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione, non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto: a tal proposito la Corte di Giustizia ha ritenuto che se un materiale necessita di un'operazione di recupero per poter essere riutilizzato, anche quando una tale utilizzazione è certa, esso va considerato rifiuto fino al completamento dell'operazione.

Continuità del processo di produzione
Dunque, se la preparazione del materiale per il suo riutilizzo avviene nel corso del processo di produzione e il materiale è successivamente spedito per poter essere riutilizzato, si ha allora un sottoprodotto, in conformità dei criteri stabiliti dalla Corte: in questo caso l'autorità competente dovrà determinare se le operazioni sono parte integrante del processo di produzione in corso.

La Commissione, al riguardo, ha evidenziato che sarebbe opportuno che l'autorità competente operasse una distinzione prendendo in considerazione tutti gli elementi osservabili:
  • grado di preparazione del materiale per il suo riutilizzo;
  • natura e portata delle operazioni necessarie per tale preparazione;
  • integrazione di queste operazioni nel processo di produzione principale;
  • eventuale esecuzione delle operazioni da parte di terzi.
Ne consegue che se il materiale, per essere ulteriormente trasformato, viene spostato dal luogo o dallo stabilimento in cui è stato prodotto, è verosimile ritenere che le operazioni necessarie alla sua trasformazione non facciano più parte dello stesso processo di produzione.

Nonostante ciò – e a dimostrazione della complessità della materia, frutto anche della continua evoluzione della tecnica e della specializzazione dei processi industriali –questo elemento da solo non basta a costituire una prova.

Un esempio: la causa sui detriti
Nelle cause Avesta Polarit e Palin Granit, la Corte era stata chiamata a definire le circostanze nelle quali i detriti risultanti dalle attività estrattive e minerarie fossero da considerarsi rifiuti.

La Corte ha stabilito che, quando:
  • i detriti sono ammassati in attesa di un eventuale utilizzo o di un'operazione di trattamento obbligatoria, essi costituiscono rifiuti;
  • i residui fisicamente identificabili, ammassati in attesa di un riutilizzo eventuale ma non certo, senza previa trasformazione, come materiali di riempimento per sostenere le gallerie sotterranee generate dall'attività principale della miniera (estrazione del minerale), non sono da considerare rifiuti.
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Il deposito temporaneo irregolare di rifiuti è un’operazione di recupero (dell’incertezza giuridica?)

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Nonostante il chiarimento relativo alle modalità, con le quali può avvenire il deposito temporaneo (scelta alternativa fra l’opzione quantitativa e quella temporale, sia per i rifiuti pericolosi che per quelli non pericolosi), la disciplina di cui al nuovo T.U.A. ha suscitato alcune perplessità, soprattutto in relazione all’inserimento del deposito temporaneo irregolare di rifiuti fra le operazioni di recupero.

Ciò che destava maggiore preoccupazione era, da un lato, l’utilizzo “disinvolto” della terminologia giuridica e, dall’altro, la cronica incapacità del nostro legislatore di scrivere le norme in modo univoco e coordinato.

Sotto il primo profilo, occorre ricordare che, con la definizione di deposito temporaneo, il legislatore ha espressamente fatto riferimento ad una fase antecedente la gestione dei rifiuti: se viene effettuato in violazione delle condizioni stabilite dalla legge, che ne giustificano il trattamento eccezionale e derogatorio, il deposito temporaneo (irregolare) rientra nella fase di gestione (e deve essere autorizzato).

Al fine di evitare pericolose confusioni terminologiche, il legislatore ha definito l’iniziale ammasso temporaneo di rifiuti, effettuato durante la fase di gestione, deposito preliminare o messa in riserva, a seconda della destinazione ad operazioni di smaltimento o di recupero.

Per tale motivo non sembra opportuno utilizzare l’espressione “deposito temporaneo” per indicare un’operazione di gestione (fra le quali, com’è noto, rientra il recupero).

Ma oltre a tale utilizzo, non corretto dal punto di vista giuridico, non si comprende il motivo che ha indotto il legislatore a inserire il deposito temporaneo irregolare esclusivamente fra le operazioni di recupero, e non anche fra quelle di smaltimento.


Sotto il secondo, devono essere evidenziate le contraddizioni che scaturiscono da una lettura comparata:
  • dell’art. 2, comma 1, lett. g), del D.Lgs. n. 36/2003 (nozione di discarica, che comprende “qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno”) con quella di cui
  • al punto R14 dell’allegato C della parte quarta del T.U.A. (che prevede l’automatica trasformazione del deposito temporaneo, effettuato senza il rispetto delle condizioni previste dalla normativa, in un’operazione di recupero),
dalla quale emerge che la stessa operazione (deposito temporaneo, effettuato in violazione delle condizioni temporali previste dalla normativa vigente) è:
  • considerata una discarica (se i rifiuti, ammassati “temporaneamente”, sono destinati allo smaltimento), e
  • può essere considerata (alternativamente? sulla base di quali criteri?) una discarica o un’operazione di recupero (se i rifiuti, ammassati “temporaneamente”, sono destinati al recupero).
Tali contraddizioni si riversano, inevitabilmente, sulla realtà quotidiana, in quanto creano confusione:
  • sugli operatori del settore, i quali non sanno a quale regime giuridico (è) può essere sottoposto il “deposito temporaneo” di rifiuti, e a quali sanzioni (sono) possono essere assoggettati nel caso di violazione delle condizioni stabilite per legge;
  • sulle autorità competenti al rilascio delle autorizzazioni, che, nell’incertezza relativa alla qualificazione giuridica da attribuire al deposito temporaneo, effettuato in violazione delle condizioni temporali previste dalla normativa vigente e, comunque, in assenza dell’indicazioni delle precise caratteristiche, che dovrebbero configurare questa nuova figura di “deposito temporaneo irregolare-operazione di recupero R14”, si troveranno di fronte al dilemma di “come autorizzare cosa” e, infine,
  • sugli organi di vigilanza e sul giudice.
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Nozione di rifiuto. Causa C-188/07. Sentenza della Corte di Giustizia

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Un breve flash per segnalarvi che ieri è stata pubblicata sul sito della Corte di Giustizia della Comunità europee la sentenza nella causa C-188/07, di cui vi ho sintetizzato le conclusioni dell’Avv. Generale della Corte, Juliane Kokott nei post del 13 e 14 marzo 2008.

Ebbene, la Corte ha fatto proprie le conclusioni, e ha stabilito che:

Una sostanza come quella oggetto della causa principale, nella fattispecie olio pesante venduto come combustibile, non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE, nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione.

Idrocarburi accidentalmente sversati in mare in seguito a un naufragio, che risultino miscelati ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a raggiungere queste ultime, costituiscono rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, nei limiti in cui non possono più essere sfruttati o commercializzati senza preliminari operazioni di trasformazione.

Ai fini dell’applicazione dell’art. 15 della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, allo sversamento accidentale di idrocarburi in mare all’origine di un inquinamento delle coste di uno Stato membro:

– il giudice nazionale può considerare colui che ha venduto tali idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati come produttore dei rifiuti in questione, ai sensi dell’art. 1, lett. b), della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, e, in questo modo, come «precedente detentore» ai fini dell’applicazione dell’art. 15, secondo trattino, prima parte, di tale direttiva se tale giudice, alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, giunge alla conclusione che detto venditore-noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento determinato dal naufragio, in particolare se si è astenuto dall’adottare provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave;

– qualora risulti che i costi connessi allo smaltimento dei rifiuti prodotti da uno sversamento accidentale di idrocarburi in mare non sono oggetto di accollo da parte del fondo in parola o non possono esserlo a motivo dell’esaurimento del limite massimo di risarcimento previsto per tale sinistro e che, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali, impedisce che tali costi siano sostenuti dal proprietario della nave e/o dal noleggiatore di quest’ultima, sebbene tali soggetti debbano essere qualificati come «detentori» ai sensi dell’art. 1, lett. c), della direttiva 75/442, come modificata dalla decisione 96/350, un siffatto diritto nazionale dovrà allora consentire, onde sia garantita una trasposizione conforme dell’art. 15 di tale direttiva, che i costi in questione siano sopportati dal produttore del prodotto che ha generato i rifiuti così sversati. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», tale produttore può essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l’inquinamento prodotto dal naufragio della nave.

Testo della sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee del 24 giugno 2008, Causa C-188/07


Un segno di responsabilità

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Sul Sole 24 ore di oggi, 25 giugno 2008, è stato pubblicato un interessante articolo di Mariano Maugeri, intitolato “Dalla Iervolino arrivi un segno di responsabilità”.

Inizia e finisce con una citazione di un dialogo fra il poliziotto siciliano Boris Giuliano e Leonardo Sciascia, mentre indagava sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro…

“Mi creda, il ministro dell’Interno dovrebbe essere altoatesino!".

L’articolo parla della perenne emergenza dei rifiuti a Napoli – tematica già affrontata in altre occasioni nelle le pagine di questo blog – e, fra citazioni dotte e amare considerazioni, auspica un segno di responsabilità da parte del Sindaco Iervolino, “manifestamente inadatto a governare una situazione così drammatica come quella che si è srotolata davanti i nostri occhi in questi otto, eterni anni” di mandato…

Ecco alcuni stralci

[…]
Di pari passo con la fermentazione dei rifiuti, in città fermenta una discussione carsica di mail, blog, sms, articoli di giornali e barzellette che reclamano un provvedimento su tutti: le dimissioni del sindaco di Napoli.
Un atto dovuto per chi non vive a Napoli.
Un gesto di responsabilità tardivo ma ineluttabile per i napoletani.


Tutto il dibattito che si è sviluppato attorno all’afasia della borghesia napoletana, elude un problema di fondo.
Che succede quando il primo cittadino (una locuzione rivelatrice di per sé) si mostra manifestamente inadatto a governare una situazione così drammatica come quella che si è srotolata davanti i nostri occhi in questi otto, eterni annidi governo Iervolino?


[…]
Chiunque legga una dichiarazione del sindaco viene sistematicamente assalito dal terribile dubbio che la Iervolino straparli.
Oppure, se può costituire un’attenuante, che sia convinta di sedere ancora al Viminale.
E che le questioni riguardino sempre qualcun’altro: i prefetti, Palazzo Chigi, i questori, la celere, il ministero dell`Economia.


[…]
Possibile che chi ha responsabilità istituzionali non colga questo vulnus?

[…]
Poi ci sono i cittadini napoletani, a seconda delle ore del giorno in preda alla depressione, al disincanto o alla rabbia: possibile che venti di loro non siano capaci di scrivere un documento sulla situazione in cui versa la città e sul vuoto pneumatico di quel palazzo comunale - il simbolo stesso della napoletanità - che in questi mesi avrebbe dovuto risollevare gli animi e sfornare idee, proposte, parole d’ordine, nuovi modelli organizzativi?
A proposito di classe dirigente: c’è voluto un romanzo come i Buddenbrook di Thomas Mann per insegnarci che solo un’economia sana genera una borghesia consapevole (Giovanni Falcone diceva agli imprenditori: «Fate buona economia»).

[…]
La borghesia della spesa pubblica, ammettiamolo, è di per sé una borghesia dimezzata.
Una condizione di intima debolezza culturale, prima che economica, una scarsa considerazione di sé e del proprio ruolo che per opposto li spinge a demonizzare qualunque idea alternativa: allora gli angeli della monnezza come i psicologi della differenziata diventano il simbolo della colonizzazione leghista e il fallimento della comunità locale.
Al contrario, temiamo non ci sia alcun complotto ai danni di Napoli, che è parte fondante dell’identità nazionale. E male fanno i napoletani a crogiolarsi nella antistorica paranoia del regolamento di conti nordista.
Parafrasando Benedetto Croce, se il vittimismo portasse a qualcosa, saremmo vittimisti.
Forse, allora, gli psicologi potrebbero tornare utili se riuscissero a spiegare che la richiesta consapevole di aiuto è una prova di forza, non di fragilità.

[…]
Scriveva la Montessori che un maestro «non impone, né dispone né impedisce, ma propone, predispone, stimola ed orienta».
Sindaco, accetti il principio di realtà.


Rifletta sulle parole di Francesca Castellano, I ° b della scuola media di Marechiaro:

«Signor sindaco, non penso che siamo gli unici a fare spazzatura.
Allora, perché il problema è solo nostro?
C’è secondo lei qualcuno che non ha fatto il suo dovere?
A scuola chi sbaglia il compito prende un voto basso,
e chi sbaglia per un intero anno viene bocciato».


[…]
Perché, rispose Sciascia a Boris Giuliano, «non credo che i ministri dell’Interno debbano essere altoatesini, credo però che debbano comportarsi come tali».

Dalla Iervolino arrivi un segno di responsabilità, di Mariano Maugeri


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I residui di produzione non sono rifiuti quando…(1)

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Condizioni per cui i residui di produzione non sono considerati rifiuti

Come abbiamo visto nel post precedente, per la Corte di Giustizia, un materiale considerato residuo di produzione non è necessariamente un rifiuto: le caratteristiche che rendono un materiale adatto ad essere riutilizzato direttamente nel ciclo economico possono indicare che tale materiale non va considerato un rifiuto.

Nella giurisprudenza recente, la Corte di Giustizia ha stabilito tre condizioni che un residuo di produzione deve soddisfare per essere considerato un sottoprodotto.

Il riutilizzo di un materiale:
1. deve essere certo;
2. non deve richiedere una trasformazione preliminare e
3. deve avviene nella continuità del processo di produzione.

Queste condizioni sono cumulative, devono, cioè, essere soddisfatte contemporaneamente.

La Corte ha, inoltre, previsto che l'uso previsto per il sottoprodotto deve essere lecito, ovvero il sottoprodotto non può essere un materiale di cui il fabbricante ha l'obbligo di disfarsi o il cui utilizzo previsto è vietato dalla legislazione comunitaria o nazionale.

Cominciamo ad analizzare la prima delle tre condizioni; nel prossimo post vedremo le altre due.

Il riutilizzo del materiale è certo e non solo eventuale?

Se vi è la possibilità che:
  • il materiale non sia di fatto utilizzabile,
  • non possieda i requisiti tecnici richiesti per il suo utilizzo o
  • non esista mercato,
si deve continuare a considerarlo rifiuto: in questo modo si tutela l'ambiente dalle conseguenze potenziali di tale incertezza.

Se in seguito lo stesso materiale dovesse risultare avere un'utilità, cesserà di essere considerato rifiuto non appena sarà pronto ad essere riutilizzato come prodotto recuperato.


In alcuni casi può accadere che solo una parte del materiale possa essere riutilizzata: in questo caso, se l'autorità competente – analizzando il singolo caso – non ha indizi sufficienti che garantiscano l'utilizzo certo di tutto il materiale in questione, esso va automaticamente considerato rifiuto.

Ma ci possono essere casi che possono indicare che il materiale sarà utilizzato e, di conseguenza, dare la certezza del suo riutilizzo (ad es., l'esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi).

Così come, all’opposto, vi sono situazioni in cui l’utilizzo è solo eventuale (ad esempio, quando il materiale è depositato per un periodo indeterminato in attesa di un riutilizzo eventuale): in questo caso occorre considerarlo un rifiuto per tutto il tempo in cui è depositato.

Il fatto, poi, che un fabbricante possa vendere un determinato materiale ricavandone un profitto indica sicuramente una maggiore probabilità che tale materiale venga riutilizzato.
Tuttavia, questo elemento, di per sé, non costituisce un indizio sufficiente, e occorre prendere in considerazione altri “indizi”, come i costi di trattamento dei rifiuti, e ponderarli accuratamente.

Perché?

Perché c’è il rischio che sia proposto un prezzo simbolico affinché il materiale non sia classificato come rifiuto, per poi trattarlo al di fuori di impianti di trattamento adeguati.
E perché, viceversa, un prezzo elevato potrebbe indicare che il materiale non è un rifiuto.

Un esempio: le cause sul letame spagnolo

Nelle cause riunite C-416/02 e C-121/03, Commissione contro Spagna, la Corte ha stabilito che il letame non è da considerasi rifiuto se
  • utilizzato come fertilizzante nell'ambito di una pratica legale di spargimento su terreni ben individuati (indipendentemente dal fatto che i terreni siano situati all'interno o al di fuori dell'azienda in cui è stato prodotto l'effluente) e
  • il suo stoccaggio è limitato alle esigenze di queste operazioni di spargimento.
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Corte-Costituzionale-214-08

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L'ambiente di Stato

Nell’analizzare la sentenza della Corte Costituzionale n. 380 del 2007
avevo sintetizzato il pensiero della Corte sulla materia ambiente: in estrema sintesi, si affermava che la circostanza che una determinata disciplina sia ascrivibile alla materia “tutela dell’ambiente”, comporta il potere dello Stato di dettare standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni, “ma non esclude che le leggi regionali emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, o di quella “residuale” di cui all’art. 117, quarto comma, possano assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale”.

Si tratta, quindi, di una disciplina che:
a) è riservata in via esclusiva allo Stato, e può essere “integrata”
  • solo dalle Regioni (o Province autonome) nell’ambito della disciplina concorrente e
  • solo senza derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale;
b) intende stabilire criteri uniformi, non derogabili, su tutto il territorio nazionale, volti – oltre che alla protezione dell’ambiente – anche a non creare disparità di trattamento fra gli operatori del settore.

La recente sentenza della Corte Costituzionale che vi propongo oggi, la n. 214 del 18 giugno 2008, si spinge “ancora più in là”.

In che senso?

Prima di iniziare la beve analisi della sentenza, occorre inserire la vicenda nel contesto giuridico venutosi a creare medio tempore

Il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Testo Unico Ambientale) ha abrogato l’art. 17 del decreto Ronchi, che basava la disciplina sui limiti massimi di concentrazione, al superamento dei quali scattava l’obbligo di bonifica, introducendo le nozioni di:
  • «concentrazioni soglia di contaminazione» (CSC), il cui superamento impone la caratterizzazione e la procedura di analisi di rischio sito specifica, e di
  • «concentrazioni soglia di rischio» (CSR), che, se oltrepassata, determina il sorgere dell’obbligo di bonifica e di messa in sicurezza.
L’art. 265, comma 4, del Testo Unico Ambientale ha attribuito a quanti avevano conseguito l’autorizzazione secondo la previgente disciplina la facoltà di rimodulare i propri interventi sulla base del nuovo regime, stabilendo che «fatti salvi gli interventi realizzati alla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto, entro centottanta giorni da tale data, può essere presentata all’autorità competente adeguata relazione tecnica al fine di rimodulare gli obiettivi di bonifica già autorizzati sulla base dei criteri definiti dalla parte quarta del presente decreto».


Il caso


In applicazione della previsione, testè evidenziata, l’E.N.I. aveva presentato istanza di rimodulazione degli obiettivi di bonifica, rigettata dall’Amministrazione comunale di Migliarino sulla scorta di quanto stabilito dall’art. 5 della legge regionale n. 5 del 2006, il quale il quale stabilisce che «restano di competenza dei Comuni i procedimenti di bonifica dei siti contaminati già avviati alla data di entrata in vigore del Testo Unico Ambientale, che li concludono sulla base della legislazione vigente alla data del loro avvio».

Dubitando della legittimità costituzionale di tale norma, il TAR di Bologna sollevava questione di legittimità costituzionale […] nella parte in cui si porrebbe in contrasto con l’art. 265, comma 4, del Testo Unico Ambientale, il quale stabilisce che le norme in materia ambientale recate da detto decreto legislativo sono applicabili a tutte le situazioni non irreversibilmente definite alla data della loro entrata in vigore, per violazione della competenza legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente.

Il giudizio della Corte

Rimandando alla lettura del testo integrale della sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 18 giugno 2008, vale la pena, in questa sede, sottolineare le conclusioni del Giudice costituzionale:

Le Regioni, nell’esercizio di proprie competenze, possono perseguire fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale. Tuttavia, il perseguimento di finalità di tutela ambientale da parte del legislatore regionale può ammettersi solo ove esso:
  • sia un effetto indiretto e marginale della disciplina adottata dalla Regione nell’esercizio di una propria legittima competenza e comunque
  • non si ponga in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che proteggono l’ambiente
Inoltre, la disciplina ambientale, che scaturisce dall’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, costituisce un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato.

Fin qui, la pronuncia si inserisce nell’alveo dei propri precedenti (per un approfondimento basti consultare le seguenti sentenze della Corte Costituzionale: sentenza n. 246 del 2006;sentenza n. 182 del 2006; sentenza n. 431 del 2007; sentenza n. 62 del 2008;sentenza n. 378 del 2007).

La novità risiede nel fatto che, dopo tale premessa, la Corte Costituzionale sottolinea che “spetta infatti alla disciplina statale tener conto degli altri interessi costituzionalmente rilevanti contrapposti alla tutela dell’ambiente. In tali casi, infatti, una eventuale diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in tema di tutela dell’ambiente, rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e sproporzionata gli altri interessi confliggenti considerati dalla legge statale nel fissare i cosiddetti valori soglia”

In sostanza, alle Regioni è preclusa ogni possibilità di intervento in materia ambientale: non solo attraverso “integrazioni peggiorative” – come già evidenziato con la citata sentenza n. 380 del 2007 ma anche attraverso la previsione di una normativa più rigorosa in tema di tutela dell’ambiente

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Il deposito temporaneo nel Testo Unico Ambientale (prima della modifica)

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L’art. 183, comma 1, lett. m), del Testo Unico Ambientale, nella sua versione originaria, definiva il deposito temporaneo il raggruppamento dei rifiuti effettuato, a determinate condizioni, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti.

Le novità contenute nel nuovo testo riguardavano:

1) le modalità con le quali può avvenire il deposito temporaneo: è stato chiarito, infatti, che l’opzione quantitativa e quella temporale sono fra di loro alternative (sia per i rifiuti pericolosi che per quelli non pericolosi). Questa precisazione esclude la sopravvivenza, dopo il 29 aprile 2006, dell’orientamento interpretativo, nettamente prevalente, della Suprema Corte, secondo la quale dovevano ricorrere, cumulativamente, tanto il requisito quantitativo quanto quello temporale;


2) la maggior ampiezza della definizione, dovuta alla sostituzione del riferimento all’effettuazione del deposito per “tipi omogenei” con quello per “categorie omogenee”;


3) l’introduzione di una nuova figura, quella del “soggetto affidatario del deposito temporaneo”. L’art. 208, comma 17, infatti, dopo aver stabilito che “fatti salvi l’obbligo di tenuta dei registri di carico e scarico da parte dei soggetti di cui all’art. 190 ed il divieto di miscelazione di cui all’art. 187, le disposizioni del presente articolo non si applicano al deposito temporaneo effettuato nel rispetto delle condizioni stabilite dall’articolo 183, comma 1, lettera m)”, analogamente a quanto previsto dal decreto Ronchi, precisa che “la medesima esclusione opera anche quando l’attività di deposito temporaneo nel luogo di produzione sia affidata dal produttore ad altro soggetto autorizzato alla gestione di rifiuti”.


Questa innovazione consente lo spostamento di responsabilità dal produttore del rifiuto al soggetto gestore per tutto ciò che concerne la gestione del deposito temporaneo: tuttavia, per evitare che tale passaggio possa equivalere ad una totale deresponsabilizzazione del produttore, il legislatore ha previsto, in capo a quest’ultimo, una serie di obblighi:

a) innanzitutto – nonostante il deposi
to temporaneo non sia un’attività di gestione, ma vi si ponga a monte – il produttore di rifiuti deve affidare l’attività di deposito temporaneo ad un soggetto autorizzato alla gestione dei rifiuti.
In sostanza, il terzo affidatario deve essere iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali, non essendo sufficiente, al riguardo, il possesso di una generica capacità ed idoneità tecnica.
In attesa del futuro regolamento – nel quale saranno definite le attribuzioni e le modalità organizzative dell’Albo, i requisiti, i termini e le modalità di iscrizione, i diritti annuali d’iscrizione, nonché le modalità e gli importi delle garanzie finanziarie che devono essere prestate a favore dello Stato – l’art. 212, comma 10, del T.U.A., stabilisce che “continuano ad applicarsi, per quanto compatibili, le disposizioni del decreto del Ministro dell’Ambiente 28 aprile 1998, n. 406”.
I requisiti e le condizioni per l’iscrizione all’Albo, dunque, sono quelli previsti dall’art. 10 di quest’ultimo, mentre le categorie di attività di gestione dei rifiuti per le quali è richiesta l’iscrizione sono quelle indicate nell’art. 8: il fatto che non sia prevista una specifica categoria per i soggetti affidatari dell’attività di deposito temporaneo di soggetti terzi, e la considerazione che l’art. 208, comma 17, del Testo Unico Ambientale richieda genericamente che il soggetto affidatario sia autorizzato alla gestione dei rifiuti (senza ulteriori specificazioni), sembra indurre alla conclusione che tale soggetto debba essere iscritto nella categoria n. 6 individuata dal D.M. n. 406/98 (gestione di impianti fissi di titolarità di terzi nei quali si effettuano le operazioni di smaltimento e di recupero di cui agli allegati B e C del D.Lgs. n. 22/97).

b) il deposito dei rifiuti deve essere effettuato all’interno del luogo di produzione;

c) il conferimento di rifiuti da parte del produttore all’affidatario del deposito temporaneo costituisce adempimento agli obblighi, di cui all’articolo 188, comma 3. In tal caso l’annotazione delle informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti nel registro di carico e scarico devono essere effettuate – da parte di entrambi – entro 24 ore dalla produzione del rifiuto stesso.

4. Infine, la novità più rilevante era costituita dalla previsione di cui al punto R14 dell’allegato C della parte quarta al Testo Unico Ambientale, che inserisce, fra le operazioni di “recupero”, il “deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo dove sono prodotti i rifiuti, qualora non vengano rispettate le condizioni previste dalla normativa vigente”.

(continua)

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Carta da macero: rifiuto o materia prima secondaria?

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La sentenza della Corte di Cassazione che vi propongo oggi è la n. 5804 del 6 febbraio 2008 (Gallotti e altri), relativa alle materia prime secondarie.

Nella sezione pillole di giurisprudenza, di solito mi “limito” ad fornire informazioni – con una breve descrizione della fattispecie – sulle più recenti sentenze della Cassazione, rinviando, per l’approfondimento, in altre sedi (in particolare: vocabolario ambientale)

In questo caso, però, mi sembra doveroso un sia pur breve commento, volto:
  • ad evidenziare come anche le decisioni dei Giudici, a volte, siano criticabili (quando poi si tratta dei Giudici della Suprema Corte di Cassazione…), e
  • a porre l’attenzione sulle conseguenze dannose che possono avere certe interpretazioni forzate del dato normativo (nonostante le leggi, spesso, siano scritte in modo vergognoso…ma questa è un’altra storia...)
Nel caso concreto le conseguenze della sentenza della Cassazione n. 5804 del 2008 si riverberano sull’ambiente, sulle finalità di protezione della natura e dell’ambiente perseguite dalla normativa in materia di gestione dei rifiuti, (in seconda battuta) sull’economia delle aziende coinvolte nella loro gestione.

Il caso

Il Tribunale di Tivoli aveva assolto i sigg. Gallotti, Berardinelli, Mani e Veneziano – perché il fatto non sussiste – dal reato di cui all’art. 51, comma primo lett. a), del D.L.vo n. 22/97, loro ascritto per avere:
  • il Gallotti, quale responsabile della ditta Nuove Cartiere di Tivoli, e
  • gli altri imputati, quali titolari di aziende che procedevano al recupero della carta da macero
effettuato operazioni di smaltimento del predetto materiale costituente rifiuto in assenza della prescritta autorizzazione.

Il giudice di merito:
  • dopo aver osservato che ai costituiscono recupero “le operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie"...
  • ha escluso la sussistenza del reato ascritto a tutti gli imputati in base al rilievo che la carta da macero veniva immessa direttamente nel ciclo produttivo senza alcun trattamento preventivo, avendo la stessa funzione della cellulosa e che, pertanto, doveva essere qualificata quale materia prima secondaria.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso immediato per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli, il quale osservava che:
  • i materiali di cui alla contestazione rientrano nella categoria dei rifiuti, secondo la classificazione contenuta nel D.M. 5 febbraio 1998 […];
  • il D.L.vo n. 22/97 qualifica smaltimento dei rifiuti le attività preliminari alle operazioni di recupero costituite dalla cernita e adeguamento volumetrico dei rifiuti, che non perdono per tale motivo le loro caratteristiche, sicché nella vigenza del D.L.vo n. 22/97 le attività poste in essere dagli imputati dovevano essere qualificate di smaltimento dei rifiuti, costituendo in particolare un’operazione di recupero la riutilizzazione della carta da macero previo il necessario trattamento, da inquadrarsi tra le operazioni descritte al punto R3 […];
  • anche in applicazione del Testo Unico Ambientale, deve pervenirsi ad analoghe conclusioni nella qualificazione dell’attività posta in essere dagli imputati, in quanto l’art. 183 […] include, tra le operazioni di recupero, la cernita e la selezione dei rifiuti;
  • anche nella vigenza del Testo Unico Ambientale continuano ad applicarsi le disposizioni del DM 5 febbraio 1998 […];
  • infine, se dovesse ritenersi esatta l’interpretazione dell’art. 183 dek Testo Unico Ambientale contenuta nell’impugnata sentenza, con riferimento alla nozione di materia prima secondaria, la norma risulterebbe in contrasto con la direttiva comunitaria in materia di rifiuti, così come interpretata dalla Corte di Giustizia Europea con la sentenza Niselli dell’11 novembre 2004.
La decisione della Corte

La Corte, e questa è la nota dolente, a parere di chi scrive, ha ritenuto fondato il ricorso.
Queste i passaggi fondamentali della decisione:
  1. le operazioni poste in essere dagli imputati dovevano, “senza ombra di dubbio” (sottolinea la Cassazione), essere classificate quale recupero e smaltimento dei rifiuti, nella vigenza del decreto Ronchi e, in quanto tali, erano soggette ad autorizzazione;
  2. la carta, cartone da macero e sostanze simili rientrano nella categoria dei rifiuti ai sensi del D.M. 5 febbraio 1998;
  3. in seguito all’entrata in vigore del Testo Unico Ambientale – che ha introdotto la nozione, tra l’altro, di materia prima secondaria – non si perviene, tuttavia, a conclusioni diverse agli effetti dell’art. 2 c.p.;
  4. ai sensi dell’art. 181, comma 12, del Testo Unico Ambientale “la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero, che si realizza quando non sono necessari ulteriori trattamenti perché le sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria, combustibile o come prodotto da collocare, a condizione che il detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l’obbligo, di disfarsene”;
  5. ai sensi dell’art. 183 del Testo Unico Ambientale […] costituiscono operazioni di recupero “le operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie, combustibili o prodotti attraverso trattamenti meccanici termici, chimici o biologici, incluse la cernita o la selezione, e, in particolare, le operazioni previste nell’Allegato C alla parte quarta del presente decreto”;
  6. è indubbio, pertanto – sostiene la Corte, che le operazioni di cernita e selezione della carta o cartone da macero poste in essere dalle imprese fornitrici della cartiera dovevano inquadrarsi tra quelle di recupero dei rifiuti ai sensi delle disposizioni citate, e, quindi, soggette alla relativa disciplina anche se, in ipotesi, riferibili a materie prime secondarie;
  7. va, infine, osservato che la disciplina in materia di gestione dei rifiuti, ai sensi dell’art. 181, commi 12 e 13, del Testo Unico Ambientale non si applica alle sostanze utilizzabili come materia prima secondaria a condizione che “il detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l’obbligo, di disfarsene”: nel caso in esame – e con questo la Cassazione chiude il cerchio – si tratta di materiali di cui, in ogni caso, il detentore si era già disfatto, dovendo il termine “disfarsi” essere univocamente riferito al detentore originario della sostanza utilizzabile come materia prima secondaria, sicché il materiale oggetto delle descritte operazioni di recupero non si sottrae alla applicazione della normativa in materia di rifiuti.
In cosa, secondo me, ha sbagliato la Cassazione?

In sostanza, la Cassazione ha affermato che quando:
  • materiali prodotti da terzi (nella specie: carta da macero)
  • oggetto di attività di cernita e di selezione
  • che vengono successivamente conferiti ad un’impresa (nella specie: una cartiera)
  • e utilizzati nel ciclo produttivo di quest’ultima
ricorre un’ipotesi di gestione di rifiuti e, quindi, non è invocabile la disciplina delle materie prime secondarie.

Come a dire: l’attività di recupero effettuata ha generato rifiuti….

Quale sarebbe, dunque, il senso dell’attività di recupero?

Occorre evidenziare che il concetto di materie prime secondarie, per definizione, presuppone sempre l’esistenza di un rifiuto, secondo questo schema:

rifiuto --> attività di recupero --> generazione di una materia prima secondaria.

Se così non fosse, se, cioè, un materiale derivante da un’attività di recupero, nel rispetto degli standards stabiliti per legge, e riutilizzato in un ciclo produttivo fosse considerato (come ha fatto la Cassazione nel caso di specie…) un rifiuto, che senso avrebbe l’attività di recupero?

Il discorso, mi rendo conto, è complesso e investe profili giuridici che devono essere approfonditi: cosa che non è gestibile attraverso lo strumento del blog, che per sua natura è dinamico e non idoneo ad analisi tecnico-giuridiche.

Per il momento mi “limito” a segnalare il problema, e a rimandare ad un interessante articolo di Paola Ficco su sito di Reteambiente

Ma di certo non mancheranno approfondimenti anche sul sito di Giuristi Ambientali (con il quale collaboro da ormai quasi cinque anni).

Testo integrale della sentenza 5804 del 06 febbraio 2008.


Si fa presto a dire nucleare

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L’altro giorno, nel postarvi un interessante articolo di Enrico Lorenzini sul "Nucleare di quarta generazione" (Sole 24 ore del 17 giugno 2008), ho evidenziato come, a mio parere, i “sordi isterismi” (anche nella dialettica in materia ambientale) non servono, in ogni caso, a fare il punto della situazione, né ad aiutare un dialogo costruttivo fra posizioni contrapposte, e come sia indispensabile informarsi, prima di parlare (e immolare e immolarsi a questa soluzione piuttosto che a quella), per capire e poter essere più consapevoli delle proprie scelte, in totale indipendenza.

L’alternativa è quella di ridurre tutto a tifo da stadio...

Oggi posto stralci del secondo dei due articoli, firma di Marcello Inghilesi (sempre tratto dal Sole 24 ore del 17 giugno 2008)

“Si fa presto a dire «nucleare».

Ci sono alcune premesse doverose.

«Pietà l'è morta», recitava un vecchio adagio dell'ultima guerra.

Passata la pietà, ora sembra morta l'umiltà: da tempo molti, moltissimi pontificano sull'argomento nucleare, dicendo bestialità, normalmente interessate a beghe di parte o di villaggio o di potere, grande o piccolo che sia.


I poveri e pochi italiani che hanno studiato professionalmente la materia sono ormai rossi di vergogna.

Al G8, gruppo degli Stati più industrializzati del mondo, siamo gli unici che non solo non hanno più centrali elettronucleari, ma che le hanno anche spente (dopo aver maltrattato gli austriaci, che qualche anno prima, avevano dato il buon esempio, gettando dalla finestra, tecnologie, "saper fare" e decine di miliardi di euro).

Una volta laurearsi in Ingegneria nucleare era un titolo di grande merito […]

La proposta del Governo è ora di riaprire rapidamente i cantieri per costruire centrali nucleari di terza generazione.

Contro questa proposta si sono già schierati diversi gruppi.
Gli anti-nucleari, tout court.
Quelli che dicono che forse è meglio aspettare i reattori di quarta generazione.
Oppure che l'Italia non è Paese adatto all'installazione di centrali nucleari.
Oppure che il nucleare è troppo caro.
Oppure che il nucleare «inquina».
Oppure che il minerale di uranio, da cui deriva il combustibile nucleare, è in via di esaurimento.

I filo-nucleare sostengono che tutte queste argomentazioni sono o infondate o inconsistenti o risibili.

La mancanza di umiltà di fronte al sapere, continua, anzi si aggrava, perché il sapere in materia è in continua evoluzione.

Cerchiamo di capire qualcosa su questa storia delle «generazioni» dei reattori nucleari, oltretutto fortemente contestate, in questa loro evoluzione generazionale, da alcuni movimenti ecologisti, come l'«uscire dal nucleare».


[…]

Una considerazione finale.
Il "nucleare" in Europa ormai si basa su due fattori, di cui bisogna assolutamente avere coscienza, al di là di opinioni sbandierate, per lo più superficiali.


La prima è che una centrale elettronucleare ha senso solo se inserita in un quadro almeno continentale, per tecnologie, necessità finanziarie, localizzazioni e reti di distribuzione.
La seconda è che il "nucleare" è composto da sistemi tecnologici complessi e internazionali, talvolta autonomi tra loro (in maniera analoga al settore "spaziale").”

Per leggere l’intero articolo (in particolare, per l’interessante storia delle varie generazioni del nucleare, clicca qui)

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Deposito temporaneo, discarica e paradossi interpretativi

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(segue da)

Il D.Lgs. n. 36/2003 e la successiva giurisprudenza

L’art. 2, comma 1, lett. g), del D.Lgs. n. 36/2003, nel recepire la direttiva n. 1999/31/CE, ha definito, per la prima volta, la nozione di discarica, caratterizzata dai seguenti elementi:

1) la discarica è l’area adibita a smaltimento dei rifi
uti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo. Tale nozione comprende:
  • la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché
  • qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno.
2. Sono esclusi da tale definizione:
  • gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e
  • lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o
  • lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno.
Appare evidente che, (anche) in questo caso, il testo non è dei più chiari.
In relazione al punto sub 1, secondo pallino, in particolare, parte della dottrina ha affermato che la definizione di discarica “assume una importanza particolare, perché finalmente consente di delimitare con chiarezza, in positivo, una serie di comportamenti su cui regnava confusione ed incertezza [...] L’articolo 2 sancisce anche che, trascorso questo limite massimo di 1 anno, il deposito temporaneo viene considerato una vera e propria discarica di rifiuti; si configura cioè non un deposito incontrollato, come sostiene la Cassazione, ma una atti
vità di gestione-smaltimento...di rifiuti che necessita, in primo luogo, di autorizzazione”.


In senso contrario è stato osservato che “se da un lato il XIV considerando della direttiva del 1999 dispone che "le aree adibite a deposito temporaneo di rifiuti dovranno essere conformi ai requisiti di cui alla direttiva 75/442/CEE", il che legittima la tesi dell'automatismo tra deposito temporaneo ultrannuale e discarica, dall'altro lato si potrebbe pensare che la direttiva non intendesse riferirsi all'istituto del deposito temporaneo - trasfuso nell'art. 6, lett. m), D.Lgs. 22/1997 - ma abbia invece usato quell'espressione per connotare in generale le situazioni di stoccaggio provvisorio”.

In seguito all’entrata in vigore del D.Lgs n. 36/2003, la Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. III, 17 novembre 2004, n. 44548), ha precisato che “il raggruppamento dei rifiuti nel luogo dove sono prodotti, se non supera l’anno e ricorrono le altre condizioni previste dalla norma, non è soggetto ad alcuna autorizzazione, ma solo all’obbligo del registro; se supera l’anno diventa discarica punibile ex. art. 51, terzo comma, del D.Lgs. n. 22/97; se non supera l’anno, ma evidenzia il mancato rispetto degli altri limiti previsti dalla norma, diventa deposito incontrollato punibile a norma del secondo comma del medesimo art. 51”.

In questo modo, la Cassazione ha sancito che, allo scadere del termine annuale, un deposito temporaneo si trasforma automaticamente in discarica, e, quindi, necessita dell’autorizzazione.

Commentando questa sentenza, una parte della dottrina ha messo in rilievo le contraddizioni in cui, ancora una volta, è incorso il nostro legislatore che, attraverso “la stratificazione di norme, spesso attuata senza preventivo attento coordinamento, ha portato a dei paradossi interpretativi ed applicativi che producono effetti immediati nella operatività quotidiana delle imprese, della P.A. e degli organi di vigilanza”.

In particolare, si è sottolineato, il fatto che la definizione di discarica (identica a quella stabilita dal legislatore europeo) non riporti alcun dato quantitativo (contenuto, invece, nel “nostrano” deposito temporaneo), ha creato un’imbarazzante situazione di “nonsense interpretativo”, alimentando l’instabilità legislativa, e, di conseguenza, l’incertezza giuridica, che da sempre contraddistinguono la normativa sull’ambiente.


In sostanza, gli autori hanno evidenziato che, applicando alla lettera la definizione di discarica, si giungerebbe alla conclusione che qualsiasi area in cui i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno si trasformerebbe automaticamente in una discarica abusiva (seguendo questa logica, anche un deposito temporaneo di un modesto quantitativo di rifiuti – ad es. tre metri cubi di imballaggi – sarebbe considerato una discarica abusiva se protratto per più di un anno – con tutte le gravi conseguenze dal punto di vista penale connesse alla realizzazione di una discarica abusiva).

Un’interpretazione acritica del dato letterale della norma, d’altro canto, condurrebbe al paradosso opposto: fino alla scadenza dell’anno si verserebbe in un’ipotesi di deposito temporaneo – e non si sarebbe, quindi, in presenza di una discarica, né legale, né abusiva – anche nell’ipotesi di accumulo di un enorme quantitativo di rifiuti pericolosi per un periodo inferiore all’anno.


(continua)

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